mercoledì 30 novembre 2016

UN POPOLO LIBERO CHE SERVE DIO PER AMORE: SERVIRE DIO E’ REGNARE



 «Non conoscere Dio, commenta S. Agostino, è morire; conoscerlo, è vivere; disprezzarlo, è perire; servirlo, è regnare (De coelest. Vita)».

CIVILTA’ CATTOLICA 1976 , VOL. II, PP. 313 – 322: << Il primato di Dio sull’uomo non è il primato del padrone sul servo. Questo è fondato sulla potenza e sulla forza ed è risentito dal servo come un’oppressione e una costrizione, a cui egli non può sfuggire; suscita perciò in lui un senso di risentimento e di rivalsa: egli è sotto il padrone, ma tende a liberarsi. Inteso in questo senso, il primato di Dio sull’uomo da origine a ciò che Hegel ha chiamato la “dialettica del padrone e dello schiavo”: cioè, per affermare il primato sull’uomo, Dio deve farsi riconoscere come Padrone e deve quindi ridurre l’uomo nella condizione di servo, di schiavo (non c’è Padrone senza Schiavo); a sua volta il servo, per uscire dalla sua condizione, deve affermare se stesso come non-dipendente da Dio, come padrone di se stesso e del mondo, e perciò deve negare dialetticamente il Dio-Padrone (se non c’è Padrone non c’è neppure lo Schiavo). In tal modo, Dio e l’uomo sono rivali e l’uno può “essere” solo nella “morte” dell'altro.
Questa concezione del primato di Dio non è “cristiana”, anzi è in radicale antitesi col cristianesimo. Infatti il primato di Dio sull’uomo che il cristianesimo ammette non è quello del Dio-padrone sull’uomo-servo, ma quello di Dio Creatore sull’uomo persona. Dio, infatti, è Creatore e tutti gli esseri esistono in virtù della partecipazione all’essere divino. Ma l’uomo non partecipa all’essere di Dio al pari degli altri esseri: la Bibbia, infatti, ci dice che egli è un’ “immagine” di Dio.
[…] Perciò Dio, in quanto Creatore dell’uomo – e per tale motivo avente su di lui un necessario primato – non pone l’uomo sotto di sé, ma di fronte a sé , come una persona libera, chiamata, certo a servirlo e a amarlo, ma liberamente e non perché l’amore e il servizio siano utili a Dio, ma perché sono necessari affinché l’uomo sia se stesso. L’uomo, infatti, non può essere se stesso se non nella comunione e nel servizio di Dio. Sta qui la profonda originalità della visione cristiana del rapporto tra Dio e l’uomo, così come espresso da un teologo medievale: <<Tu, Signore, ci hai amati per primo affinché noi amassimo te; non perché tu avessi bisogno che noi ti amassimo, ma perché non potevamo essere ciò per cui ci hai fatti se non amando te>> (Guglielmo di S. Thierry, de contemplando Deo).
Nelle antiche mitologie gli dei creavano gli uomini perché fossero al loro servizio, in particolare perché procurassero loro il cibo di cui avevano bisogno ed offrissero loro dei sacrifici. La rivelazione biblica respinge questa concezione: Dio, infinitamente ricco, non ha bisogno di nessuno; se perciò, crea l’uomo non lo fa per bisogno, ma per amore, per un’effusione della sua infinità bontà.
[…] In altre parole, Dio non crea per ricevere ma per dare. Crea, perciò l’uomo non per ricevere da lui qualcosa, ma perché l’uomo possa essere se stesso: immagine di Dio, certo, ma avente in se stesso una sua consistenza: Qui sta il senso profondo della libertà umana: essa pone l’uomo in se stesso, di fronte a Dio, in dialogo con lui, come un “io” che il “Tu” di Dio interpella ed al quale egli risponde liberamente, accettandolo o rifiutandolo. Per tale motivo “la gloria di Dio è l’uomo vivente” (S. Ireneo)
<<Il primato di Dio sull’uomo è un primato d’amore: esso non fa dell’uomo un servo, ma una sua immagine, non schiaccia l’uomo ma lo rende libero, non gli  impone un servizio umiliante, ma lo chiama ad una partecipazione sempre più ampia e profonda alla vita stessa di Dio e ad una collaborazione sempre più intensa con lui nella costruzione d’un mondo nuovo, germe e prefigurazione del regno escatologico di Dio.
In tal modo, il cristianesimo capovolge la dialettica del Padrone e dello Schiavo. Dio afferma il suo primato non mantenendo l’uomo nella condizione di servo, ma elevandolo alla condizione di immagine di se stesso, cosicché egli è glorificato nella misura in cui l’uomo è grande; l’uomo, per affermare se stesso, non ha bisogno di ribellarsi a Dio che non è per lui un rivale, ma piuttosto ha bisogno di amarlo e di servirlo, poiché per lui “servire Dio è regnare”: egli non è mai tanto grande come quando serve Dio, o meglio, non è grande se non nella misura in cui serve Dio. Nel servire Dio, infatti, l’uomo partecipa all’Essere-da-sé ed alla libertà di Dio; perciò diviene più se stesso, più libero>>.





