giovedì 31 dicembre 2015

anno nuovo vita nuova

Nel tempo che scorre l’uomo può attingere all’eternità di Dio e dalla sua bontà, sperimentata attraverso le cose buone che ha creato, arrivare alla benevolenza verso l’altro. D’altronde la parola “anno” in ebraico ha la stessa radice del numero due, inteso come dualità e ripetizione: è la ripetizione ciclica del tempo che però lungi dal far ripiegare l’uomo su se stesso lo invita sempre ad aprirsi all’altro: il due infatti è il Bet, la casa che ha sempre la porta aperta perché si deve essere pronti ad accogliere gli ospiti e ad uscire per soccorrere i bisognosi. L’anno che ritorna è perciò la possibilità sempre riofferta dell’inizio di una vita nuova. Al di là delle alchimie sulle parole e sui numeri credo però sia importante scoprire allora il vecchio detto “anno nuovo, vita nuova”. Credo infatti che - se inteso nel giusto modo - parlare di buoni propositi e di buone intenzioni non sia all’inizio dell’anno nuovo un gesto “spropositato”. Non perché all’inizio dell’anno nuovo abbiamo bisogno di oroscopi rassicuranti e di debiti scongiuri per esorcizzare la paura del nuovo, del futuro che vogliamo migliore (ma in cosa poi ?) a tutti i costi ! In questo senso anche fare e scambiare auguri sarebbe ancora un rito pagano! Non perché sia poco educato parlare di bontà ed essere buoni per capodanno, né perché “porti sfiga”, come vulgariter si dice, comportarsi altrimenti (e allora meglio premunirsi con i talismani d’occasione, mutande rosse in prima fila !).
Ma perché credo che l’uomo, ogni uomo, debba a se stesso la possibilità di una sempre ulteriore “chance”: non c’è fallimento da cui non si possa uscire, sconfitta da cui non ci si possa risollevare... e non per concessione di altri ma per il rispetto estremo che dobbiamo a noi stessi, e alla dignità e al valore della vita di cui siamo portatori e che per primi siamo chiamati a rispettare. L’uomo è un animale “simbolico”: ha bisogno di simboli per comunicare il proprio intimo e di eventi simbolici che lo stimolino a esprimersi per quello che è. L’inizio del nuovo anno ha appunto questa valenza simbolica: della nuova opportunità di vita che l’uomo da a se stesso e, per chi crede, che Dio prima ancora concede ad ognuno. Di ricominciare : non importa se da zero o da tre o da quattro : l’importante è ricominciare. Ecco perché penso che questa sia un’occasione da non banalizzare : ben vengano feste e brindisi, ma non tanto per scordarci il passato quanto per aprirci positivamente al futuro. E’ bello, per me credente, pensare all’inizio del nuovo anno ad un Dio che ti dice “non preoccuparti del passato : ecco ti è concessa una nuova occasione per fare quello che non hai fatto, per riparare quello che hai fatto male, per costruire qualcosa di nuovo”. Ma credo che sia bello per tutti, anche per chi non crede, sentire che all’inizio del nuovo anno ti venga data dall’Altro (e perciò dagli altri) un supplemento di fiducia. Mi ha fatto sempre impressione quella parabola in cui al contadino che vuole subito tagliare l’albero che non ha dato frutti il Signore del campo risponde : “no, lascialo ancora per un altro anno”. Ecco il punto : abbiamo bisogno di dare e ricevere fiducia. E forse l’inizio del nuovo anno è l’occasione per dirci scambievolmente “io ho fiducia in te” ! E forse le cose nel nuovo anno così andranno meglio ! Ingenuità la mia ? certamente ! Utopia, sogni ? certamente ? Dice però Leonardo Boff: “soltanto l’essere umano sogna nel sonno e nella veglia mondi nuovi, dove esistono rapporti più fraterni e un nuovo cielo e una nuova terra: le utopie non sono meccanismi di fuga facile dalle contraddizioni del presente. Esse appartengono alla stessa realtà dell’uomo come essere che continuamente progetta, disegna il futuro, vive di promesse e si alimenta di speranza. Sono le utopie che impediscono all’assurdo di impadronirsi della storia...”. Perché non sognare allora, all’inizio del nuovo anno, un mondo nuovo ? Perché non sognare con Paolo VI che volle proprio il 1° gennaio di ogni anno la celebrazione della giornata della Pace, proprio per pensare all’inizio del nuovo anno a quella civiltà dell’amore che tutti sogniamo ? L’Utopia, “l’isola-che-non-c’è”, la raggiunge solo chi ha il coraggio dell’avventura :  “Ti piacerebbe correre un’avventura?” Così Peter Pan domanda a Wendy, quell’eterno bambino che non sa resistere alle avventure! La unicità e la irripetibilità delle persone e delle situazioni, le incognite della storia, il mistero dell’uomo e quello ancora più insondabile di Dio -tutte cose che ci fanno scontrare con l’inutilità delle ricette e delle formule precostituite - sono tutte cose queste che ci spingono all’inizio del nuovo anno verso l’avventura (letteralmente appunto ad-ventura: verso le cose che stanno per venire)! E a Wendy che non sa volare, Peter Pan svela il segreto: per saper volare bisogna pensare cose stupende! E la cose stupenda è la bontà di cui ognuno è portatore per sé e per gli altri : e la bontà sa non solo sognare ma anche fare cose stupende ! BUON ANNO a tutti dunque verso l’isola-che-non-c’è, e non dimenticate l’indirizzo: “seconda strada a destra e poi diritto fino al mattino”!!!

sabato 26 dicembre 2015

Laicità o anticlericalismo?

