giovedì 28 novembre 2013

E finalmente Francesco uscì allo scoperto!

L'esortazione apostolica EVANGELII GAUDIUM ci mostra il cuore di Francesco, la sua fede, il suo modo di sognare una Chiesa che intraprende il suo exodus verso il mondo e i poveri: per fare cosa? Solo il suo dovere: evangelizzare, portare cioè la gioia di un annuncio lieto, bello agli uomini: che Dio li ama.
Essere cristiani che significherà così dunque? Essere i "cooperatori della vostra gioia" come era il motto di Benedetto XVI e della sua ansia di evangelizzare presentando il messaggio cristiano, prima che una dottrina o un'etica, un gioioso incontro con Cristo che salva. Una esortazione dunque in cui c'è tutta la testa di Benedetto e tutto il cuore di Francesco, da leggere, anzi da bere tutta in un sorso, come acqua fresca per l'anima pur sgorgante da un'antica sorgente!
E la Chiesa si rinnoverà ritornando a se stessa.
Grazie, papa Francesco!

domenica 24 novembre 2013

Ecco cosa è la forma cattolica del credere!!!

Niente di più eloquente di questa immagine:
il Papa che tiene in mano le reliquie di san Pietro mentre si canta il credo.
Pietro e la fede.
Pietro e la sua fede.
Pietro la roccia della fede.
Pietro a fondamento della fede della Chiesa.
Pietro "Pastor et nauta".
Pietro clavigero del regno.
Per Petrum, cum Petro, in Petro, sub Petro.
Questa è la nostra fede.
Questa è la fede della Chiesa.
E noi ci gloriamo di professarla, in Cristo Gesù nostro Signore.


mercoledì 13 novembre 2013

Saluto del vicario foraneo di Scicli per l'apertura della visita pastorale del vescovo