v  Servizio di Dio = ubbidienza ad una legge di libertà
ð  L’ubbidienza come modo per vivere la libertà
·         Cfr. Adamo
ð  La “legge” come lo strumento per vivere la libertà
·         Cfr. il Decalogo
·         Nota: tutta la torah è “legge”
Ø  Cfr. le vicende dei patriarchi

v  “I teneri legami di bontà”
ð  L’osservanza della legge per amore
ð  Servire Dio = amare Dio = osservare i suoi comandamenti = timore di Dio
<< I legami di bontà sono i comandamenti e i vincoli di amore sono tutte le leggi, l prescrizioni che il Signore aveva dato al suo popolo. Prescrizioni, vincoli, legami, impegni ma d’amore, che nascevano non dal capriccio di Dio che vuole mettere l’uomo alla prova, ma che nascono dalla volontà di Dio che l’uomo viva. Perché l’uomo viva, perché la società umana possa veramente vivere in una dimensione di pienezza, il Signore dona i comandamenti, ma sono comandamenti d’amore. Quando l’uomo riconosce nei comandamenti dei vincoli d’amore, li accoglie liberamente e gioiosamente; serve, impara a servire. Ma quando l’uomo interpreta i comandamenti di Dio, quindi la legge dell’alleanza, come un peso che limita la sua libertà, la sua realizzazione – diremmo noi – la trasgressione è del tutto inevitabile. Allora si capisce che la dimensione fondamentale del servizio dipende dal modo di concepire Dio. Se Dio è concepito come un tiranno, il servizio diventa impossibile, ma se Dio è riconosciuto come padre, e le sue parole come vincoli di amore, il servizio diventa liberante e fondamento di dignità>> (Luciano Monari).

*      Il dramma dell’umanesimo ateo: <<Non è vero che l’uomo possa organizzare la terra senza Dio. E’ vero piuttosto che, senza Dio, egli non può che organizzarla alla fin fine contro l’uomo>> (De Lubac)
*      «Il servizio di Dio vale infinitamente più che la libertà del secolo», scrive S. Ambrogio (De fuga Saeculi);

v  Il peccato come il tentativo fallimentare dell’uomo di emanciparsi da Dio
ð  La fatica dell’uomo nel cogliere pienamente la dignità e la ricchezza di questo servizio e nel viverlo con fedeltà.
ð  Cfr. Israele: un servizio venato dalle infedeltà o dalla incapacità di fidarsi totalmente di Dio e di cogliere, quindi, i comandamenti di Dio come legge di libertà.
ð  Il tentativo di spezzare i legami e di scrollarsi di dosso il servizio non fa che ricadere in altre schiavitù: cfr. idolatria/prostituzione di Israele