L’Italia è il paese delle dietrologie (“chissà quali progetti politici ci stanno sotto - qualcuno si chiede, ad esempio, non appena i cattolici scendono in piazza, o – forse la ricostituzione del partito cattolico? Quanti voti stanno raccogliendo per le prossime elezioni?” ), è la nazione in cui non si riesce assolutamente ad uscire dal “particolare” e a pensare un po’ più in grande e al di là dei propri interessi , è la patria di un preteso laicismo che in realtà è solo sinonimo di anticlericalismo! Certe espressioni e certe prese di posizione ricordano l’atteggiamento massone e liberale che si respirava al tempo dell’unità d’Italia. In Italia la Chiesa fa comodo solo quando si allinea sulle posizioni degli altri “illuminati”, se invece si azzarda a rimanere fedele al suo mandato e canta “fuori dal coro” allora non ha più diritto di parola! Bella libertà e democrazia! Un esempio: in qualsiasi libreria della laica Francia si possono trovare Bibbie e le pubblicazioni delle editrici cattoliche; in Italia questo non avviene nemmeno per sogno: noi cattolici abbiamo dovuto creare le librerie “cattoliche” per poter vendere i nostri libri ( con le conseguenze economiche che si possono immaginare). Allora di quale laicità si parla? Di quale valori dell’Illuminismo cui molti si richiamano si discute? Peccato: spesso in tante situazioni si perde l’occasione di fare silenzio e, meglio ancora, di dare mostra di non essere schiavo dei propri pregiudizi. Perché si sbaglia sempre la domanda di fondo: non è detto che si debba essere  necessariamente “contro” qualcuno! Lo ha ribadito lo stesso Papa Giovanni Paolo II nella sua ultima giornata dei giovani a Roma, quando ha ricordato ai giovani che il secolo uscente ha visto tante altre adunate oceaniche: chiamati a raccolta per essere mandati contro qualcuno, seminando odi e rancori. Stavolta – ha detto il Papa – non è così: voi non siete mandati contro qualcuno, voi siete mandati “per” qualcuno, per il fratello, ogni fratello, che voi incontrerete sul vostro cammino, per creare un mondo di fraternità, una civiltà dell’amore. Il fuoco da accendere è ben diverso da quello dei nazionalismi, da ogni particolarismo che inevitabilmente sfocia in conflitti e guerre, è il fuoco dell’amore: citando Caterina da Siena (e chi può negare alla mistica la sua “passione civile”?) il Papa ha detto ai giovani “se avrete il coraggio di essere quello che dovete essere, brucerete il mondo”! Perché chi parla di libertà, fraternità e uguaglianza invece non è contento di questo?


sabato 19 dicembre 2015

La cavalcata di san Giuseppe: parliamone prima con calma. Ecco cosa scrivevo nel 2000. Cosa rimane e cosa è cambiato?