Eccellenza Reverendissima,
è con gioia e con affetto che oggi la accogliamo fra di noi per l’inizio ufficiale della visita pastorale nella nostra città. Lei già conosce la nostra città per la sua ripetuta presenza nelle nostre chiese in occasione delle cresime e di tante altre celebrazioni che lei ha voluto presiedere nelle varie parrocchie del nostro vicariato e in altri eventi in cui ha potuto incontrare non solo la comunità cristiana ma anche la comunità civile di Scicli.
Ma oggi si può dire che il nostro incontro assume i crismi della ufficialità nel senso più bello del termine: ufficialità da officium – dovere / responsabilità: lei è infatti qui a svolgere il suo ufficio di Pastore proprio della chiesa locale che è stata affidata alle sue cure, la visita al gregge che lei è chiamato a pascere con la parola, i sacramenti, il suo stesso buon esempio.
Ed è un officium anche per tutti i fedeli di Scicli che si riconoscono guidati dal suo ministero pastorale e nel quale e dal quale, ognuno per il modo suo peculiare, tutti sono coinvolti e stimolati. Poiché per noi accoglierla non è un mero atto di cortesia ma un vero evento di Chiesa e quindi direi quasi un’esperienza teologale.
La accogliamo anzitutto noi parroci che condividiamo con lei il munus pastorale del gregge di Dio in quelle porzioni della chiesa locale che sono le parrocchie, e che, insieme con gli altri presbiteri e diaconi ci sforziamo di servire per la formazione e la crescita di comunità cristiane autentiche che credano in ciò che celebrano, che annuncino ciò che credono e vivano ciò che annunciano.
La accolgono le comunità religiose, i membri delle Associazioni, dei Movimenti e dei Gruppi ecclesiali che sono impegnati tutti nell’essere anticipo e realizzazione fattiva dell’avvento del Regno, specie nell’esercizio della carità e nel servizio ai poveri e ai bisognosi.
La accolgono i fedeli tutti delle parrocchie che vivendo nella quotidianità del lavoro e della vita familiare si sforzano di vivere la loro fedeltà al vangelo nella trama delle opere e dei giorni che richiedono di essere fecondati dalla forza rinnovatrice dello Spirito.
Ma oggi la accoglie anche la comunità civile di Scicli, non connotata da coloriture religiose o ideologiche, ma forte di quella sana laicità che vede nella collaborazione tra le istituzioni civili e quelle religiose il terreno propizio per la costruzione del bene comune a servizio della persona nella integralità della sua persona.
E ciò che dico non vuol essere solo un riconoscimento formale ma è frutto di una vera e leale collaborazione sperimentata negli anni passati e che proprio nell’ultima tragedia dello sbarco degli immigrati eritrei a Sampieri e della morte per tredici di loro, che ha scosso profondamente la nostra città, ha visto fianco a fianco le nostre autorità in testa e poi tutti i rappresentanti delle istituzioni, dei presidii militari e sanitari, insieme a noi sacerdoti e fedeli e a tutti gli uomini di buona volontà nella prima accoglienza sulla spiaggia dei sopravvissuti, nella composizione dei cadaveri, nel supporto dato ai parenti venuti per il riconoscimento delle vittime e per il funerale, che non è stato il funerale – e la riprova è stata la celebrazione ieri del trigesimo – di forestieri sconosciuti ma il saluto commosso a tredici giovani che la città – se così si può dire – ha adottato e sentito come figli: lo abbiamo espresso in quel drappo cremisi, il colore della nostra città, che ha stretto in un abbraccio commosso quelle tredici bare. Una commozione sentita ancora da tanti che recandosi al cimitero dai loro cari non hanno mancato in questi giorni di porre un fiore anche sulle loro tombe.
Perché Scicli è stata e vuole continuare ad essere la città della accoglienza e della solidarietà verso tutti. Ha ben ragione lei nel dire che prima ancora di aprire spazi per l’accoglienza, bisogna aprire i cuori: perché l’accoglienza prima che essere un problema logistico è un problema di affetto e di cuore. Ebbene eccellenza, le posso assicurare che tanti cuori di cristiani e non cristiani a Scicli sono già aperti e che da questi cuori scorrono fiumi sotterranei di quella carità che magari non fa notizia e che pure si fa vicinanza concreta e solidale col fratello che  soffre. E tanti altri sono i cuori in attesa di un evento che li faccia aprire, che li faccia sbocciare come fiori al sole della fraternità.
Ecco, eccellenza, mi piace immaginare la sua visita – come fra l’altro lei l’ha voluta scegliendo di dare la priorità delle visite agli ammalati e dell’ascolto dei poveri e delle loro vicissitudini ed attese – come a quell’evento di grazia che tocchi ogni sciclitano nel profondo e lo interpelli e lo spinga a interrogarsi sul senso reale della propria esistenza, e lo spinga soprattutto a decidersi per una vita vissuta nella fraternità: una vita autenticamente umana e dunque veramente cristiana.
Questo auguro a lei come frutto del suo ministero, questo auguro ad ognuno di noi sciclitani.
Dunque Eccellenza, benvenuto fra noi, cammini con noi, si senta uno di noi.




venerdì 1 novembre 2013

Actus credendi non terminat ad enuntiabile sed ad rem ipsam.