v  Il Dio “geloso”
Dio richiede un rapporto esclusivo, il Dio di Israele è un Dio geloso: <<geloso vuol dire che non sopporta concorrenti, che non sopporta di dividere la sua gloria con un altro, che non sopporta quindi un servizio a metà: un servizio a metà può apparire all’uomo già qualcosa, ma davanti a Dio è qualche cosa di radicalmente insufficiente perché non corrisponde  al riconoscimento della sovranità di Dio. Dio è tutto. Prendere un Dio a metà vuol dire in realtà non considerarlo come Dio>> (Luciano Monari) .

PER LA REVISIONE DI VITA

ü  Come intendo e come vivo la mia libertà di figlio di Dio?
ü  Come intendo e come vivo il mio servizio a Dio nell’ubbidienza alla sua parola?
ü  Come intendo e come vivo l’osservanza della Legge di Dio?
ü  L’esperienza del peccato come autosufficienza
ü  La tentazione del servizio a metà.


Colletta
Dio onnipotente ed eterno, che hai voluto rinnovare tutte le cose in Cristo tuo Figlio, Re dell'universo, fa' che ogni creatura, libera dalla schiavitù del peccato, ti serva e ti lodi senza fine. Per il nostro Signore...
  

mercoledì 23 novembre 2016

UN POPOLO DI SACERDOTI CHE OFFRE A DIO IL CULTO SPIRITUALE DELLA PROPRIA VITA



Romani: 6,[16] Non sapete voi che, se vi mettete a servizio di qualcuno come schiavi per obbedirgli, siete schiavi di colui al quale servite: sia del peccato che porta alla morte, sia dell'obbedienza che conduce alla giustizia? [17] Rendiamo grazie a Dio, perché voi eravate schiavi del peccato, ma avete obbedito di cuore a quell'insegnamento che vi è stato trasmesso [18] e così, liberati dal peccato, siete diventati servi della giustizia. [19] Parlo con esempi umani, a causa della debolezza della vostra carne. Come avete messo le vostre membra a servizio dell'impurità e dell'iniquità a pro dell'iniquità, così ora mettete le vostre membra a servizio della giustizia per la vostra santificazione. [20] Quando infatti eravate sotto la schiavitù del peccato, eravate liberi nei riguardi della giustizia. [21] Ma quale frutto raccoglievate allora da cose di cui ora vi vergognate? Infatti il loro destino è la morte. [22] Ora invece, liberati dal peccato e fatti servi di Dio, voi raccogliete il frutto che vi porta alla santificazione e come destino avete la vita eterna. [23] Perché il salario del peccato è la morte; ma il dono di Dio è la vita eterna in Cristo Gesù nostro Signore.

Ø  Possiamo scegliere il nostro padrone, ma, che si tratti di Dio o di Mammona, qualcuno dobbiamo servire. Non possiamo assolutamente restare in posizione neutrale o intermedia. Una tale posizione, infatti non è ammissibile perché, se non vogliamo servire il primo, diventiamo immediatamente schiavi del secondo, e poi perché Cristo ci ha liberati da Satana solo rendendoci suoi servi. (Card. Newman, Al servizio di Cristo).

v  CHIAMATI A SERVIRE: “Dio ci ha creati per conoscerlo, amarlo, servirlo in questa vita …” (Catechismo)
ð  Il servizio è l’essenza e lo scopo dell’esistenza del popolo di Dio: “lascia partire il mio popolo perché mi serva” (Es 7): cfr. in principio c’è la richiesta di andare nel deserto per fare un sacrificio a Dio.
ð  Liberazione dall’Egitto come passaggio dalla schiavitù verso il Faraone che si fa dio, al servizio verso Dio che restituisce all’uomo la sua dignità.
ð  In Egitto non si può servire Dio perché si è obbligati all’idolatria.
ð  Solo chi è libero può scegliere di servire Dio: cfr. l’alleanza al Sinai e la sua ripresa a Sichem con Giosuè.
ð  L’alternativa fondamentale: o il servizio a Dio o l’idolatria.
IL SERVIZIO DI DIO