Confesso di essere stato il primo  a stupirmi del dibattito animato intorno alla Calvalcata. E non per il solito rumore che si fa intorno a questo evento, a volte attento solo a note marginali o negative, quanto invece per la positività con cui - a mio parere - una collettività intera si è interrogata in fondo sulle proprie origini e sulle proprie tradizioni. Che nei crocicchi delle strade, nei bar, nei circoli, nei servizi televisivi  si parli di cavalli e bardature, ci si interroghi se bisogna rimanere fermi al modo tradizionale di cucire ‘u balucu’ nei ‘manti’ o se bisogna aprirsi a nuove tecniche, se conta di più il cavallo o il manto, se la cavalcata è ‘un’infiorata su cavalli’ o se basta un mazzo di fiori e un filare di campane per bardare un cavallo, che ci si interroghi se è giusta una premiazione o no e in che termini vada concepita... io credo che sia altamente positivo. Perché al di là delle discussioni più o meno animate e delle conclusioni alle quali si approda,  credo che il confrontarsi su un qualcosa che viene sentito come un patrimonio comune da conservare, da tenere vivo, da tramandare alle nuove generazioni  non possa che fare bene ad una città che, come qualsiasi collettività, se non vuole perdere la propria identità, se vuole guardare in modo serio al futuro, non può prescindere dalla propria storia e alla propria cultura. Spesso purtroppo ci si ferma alle banalità quotidiane, tirando quasi a campare da un giorno all’altro, senza avere il coraggio di confrontarsi né con il proprio passato né di proiettarsi con intelligenza verso il futuro. Come pure spesso chi potrebbe avere un ruolo determinante in questo progetto di recupero della memoria e della cultura della nostra cittadina si fa distrarre da motivi forse più alla moda o che solleticano di più il gusto di qualche elité piuttosto che aiutare un ripensamento serio sulle proprie radici. E’ facile sparare a zero su certe manifestazioni come obsolete, come è facile ridurre tutto a puro folklore e attrazione turistica : ma il contatto con tante persone che in occasione della Cavalcata e della festa di San Giuseppe ha voluto condividere con me la propria idea, magari raccontandomi qualche aneddoto in proposito, mi ha dato modo di vedere come ancora nonostante tutto non solo resistono tradizioni, ma resiste quella bontà, quella genuinità di fondo che  fanno di una tradizione una ‘sana’ tradizione ! E sono le sane tradizioni che a volte ci aiutano a trovare o ritrovare il gusto della vita. Quando  si vedono i volti di tutti, sia dopo la Cavalcata come dopo tutta la festa - ma il pensiero corre parallelo alla festa del Cristo Risorto per cui si potrebbe ripetere pari pari quanto stiamo dicendo a proposito di Cavalcata - ritornare sereni a casa, quasi soddisfatti per aver fatto una cosa che proprio così andava fatta, allora uno comprende come abbia ragione quel grande studioso di religiosità naturale che fu Mircea Eliade, nel definire queste esperienze come quelle - e solo quelle - capaci di far aprire il profano al sacro e dal sacro dare senso al profano e alla quotidianità dei giorni, la cui monotonia deve essere rotta dall’esperienza della festa, l’unica capace di sublimare il dolore dell’uomo. Perché la festa è importante e fondamentale anzitutto per chi la celebra, per chi ne è protagonista, per chi vi si lascia coinvolgere. E non per gli spettatori o i turisti. Perché questi vedono solo l’esterno, il folklore, la curiosità, ma poi se ne vanno. La festa è di chi fa festa ! La gioia è di chi fa la Cavalcata o di chi si ‘carica’ il Cristo Risorto : anche se non ci fosse un solo spettatore o un solo turista. Per questo credo che non bisogna indulgere a nessuna tentazione che vuol far diventare la Cavalcata o la festa dell’Uomo Vivo uno spettacolo da osservare o un evento compreso in un pacchetto prepagato per agenzie turistiche. L’evento culturale - e che qui si fonde col religioso - è ben altro. Altrimenti trasformeremo le nostre feste in eventi freddi come purtroppo avviene da alcuni anni ad esempio a Modica per la ‘Madonna vasa vasa’ in cui la gente assiste passivamente ad una rappresentazione portata avanti da alcuni operatori pagati dal Comune, o per le altre feste in cui i parroci devono pagare i portatori dei fercoli delle statue ! Oppure arriveremo a organizzare Cavalcata e Pasqua ad agosto per avere più turisti !  Qualcuno mi dirà magari che mi sono fissato a ripetere sempre le solite cose : è vero, ma è perché ci credo profondamente. Perché penso che sia questo mio compito, anche come prete. Perché tutta l’esperienza di fede biblica si basa su una categoria : quella del memoriale : l’uomo che non ricorda, l’uomo che non ha memoria, l’uomo che non coltiva la memoria attraverso la tradizione, cioè la trasmissione della memoria di padre in figlio, è un uomo morto. No, anzi, non è mai esistito ! E confesso che la cosa mi preoccupa ! 

giovedì 17 dicembre 2015

Omelia apertura porta giubilare a Scicli

<<La fede è la religione dei peccatori che cominciano a purificare se stessi per Dio>>
Così scrive il Beato cardinale Newman in una sua riflessione sul vangelo e la fede.
E’, a mio parere, una definizione che va al cuore della nostra esperienza di fede e che è anche in grado di illuminare non solo il rito dell’apertura della porta santa, ma lo stesso anno giubilare che il santo Padre ha voluto con decisione, nel voler reindirizzare tutto il cammino della Chiesa verso l’incontro di grazia e di misericordia con Dio Padre, per mezzo del Cristo suo Figlio, nella forza dello Spirito santo.

Religione di peccatori: così afferma Newman.
La nostra è una storia di peccato.
<<Un tempo non era così; l’uomo fu creato giusto, e allora vedeva Dio; cadde, e perse l’immagine e la presenza di Dio. Come potrà riacquistare il suo privilegio? … Egli lo perse col peccato; lo deve quindi riguadagnare con la purezza …>>
così scrive ancora il Cardinale Newman.
La fede cristiana niente altro è che lo scoprirsi peccatori e sentirsi orfani di Dio, scoprire ciò che il peccato ha provocato: la rottura della relazione e di comunione tra l’anima e colui che l’ha fatta.
A causa del peccato noi possiamo parlare alle sue creature, ma non possiamo parlare con lui.
La fede cristiana nasce dunque come consapevolezza di un ritorno, di un reindirizzamento della propria esistenza  verso il Dio Creatore e Signore di ogni cosa, come ci ha ammonito oggi Isaia:
Poiché così dice il Signore,
che ha creato i cieli,
egli, il Dio che ha plasmato
e fatto la terra e l’ha resa stabile,
non l’ha creata vuota,
ma l’ha plasmata perché fosse abitata:
«Io sono il Signore, non ce n’è altri.
Volgetevi a me e sarete salvi,
voi tutti confini della terra,
perché io sono Dio, non ce n’è altri.

Ma se la fede cristiana è esperienza del peccato, è ancor di più esperienza di perdono e di salvezza:
fede è religione di salvati
il peccatore, se lo vuole, può sperimentare che il Creatore è anche il Salvatore, colui che libera e riscatta dal peccato e dalla colpa. Il Dio giusto è colui che giustifica, cioè colui che giudica il peccato e salva il peccatore, come ancora ci ha ricordato Isaia:
Lo giuro su me stesso,
dalla mia bocca esce la giustizia,
una parola che non torna indietro:
Si dirà: «Solo nel Signore
si trovano giustizia e potenza!».
Dal Signore otterrà giustizia e gloria
tutta la stirpe d’Israele.