C'è un principio in teologia che è anche principio per la spiritualità e per la catechesi:
Come dire: l'atto del credere non finisce nella enunciazione di cosa o in chi si crede, ma nella esperienza stessa dell'oggetto del credere.
Cioè che il credere non è semplicemente un fatto di "enunciazione" di dogmi di fede (un tempo si parlava di fides quae creditur, cioè di contenuti di fede che sono creduti appunto dal "credente") anche se questo aspetto, che comporta l'impegno a rendere intelligibile la stessa fede, a mostrane le ragioni e perciò la sua razionalità, è certamente importante e necessario, giacchè - e ce lo ricorda continuamente papa Benedetto - la fides non può mai essere separata o prescindere dalla ratio.
Ma l'atto del credere non può mai essere ricondotto ad un puro atto - illuministicamente - di comprensione intellettuale: il comprendere razionalmente, ad esempio, come il dogma fondi ed esprima la coesistenza in Gesù Cristo della divinità con l'umanità, è certamente fondamentale ed importante, ma questo non significa ipso facto che questo sia automaticamente un atto di fede, un actus credendi. Anzitutto perchè a questa comprensione può addivenire anche un ateo, senza implicare alcunchè di fede. Ma poi, soprattutto, perchè l'esperienza della salvezza (cioè il perdono dei peccati e il dono della vita eterna) non è il frutto della comprensione intellettuale del fedele: se così fosse saremmo in presenza non più della fede cristiana ma di una pura e semplice esperienza di gnosi (che in greco significa conoscenza), cioè appunto di conoscenza intellettuale, in cui si crede che per il semplice fatto che io ho compreso una verità di vita (ho cioè avuto - come si dice in gergo - una "illuminazione" intellettuale) io sia automaticamente già salvo!
La gnosi è stato il pericolo più sottile e insidioso del cristianesimo, nei suoi duemila anni di storia, e anche oggi si ricicla nella teoria dei "valori" o dei "pricipii" del cristianesimo.
Ma ridurre la fede ad alcune enunciazioni di alti ideali (più o meno condivisibili anche da chi vive in altre fedi o non è animato da nessuna fede), quali quelle oggi di moda: la pace, la giustizia, i diritti, la natura, e via di seguito, significa snaturare l'essenza stessa del cristianesimo.
Il cristiano non è colui chiamato a vivere di belle idee! E' colui che è chiamato a vivere l'incontro con una persona, Gesù Cristo, capace di cambiarti la vita.
Per questo noi parliamo di "esperienza di fede": cioè di un atto del credere che coinvolge non solo l'intelletto ma tutte le dimensioni dell'esistenza (e perciò oltre alla  fides quae creditur   
occorre sempre anche la   fides qua creditur  cioè la fede per mezzo della quale si crede, in pratica quell'atteggiamento fondamentale di affidamento della propria persona nelle mani di colui che si riconosce come il proprio Signore e Salvatore).
Allora si capisce meglio il principio enunciato all'inizio.
L'atto del credere, cioè il mio cammino di fede, non finisce quando io comprendo che Gesù è il Signore e il Salvatore, ma quando io di questa stessa salvezza concessami in Cristo e per Cristo ne faccio una esperienza piena,completa, personale.
Che questo sia un principio fondamentale per la teologia dovrebbe essere evidente di per sè: perchè la vera teologia non è mai riconducibile solamente ad una dotta discussione "su Dio" (questa la può fare anche un ateo, abbiamo detto) ma è sempre anche intelligenza piena e quindi esperienza vitale di Dio! Cosicchè non ci può essere vero credente che non sia anche "teologo" e non ci può essere teologo senza che sia anche un vero credente.
E' la lezione di San Tommaso d'Aquino, capace di innalzare la mente nelle esplorazione delle alte vette di Dio, ma poi anche di saper piegare le ginocchia davanti al Santissimo Sacramento e di saper dire che davanti al mistero della transustanziazione dove falliscono la vista, il tatto e il gusto, solo la fede è capace di fondare l'atto del credente: e forse il dramma di oggi è quello di avere tanti sedicenti teologi ma pochi veri credenti!
Se questo è dunque un principio teologico non astratto ma esistenziale, allora è anche il fondamento della vita spirituale: non si comprende come si possa avere vita spirituale (che poi significa vita di grazia, nello Spirito Santo, cioè esperienza della presenza salvifica di Dio in Cristo nella nostra persona) senza che questa sia per l'appunto esperienza, e non solo precomprensione razionalista di tecniche e metodi mentali di "accaparramento del sacro" che si fermano al chiacchiericcio senza attingere alla rem ipsam cioè alla stessa esperienza della grazia e della salvezza, riducendosi a forme di autogratificazione personale, al limite dell'autoerotismo psicologico.