ð  “lascia partire il mio popolo perché mi renda culto” (Es 7): cfr. in principio c’è la richiesta di andare nel deserto per fare un sacrificio a Dio.
ð  IL SERVIZIO LITURGICO: avodà / opus Dei
ð  QUALE SACRIFICIO?
ð  LA LOGHIKE’ LATREIA
ð  UN SERVIZIO DELLA GIUSTIZIA PER LA SANTIFICAZIONE
v  “… e goderlo pienamente nella vita eterna” (catechismo)

PER RIFLETTERE:
Ø  Liberi da (= premessa): l’Egitto da cui devo sempre uscire
Ø  Liberi di (= la scelta): una decisione da rinnovare ogni giorno
Ø  Liberi per (= scopo): il servizio a cui sono chiamato
Ø  La terra della mia libertà: la Chiesa come terra promessa 
Ø  Il mio “culto”: cioè la mia vita



Da «La Città di Dio» di sant'Agostino, vescovo (Lib. 10, 6; CCL 47, 278-279)
<<Il vero sacrificio consiste in ogni azione con cui miriamo a unirci con Dio in un santo rapporto, rivolgendoci a quel sommo. Bene che ci può rendere veramente beati. Perciò anche le stesse opere di misericordia, con cui si viene in soccorso dell'uomo, se non si fanno per Dio, non possono dirsi vero sacrificio. Infatti, benché il sacrificio venga compiuto e offerto dall'uomo, tuttavia è cosa divina, tanto che gli antichi latini l'hanno designato anche con quest'ultimo nome. Perciò un uomo consacrato a Dio e votato a lui, in quanto muore al mondo per vivere a Dio, è un sacrificio. E' anche un'opera di misericordia che ciascuno fa verso se stesso, come sta scritto: «Abbi misericordia della tua anima, rendendoti gradito a Dio» (Sir 30, 24 volg.).
Dunque veri sacrifici sono le opere di misericordia sia verso se stessi, sia verso il prossimo in riferimento a Dio. D'altra parte le opere di misericordia non si compiono per altro motivo, se non per essere liberi dalla miseria e rendersi così beati di quella beatitudine che non si consegue se non per mezzo di quel bene di cui fu detto: «Il mio bene è stare vicino a Dio» (Sal 72, 28). L'Apostolo ci esorta ad offrire i nostri corpi come sacrificio vivente, santo e gradito a Dio, come nostro atto di culto spirituale (cfr. Rm 12, 1). Ci raccomanda di non conformarci al mondo presente, ma a trasformarci rinnovando la nostra mente per poter discernere qual è la volontà di Dio, per capire qual è il vero bene a lui gradito e perfetto, per comprendere che noi stessi costituiamo tutto intero il sacrificio. Per questo soggiunse: «Per la grazia che mi è stata concessa, io dico a ciascuno di voi: Non valutatevi più di quanto è conveniente, ma valutatevi in maniera da avere di voi un giusto concetto, ciascuno secondo la misura di fede che Dio gli ha dato. Poiché, come in un solo corpo abbiamo molte membra e queste membra non hanno tutte la medesima funzione, così anche noi pur essendo molti, siamo un solo corpo in Cristo e ciascuno per la sua parte siamo membra gli uni degli altri. Abbiamo pertanto doni diversi secondo la grazia data a ciascuno di noi» (Rm 12, 3-6).
Questo è il sacrificio dei cristiani: «Pur essendo molti siamo un corpo solo in Cristo» (1 Cor 10, 17). E questo sacrificio la Chiesa lo celebra anche con il sacramento dell'altare ben noto ai fedeli, in cui le viene mostrato che, in ciò che essa offre, essa stessa è offerta nella cosa che offre.>>
<<Ne consegue senza dubbio che tutta la città redenta, cioè la comunità e la società dei fedeli, viene offerta a Dio quale sacrificio universale, per mezzo del grande Sacerdote, che ha offerto anche se stesso per noi nella sua passione, sotto le sembianze di servo, perché divenissimo corpo di così grande capo. Ha offerto, infatti, questa natura umana e in essa venne offerto perché proprio per essa è mediatore, sacerdote, sacrificio. >>