Ma come salva il Signore? Come giudica? Come rimette i peccati e le colpe?
<<Sia benedetto Dio e Padre del Signore nostro Gesù Cristo; nella sua grande misericordia egli ci ha rigenerati, mediante la risurrezione di Gesù Cristo dai morti, per una speranza viva, per una eredità che non si corrompe, non si macchia e non marcisce. >>  così inizia la prima lettera di Pietro.
La fede cristiana dunque si caratterizza proprio in questo suo specifico: essere l’esperienza di chi sa che la salvezza ci è donata da Dio per mezzo di Cristo suo Figlio.

Noi crediamo che, sì, davvero, hanno stillato, i cieli, dall’alto
e le nubi hanno fatto piovere la giustizia;

che, sì, davvero si è aperta la terra e ha prodotto la salvezza
ed è germogliata insieme la giustizia.

Sì, il Signore, ha creato tutto questo.

Verità germoglierà dalla terra:
Cristo, il Germoglio;

giustizia si affaccerà dal cielo: Cristo, il Frutto;

Amore e verità s’incontreranno, giustizia e pace si baceranno.
In Cristo giustizia e pace.
Cristo, il Giusto. L’unico Giusto.
Cristo il salvatore, come cantano gli angeli a Betlem:
«Non temete, ecco vi annunzio una grande gioia, che sarà di tutto il popolo: oggi vi è nato nella città di Davide un salvatore, che è il Cristo Signore.

Si, oggi noi non abbiamo più bisogno di aspettare altri salvatori:
«Sei tu colui che deve venire o dobbiamo aspettare un altro?».

Noi confessiamo il Cristo come il veniente: colui che è venuto, verrà e sempre viene a salvare.

Alla gente smarrita, oggi come ieri, in cerca di salvatori e salvezze, noi diamo il lieto annuncio, noi evangelizziamo la venuta del Salvatore e l’inaugurazione dell’anno di grazia del Signore:
«Andate e riferite a Giovanni ciò che avete visto e udito: i ciechi riacquistano la vista, gli zoppi camminano, i lebbrosi sono purificati, i sordi odono, i morti risuscitano, ai poveri è annunciata la buona notizia. E beato è colui che non trova in me motivo di scandalo!». 

Il solo Salvatore.
Lo annuncerà in modo franco San Pietro, il giorno di Pentecoste, a Gerusalemme:
<<In nessun altro c'è salvezza; non vi è infatti altro nome dato agli uomini sotto il cielo nel quale è stabilito che possiamo essere salvati».

E questa salvezza è dono gratuito, grazia:
<<Ma Dio, ricco di misericordia, per il grande amore con il quale ci ha amati, da morti che eravamo per i peccati, ci ha fatti rivivere con Cristo: per grazia infatti siete stati salvati>> così ricorda Paolo agli Efesini.

E’ Cristo, infatti la giustizia di Dio
Scrive papa Benedetto in un suo messaggio quaresimale: <<L’annuncio cristiano risponde positivamente alla sete di giustizia dell’uomo, come afferma l’apostolo Paolo nella Lettera ai Romani: “Ora invece, … si è manifestata la giustizia di Dio... per mezzo della fede in Gesù Cristo, per tutti quelli che credono. Infatti non c’è differenza, perché tutti hanno peccato e sono privi della gloria di Dio, ma sono giustificati gratuitamente per la sua grazia, per mezzo della redenzione che è in Cristo Gesù. E’ lui che Dio ha stabilito apertamente come strumento di espiazione, per mezzo della fede, nel suo sangue” (3,21-25).
Quale è dunque la giustizia di Cristo? E’ anzitutto la giustizia che viene dalla grazia, dove non è l’uomo che ripara, guarisce se stesso e gli altri. Il fatto che l’“espiazione” avvenga nel “sangue” di Gesù significa che non sono i sacrifici dell’uomo a liberarlo dal peso delle colpe, ma il gesto dell’amore di Dio che si apre fino all’estremo, fino a far passare in sé “la maledizione” che spetta all’uomo, per trasmettergli in cambio la “benedizione” che spetta a Dio (cfr Gal 3,13-14).
In realtà, qui si dischiude la giustizia divina, profondamente diversa da quella umana. Dio ha pagato per noi nel suo Figlio il prezzo del riscatto, un prezzo davvero esorbitante>>.
Ma se l’uomo è stato giustificato in Cristo, quale è questo cammino di purificazione che l’uomo deve compiere, di cui parla il Cardinale Newman?
Non sono opere frutto di volontarismo umano e protagonismo narcisista, quanto invece un aprirsi alla grazia della salvezza attraverso la conversione e il coinvolgimento nella stessa opera salvifica della croce attraverso i sacramenti.
Ecco allora il senso del Giubileo:
anzitutto un cammino di conversione: esso mette in evidenza che l’uomo non è un essere autarchico, ma ha bisogno di un Altro per essere pienamente se stesso. Convertirsi a Cristo, credere al Vangelo, significa in fondo proprio questo: uscire dall’illusione dell’autosufficienza per scoprire e accettare la propria indigenza - indigenza degli altri e di Dio, esigenza del suo perdono e della sua amicizia.
E poi un modo, attraverso le indulgenze e le opere penitenziali, un modo per immergersi nella grande ricchezza della giustizia divina, con umiltà:
giacché - aggiunge ancora papa Benedetto - <<occorre umiltà per accettare di aver bisogno che un Altro mi liberi del “mio”, per darmi gratuitamente il “suo”. Ciò avviene particolarmente nei sacramenti della Penitenza e dell’Eucaristia. Grazie all’azione di Cristo, noi possiamo entrare nella giustizia “più grande”, che è quella dell’amore (cfr Rm 13,8-10), la giustizia di chi si sente in ogni caso sempre più debitore che creditore, perché ha ricevuto più di quanto si possa aspettare>>.
Solo da questa esperienza della giustizia più grande, dell’amore, che poi si riesce a comprendere il dono di se stessi, nell’amore del Cristo, ai fratelli e al prossimo.
<<Non c’è amore più grande che dare la vita per i fratelli>>.
Senza questo orizzonte di fede le stesse opere di misericordia e gli atti di carità che siamo chiamati a porre come segno della vita nuova in Cristo, si riducono a meri gesti di filantropia.
Accogliamo dunque oggi l’appello alla conversione che ci viene da Dio tramite la Chiesa:
Ascolterò che cosa dice Dio, il Signore:
egli annuncia la pace.
Sì, la sua salvezza è vicina a chi lo teme,
perché la sua gloria abiti la nostra terra.