E la garanzia che si arriva a vivere, a sperimentare il dono della grazia, cosa in cui consiste di fatto l'esperienza della salvezza, è data dall'inveramento del principio nell'esperienza liturgico-sacramentale. Giacchè l'esperienza della salvezza di Cristo è possibile oggi solo attraverso i sacramenti e nella liturgia della Chiesa, dire oggi che l'atto del credere non si conclude con l'enunciazione del dogma ma deve arrivare alla ipsam rem  della salvezza, vuol dire concretamente che la confessione della fede deve terminare nell'esperienza sacramentale. Non c'è fede senza Sacramento. Non c'è proclamazione di fede che non nasca dunque dalla Parola e dal suo accoglimento, ma che non si concluda nel Sacramento. 
Nel Battesimo-Confermazione anzitutto come a conclusione del cammino di conversione (e nei sacramenti collegati del perdono che sono la Confessione e l'Unzione dei malati); e poi nei sacramenti della vita nuova del servizio ecclesiale (Ordine e Matrimonio) ma soprattutto nel Sacramento dell'Eucaristia che della vita nuova in Cristo è centro. 
Ciò vuol dire allora che questo principio teologico è anche il principio che sottostà a tutto l'impegno catechistico. A cosa deve tendere infatti la catechesi se non ad una pedagogia della fede che accompagni il cristiano non solo a saper confessare la sua fede e a renderne ragione, cioè a saper interiorizzare ed esprimere i contenuti del suo credere perchè ne risulti tutta la sua razionalità e credibilità e il credere non sia ridotto a miti e favole per bimbi, ma che arrivi anche e soprattutto a far fare di quella fede confessata una esperienza celebrata nei sacramenti e vissuta nelle varie dimensioni dell'esistenza personale del credente?
Una catechesi che non sbocchi nella celebrazione sacramentale dà solo l'illusione di un cammino compiuto, che si arresta invece proprio davanti alla porta dell'esperienza della salvezza che pur vorrebbe favorire! Non solo: staccando poi l'esperienza di fede dal percorso dell' intellectus la stessa esperienza sacramentale viene ridotta ad una esperienza o magica o puramente estetica o ad una pura esperienza celebrativa ridotta ad una cerimonia avulsa dalla realtà del credente, incapace di produrre frutti di grazia (cioè di attingere alla pienezza dell'esperienza di salvezza se non per il minimo vitale dell' ex opere operato) e quindi anche di sostenere l'impegno del credente in una coerente testimonianza di vita. 
Così abbiamo percorsi catechistici che si riducono solo all' enuntiabile (quasi percorsi scolastici paralleli incapaci di toccare il cuore dei credenti) oppure ispirati solo ad una esperienza di fraternità cristiana ridotta però al solo humanum del "vogliamoci bene, come è bello stare insieme!".
Questo spiega perchè tanti bambini e ragazzi, pur frequentando il catechismo il sabato non riescano poi a comprendere le ragioni della partecipazione alla Messa domenicale; o perchè tanti ragazzi e giovani abbandonino la vita sacramentale al culmine della iniziazione cristiana, quando questa vita dovrebbe prendere le mosse  proprio dalla pienezza della iniziazione che dovrebbe vedere nell'Eucaristia (e non nella Cresima) la fonte ed il culmine di tutta la vita cristiana, come insegna il Concilio Vaticano II.
Riscoprire l'impegno educativo della Chiesa - come è detto nel progetto delle Chiese in Italia per questo decennio - significa a mio avviso ripartire anzitutto da una comprensione della catechesi come accompagnamento pedagogico che aiuti ad entrare pienamente nel mistero della salvezza, che niente altro è che la stessa esperienza della misericordia divina rivelata a noi nel Cristo e diffusa nel nostri cuori dallo Spirito Santo. E' per questa misericordia che noi siamo salvi e ci è data in dono la vita nuova.  E perciò una catechesi vera conduce a sperimentare la misericordia divina nei sacramenti della Chiesa. E solo una sapiente mistagogia (cioè di introduzione ai sacramenti per ritus et preces) saprà rendere l'esperienza sacramentale della misericordia la base per una coerente testimonianza di vita. Se vogliamo cristiani capaci di essere annunciatori dell'amore di Dio, dobbiamo avere prima cristiani che di questo amore ne facciano esperienza vera e sincera.
L'impegno è dunque quello di non essere solo enunciatori, quanto sperimentatori della salvezza. 
Per poi vivere l’impegno della vita nuova.           

IO ACCUSO…

Tra epidemia e calura estiva è passato sotto silenzio un importante responso della Congregazione della Dottrina della fede e approvato in pr...