Cari fratelli e care sorelle,
quest’anno santo celebreremo in modo speciale la giustizia divina, che è pienezza di carità, di dono, di salvezza. Che questo tempo giubilare sia per ognuno di noi tempo di autentica conversione e d’intensa conoscenza del mistero di Cristo, venuto a compiere ogni giustizia e a rivelare il cuore misericordioso del Padre.
A lui sia gloria nei secoli dei secoli. Amen.


mercoledì 16 dicembre 2015

L'asino, il bue... e la nuova creazione

Alluvioni e disboscamento, sconvolgimenti climatici … C’è di che parlare, anzi se parla già molto. Forse troppo. E come al solito tanti parlano per tirare le ragioni dalla propria parte. Io direi che anzitutto c’è di che pensare. Perché molti riducono il tutto ad un problema “tecnico”: quasi fosse solo un problema di migliore organizzazione, di protocolli di comportamento da definire. E con buona pace di tutti – per me - non è nemmeno politico ( se non per qualche suo aspetto). Prima ancora io direi che è un problema culturale e – per chi crede – un problema teologico. Ma non in senso riduttivo (come una lettura fondamentalista della Bibbia potrebbe indurre a credere) , falsamente apocalittico, per cui la rovina del creato sarebbe l’indizio della prossima fine del mondo, ma secondo una vera lettura del testo biblico in cui i dati dell’Apocalisse (ma anche alcuni significativi testi paolini) riprendono le idee della Genesi e di tutta la tradizione biblica. Tradizione che si potrebbe sintetizzare nella seguente affermazione: pur avendo in sé anche una radice ontologica diversa, l’uomo condivide il suo essere “animale” (nel senso etimologico di possessore del “respiro della vita”) con tutte le altre creature, e per il suo essere fatto di polvere del suolo condivide poi la stessa finitudine di tutta la materia del creato. Per questo c’è una solidarietà tra l’uomo, gli animali e il creato più stretta (e quindi più vincolante) di quanto si possa immaginare a prima vista. Per questo un salmo può affermare “uomini e bestie tu salvi, Signore”. Anzi il destino della salvezza per Paolo si estenderà a tutta la creazione che per ora geme e soffre “le doglie del parto” finché “Dio sarà tutto in ogni cosa del creato”. Il ruolo dell’uomo allora qui non è certo quello di un dominio (che si è in pratica tradotto in sfruttamento irrazionale del creato) ma di una salvaguardia “attiva” che conduce pian piano il creato tutto verso la consapevolezza piena (la “noosfera” di Theilard De Chardin) della sua finalità teo-logica. Perché il “paradiso” non sarà il luogo della beatitudine solo delle anime (ahi! Dante, quanti danni hai fatto!): sarà la “nuova creazione”, cioè l’universo interamente rinnovato e giunto alla pienezza per cui era stato creato. Il racconto del primo capitolo della Genesi ci mostra un principio che è anche la descrizione della meta finale. Ecco perché la Bibbia ci parla non solo di immortalità dell’anima (ahi! Benedetta filosofia greca infiltrata nella teologia, anche tu quanti danni hai fatto!) ma ci parla di resurrezione dei corpi: il che già a dirsi è radicalmente diverso!
Confesso che il tema del creato è, anche per un prete, un tema difficile da affrontare senza aver prima superato tanti pregiudizi, primo fra tutti un “antropocentrismo” sbagliato che ci fa sentire al centro del mondo e isolati dominatori dell’universo. Non è un problema di ecologia o ambientalismo o animalismo, né si può risolvere il tutto dell’unico destino dell’uomo e del creato facendolo discendere dalle scimmie. E’ il problema di reimpostare un nuovo rapporto con tutta la creazione, a partire dagli animali. La Bibbia testimonia episodi quale quello dell’asina di Balaam capace di vedere l’angelo del Signore e di rimproverare il profeta che invece non l’aveva visto (bellissima la meditazione di Paolo de Benedetti in proposito). E gli animali a Ninive faranno anch’essi penitenza per la predicazione di Giona. Ma anche la tradizione – e ci fermiamo a Scicli – ci parla dei buoi che tiravano il carro col feretro di San Guglielmo che decidono la chiesa dove deve essere seppellito, o dei buoi che a Jungi si inginocchiano indicando il luogo dove era stata sepolta la pisside con il Santissimo Sacramento rubata a Santa Maria La Nova. Per non parlare del Francesco che predica agli uccelli e parla col lupo. E se non fossero solo fioretti?
E’ questa la domanda che mi sto portando dentro in questi giorni: “e se la storia della mucca pazza ci dovesse costringere non solo a cambiare abitudini alimentari ma il nostro stesso rapporto con gli animali? E se il buco dell’ozono ci dovesse costringere non solo a trovare fonti non inquinanti ma a ritornare a trovare nei cieli anche la sede di Dio?”
Allora forse l’asino e il bue, la stella e gli angeli del presepe quest’anno ci diranno qualcosa di più. E forse diventeremo non soli più buoni.

Buon Natale.

lunedì 14 dicembre 2015

Natale festa della pace


Il tema  può sembrare a prima vista o banalmente scontato o sottilmente provocatorio.
Scontato, giacché per chi è cristiano è ovvio che l’incarnazione del Verbo e la sua Nascita, così come tutta la sua storia di salvezza culminata nella morte e risurrezione di Cristo, è l’evento da cui è scaturita e può ancora scaturire una esperienza di pacificazione ai vari livelli di relazione umana (con Dio, con gli altri uomini, con tutto il creato).
Provocatorio, perché – specie per chi non crede affatto o è seguace di qualche altra religione – il nesso tra nascita di Gesù Cristo, e quindi dell’affermarsi dell’esperienza cristiana, con la pace non sembra così consequenziale. Anzi, addirittura proprio per stare in pace, specie nel rapporto con altre istanze religiose, qualcuno ad esempio ha proposto di non celebrare più il Natale o di non porre i segni della memoria natalizia di Gesù nei luoghi pubblici. In questo senso sembrerebbe che proprio il Natale sia alla base di litigi e contese. Ma è davvero così?
Per sgombrare il campo da ogni equivoco, chiariamo anzitutto come la memoria del Natale, e quindi del suo rimando alla persona di Gesù di Nazaret, solo da chi pensa in modo ignorantemente acritico e superficiale può essere erroneamente intesa in modo offensivo nei riguardi delle altre due fedi dichiaratamente monoteiste.
L’ebraismo ufficiale ed ortodosso ha da tempo superato e sue preclusioni nei riguardi di Gesù, considerato oggi in tutta la sua ebraicità come un grande ed illustre Rabbi, anzi, ci sono studi in cui è in piena riconsiderazione e rivalutazione il suo rapporto con Dio e la sua “messianicità”, seppur in senso lato: in questo senso certo non dispiace agli ebrei la celebrazione di un loro fratello illustre.
Come pure è solo frutto di pregiudizio il fatto che si creda che la realizzazione del presepe in classe o l’organizzazione di recite scolastiche con la rievocazione della nascita di Gesù possa urtare od offendere il credo o la sensibilità dei fedeli musulmani.
Al contrario invece bisogna sottolineare cinque punti fondamentali per la fede islamica a partire dai dati presenti nel Corano: Maria è considerata donna eletta da Dio ed è onorata perché sempre vergine; Dio è lodato per la sua onnipotenza perché ha fatto partorire una vergine senza intervento umano; Gesù, il figlio di Maria, è dopo Maometto, il più grande profeta di tutti i tempi antichi; Maria e Gesù ancora oggi sono molto venerati nel mondo islamico come figure di vera obbedienza e sottomissione a Dio.
Nello stesso Corano grande spazio è dato poi al racconto della nascita miracolosa di Gesù, ispirata non ai vangeli canonici ma a quelli apocrifi, in particolare al protovangelo di Giacomo. Il racconto del Natale di Gesù è descritto nella sura 19 detta “sura di Maria”, il cui nome deriva dal versetto 16 della stessa sura.
Maria è la donna tramite la quale Allah ha voluto dare un segno particolare: “In verità o Maria Allah ti ha prescelta; ti ha purificata e prescelta tra tutte le donne del mondo” (III, 42) e il segno è stato Gesù suo figlio, nato per volontà dell'Altissimo, divina creazione nella generazione umana: “...un segno per le genti e una misericordia da parte Nostra” (XIX, 21). Tutta la vicenda di Maria è dolcemente contraddistinta dall'abbandono ad Allah e da una purezza delle intenzioni che ne fa una figura angelicata;  Maometto disse che Maria, insieme a Fâtima, Khadîja e Asiya (la sposa di Faraone che salvò Mosè dal Nilo) è una delle signore del Paradiso.
La festa del Natale dunque non può essere portata a pretesto per fomentare uno scontro tra le religioni.
Anzi, più che muro potrebbe diventare un ponte per gettare le basi di una pacifica convivenza civile nel rispetto e nella collaborazione tra credenti di fedi diverse.
Ma credo che, al di sopra di questo livello interreligioso, ci sia un altro livello su cui riflettere sul senso della celebrazione del Natale di Gesù oggi.
Proprio guardando all’evento stesso di cui si fa memoria a Natale.
La fede cristiana afferma che Gesù è il Logos, il Verbo di Dio, che si fa carne, che si fa uomo: pur nella difficoltà di dire in parole e concetti umani il mistero indicibile dell’eterno, qui si vuole dire che il Logos, o se si vuole la Ratio, la divina sapienza, con cui il mondo è stato creato e ordinato e che continua a reggere e dare fondamento a tutta la creazione, proprio questo Logos si è fatto carne ed è venuto come uomo ad abitare in mezzo a noi, come ci ricorda il Prologo del vangelo di Giovanni.
Proprio questa affermazione è capace di riconciliare, e quindi essere fonte di pace, diverse istanze che a prima vista a qualcuno potrebbero sembrare inconciliabili.
Giacché è lo stesso Logos, la stessa Ratio presente nella creazione e nell’incarnazione, non ci dovrebbero essere contraddizioni o lotte tra ragione e fede cristiana, tra scienza e fede, tra natura e grazia.
Una falsa concezione di secolarizzazione e di laicità ha creduto e crede che queste realtà siano invece irriducibili e irriconducibili al dialogo l’una con l’altra, quando invece si dovrebbe riconoscere che c’è ragionevolezza nella fede cristiana e che ci sono le ragioni della fede che la stessa ragione non comprende, per dirla con Pascal.
Se la fede senza ragione diventa integralismo, la stessa ragione se non è purificata dalla fede diventa pure integralismo intollerante.
Il rifiuto del Logos come cifra che misura l’esistenza non è forse all’origine della follia drammatica dei nostri giorni: ricordiamo che proprio “il sonno della ragione genera i mostri”.
Anche chi non crede può, dunque, unirsi ai cristiani in questa celebrazione del Logos/Ragione che è e deve essere a fondamento della vita umana privata e sociale. A tal fine Joseph Ratzinger, come teologo prima e come papa Benedetto XVI dopo, si è battuto per un dialogo col mondo contemporaneo, invocando il recupero del Logos a livello etico, politico e religioso.
Non invitò forse Benedetto a Ratisbona l’Islam a farsi purificare dalla Ragione contro ogni integralismo?
Non invitò forse Benedetto al Parlamento tedesco a ricondurre la politica nel solco della Ragione che solo può fondare una moralità per il bene comune?
La celebrazione del Logos incarnato allora davvero può essere fonte di pace.
“Gloria a Dio nelle altezze dei cieli e pace in terra agli uomini destinatari della buona volontà, della buona disposizione di Dio nei loro confronti!” 
Così cantarono gli angeli al campo dei pastori.
Questo è il senso dell’incarnazione del Logos: l’annuncio e il dono della pace per tutti gli uomini senza distinzione alcuna, perché tutti oggetto della benevolenza di Dio.

L’augurio è dunque che ogni celebrazione del Natale di Gesù sia un passo verso la pace e la fraternità, la giustizia e l’uguaglianza di tutti nel mondo intero.

sabato 12 dicembre 2015

Essere parroco

Sono Parroco di San Giuseppe di Scicli.

Una nomina che per primo ha sorpreso proprio me ! E  che mi ha riempito di gioia non tanto perché diventai parroco nella mia stessa città natale, ma perché mi diede l’occasione di ‘sdebitarmi’ in un certo senso con il carissimo P. Angelo Cargnin, di venerata memoria, per quanto lui ha fatto per me e per la mia vocazione. Il ritornare a lavorare in quella stessa parrocchia di cui P. Angelo è stato primo parroco e per cui ha speso tutte le sue energie fino alla morte e dove io ho svolto il mio ministero di catechista fino all’accolitato, ha per me il valore di un segno forte: come prete ho donato le forze in qualsiasi luogo il Signore, tramite l’obbedienza al vescovo, mi ha chiamato e il mio impegno sarebbe rimasto invariato anche se il vescovo mi avesse mandato in qualsiasi altro luogo della diocesi, ma il fatto di essere stato chiamato proprio a Scicli, e proprio a San Giuseppe, lo colsi come un rinnovato appello a dare la vita certo per Cristo e la sua Chiesa, ma per quella Chiesa, per quel popolo di Dio che vive, soffre e spera a Scicli. Una città di cui mi sento figlio e che porto sempre con me nel cuore e per cui il giorno della mia prima Messa ho offerto il mio sacerdozio. Quell’undici settembre 1988 infatti alla consacrazione ho fatto un “patto” con il Signore: “io ti offro la mia vita e il mio sacerdozio per la conversione di Scicli: non mi importa se io sarò parroco a Scicli o meno, purché Scicli  si rinnovi nella fede dei padri”. E’ la prima volta che parlo di questo (anche se tante volte in passato avrei voluto dirlo a quelli che mi attribuivano mire di ‘conquista’ ora su questa ora su quell’altra parrocchia di Scicli !!!)  e lo faccio per rimettermi ancora una volta nelle mani del Signore: come già dissi nella Messa di ingresso in parrocchia la mia gioia grande è stata anzitutto la possibilità di poter rinnovare in questa occasione le promesse della mia ordinazione. Per me è stato infatti quasi un rivivere il giorno della mia ordinazione e come già per la mia prima messa salendo i gradini dell’altare ho ripetuto quel versetto che ormai non si recita più: “salirò all’altare di Dio, del Dio che rallegra la mia giovinezza !” (ma che io sottovoce continuo a recitare all'inizio di ogni messa). Da quel giorno sono passati anni : voglio approfittare di questo spazio per ringraziare quanti (e più di quanto io stesso potessi immaginare) mi sono stati accanto in questo momento importante della mia vita e che continuamente fino ad oggi mi fanno regalo della loro stima. Ma scrivo anche per rispondere ad una domanda che molti mi fanno su come intendo il mio stile e il mio programma di parroco. Io qui confesso di non pensare ad altri stili e ad altri programmi se non a quelli che il Cristo stesso ci suggerisce con il suo esempio. Non penso a tante organizzazioni, a tante attività, quanto ad offrire ai miei parrocchiani quella “compagnia della fede” che sola la Chiesa può dare: la vicinanza del Cristo compagno’ di strada che ci offre il viatico del suo Corpo e della sua Parola e che si fa carico della pena di vivere dei fratelli. E poi, soprattutto, l’impegno-dono della pace. 
E' il tema che ho scelto fin dalla messa di ordinazione, con le parole di Paolo: noi fungiamo da ambasciatori di Cristo... vi scongiuriamo, lasciatevi riconciliare!
A fondamento di un ministero importante quale quello di parroco, in questo anno giubilare che stiamo per cominciare,  credo che i sentimenti con cui un sacerdote si appresti a vivere il suo ufficio non possano che essere quelli stessi del Papa: cioè di sentirsi strumento di pace e di riconciliazione, della misericordia di Dio e per questo chiedere e offrire perdono, a tutti, indistintamente.  Solo cristiani pacificati  con se stessi e con gli altri saranno portatori di pace nel mondo. Questo me lo auguro per la mia parrocchia, per tutte le parrocchie di Scicli, per il bene della Chiesa, per il bene di Scicli. 

sabato 5 dicembre 2015

Il presepe? Un ponte, non un muro!

DEDICATO A TUTTI GLI IGNORANTI (PRESIDI, MAESTRE ED AFFINI) CHE CREDONO CHE IL NATALE OFFENDA I MUSULMANI: IN VERITA' L'ISLAM AMMIRA MARIA E LA SUA VERGINITA' E IL PARTO VERGINALE DI GESU' GRANDE PROFETA INVIATO DA DIO COME SEGNO PER LA CONVERSIONE DEGLI UOMINI.
IL CORANO SURA XIX “DI MARIA”
Il nome della sura deriva dal versetto 16 .
Maria è la donna tramite la quale Allah (gloria a Lui l'Altissimo) ha voluto dare un segno particolare: “In verità o Maria Allah ti ha prescelta; ti ha purificata e prescelta tra tutte le donne del mondo” (III, 42) e il segno è stato Gesù suo figlio, nato per volontà dell'Altissimo, divina creazione nella generazione umana: “...un segno per le genti e una misericordia da parte Nostra” (XIX, 21). Tutta la vicenda di Maria è dolcemente contraddistinta dall'abbandono ad Allah e da una purezza delle intenzioni che ne fa una figura angelicata; l'Inviato di Allah (pace e benedizioni su di lui) disse che Maria, insieme a Fâtima, Khadîja e Asiya (la sposa di Faraone che salvò Mosè dal Nilo) è una delle signore del Paradiso.
In nome di Allah, il Compassionevole, il Misericordioso.
1. Kâf, Hâ', Ya', Aîn, Sâd.
LA NASCITA DÌ GESU’ DA MARIA VERGINE
16. Ricorda Maria nel Libro, quando si allontanò dalla sua famiglia, in un luogo ad oriente.
17. Tese una cortina tra sé e gli altri. Le inviammo il Nostro Spirito* che assunse le sembianze di un uomo perfetto.
*[“il Nostro Spirito”: l'angelo Gabriele (pace su di lui)]
18. Disse [Maria]: “Mi rifugio contro di te presso il Compassionevole, se sei [di Lui] timorato!”.
19. Rispose: “Non sono altro che un messaggero del tuo Signore, per darti un figlio puro”.
20. Disse: “Come potrei avere un figlio, ché mai un uomo mi ha toccata e non sono certo una libertina?”.
21. Rispose: “È così. Il tuo Signore ha detto: "Ciò è facile per Me... Faremo di lui un segno per le genti e una misericordia da parte Nostra. È cosa stabilita"”.
22. Lo concepì e, in quello stato, si ritirò in un luogo lontano.
23. I dolori del parto la condussero presso il tronco di una palma. Diceva: “Me disgraziata! Fossi morta prima di ciò e fossi già del tutto dimenticata!”.
24. Fu chiamata da sotto: “Non ti affliggere, ché certo il tuo Signore ha posto un ruscello ai tuoi piedi;
25. scuoti il tronco della palma: lascerà cadere su di te datteri freschi e maturi.
26. Mangia, bevi e rinfrancati. Se poi incontrerai qualcuno, di': "Ho fatto un voto al Compassionevole e oggi non parlerò a nessuno"”.
27. Tornò dai suoi portando [il bambino]. Dissero: “O Maria, hai commesso un abominio!
28. O sorella di Aronne, tuo padre non era un empio, né tua madre una libertina”.
29. Maria indicò loro [il bambino]. Dissero: “Come potremmo parlare con un infante nella culla?”,
30. [Ma Gesù] disse: “In verità, sono un servo di Allah. Mi ha dato la Scrittura e ha fatto di me un profeta.
31. Mi ha benedetto ovunque sia e mi ha imposto l'orazione e la decima finché avrò vita,
32. e la bontà verso colei che mi ha generato. Non mi ha fatto né violento, né miserabile.
33. Pace su di me, il giorno in cui sono nato, il giorno in cui morrò e il Giorno in cui sarò resuscitato a nuova vita”.
34. Questo è Gesù, figlio di Maria, parola di verità della quale essi dubitano.

IO ACCUSO…

Tra epidemia e calura estiva è passato sotto silenzio un importante responso della Congregazione della Dottrina della fede e approvato in pr...