<<Oggi abbiamo sentito un testo – lo sentiamo e lo meditiamo – della Lettera ai Romani: Paolo parla ai Romani e quindi parla a noi, perché parla ai Romani di tutti i tempi. Questa Lettera non solo è la più grande di san Paolo, ma è anche straordinaria per il peso dottrinale e spirituale. E’ straordinaria anche perché è una lettera scritta a una comunità che non aveva fondato e neppure aveva visitato. Egli scrive per annunciare la sua visita ed esprimere il desiderio di visitare Roma, e preannuncia i contenuti essenziali del suo Kerygma; così prepara la Città alla sua visita. Scrive a questa comunità che non conosce personalmente, perché è l’Apostolo dei Pagani - del passaggio del Vangelo dagli Ebrei ai Pagani - e Roma è la capitale dei Pagani e quindi il centro, alla fine, anche del suo messaggio. Qui deve giungere il suo Vangelo, perché sia realmente arrivato nel mondo pagano. Giungerà, ma in modo diverso da come lo aveva pensato. Paolo arriverà incatenato per Cristo e proprio in catene si sentirà libero di annunciare il Vangelo.
Nel primo capitolo della Lettera ai Romani, egli dice anche: della vostra fede, della fede della Chiesa di Roma si parla in tutto il mondo (cfr 1,8). La cosa memorabile della fede di questa Chiesa è che se ne parla nel mondo intero, e possiamo riflettere come stia oggi. Anche oggi si parla molto della Chiesa di Roma, di tante cose, ma speriamo che si parli anche della nostra fede, della fede esemplare di questa Chiesa, e preghiamo il Signore perché possiamo far sì che si parli non di tante cose, ma della fede della Chiesa di Roma.
Il testo letto (Rm 12, 1-2) è l’inizio della quarta ed ultima parte della Lettera ai Romani e comincia con le parole “Vi esorto” (v. 1). Normalmente si dice che si tratti della parte morale che segue alla parte dogmatica, ma nel pensiero di san Paolo, e anche nel suo linguaggio, non si possono dividere così le cose: questa parola “esorto”, in greco parakalo, porta in sé la parola paraklesis parakletos, ha una profondità che va molto oltre la moralità; è una parola che certamente implica ammonizione, ma anche consolazione, cura per l’altro, tenerezza paterna, anzi materna; questa parola “misericordia” – in greco oiktirmon e in ebraico rachamim, grembo materno - esprime la misericordia, la bontà, la tenerezza di una madre. E se Paolo esorta, tutto questo è implicito: parla col cuore, parla con la tenerezza dell’amore di un padre e parla non solo lui. Paolo dice “per la misericordia di Dio” (v. 1): si fa strumento del parlare di Dio, si fa strumento del parlare di Cristo; Cristo parla a noi con questa tenerezza, con questo amore paterno, con questa cura per noi. E così anche non fa appello soltanto alla nostra moralità e alla nostra volontà, ma anche alla Grazia che è in noi, che lasciamo operare la Grazia. E’ quasi un atto nel quale la Grazia data nel Battesimo diventa operante in noi, dovrebbe essere operante in noi; così la Grazia, il dono di Dio, e il nostro cooperare vanno insieme.
A che cosa esorta, in questo senso, Paolo? “Offrire i vostri corpi come sacrificio vivente, santo e gradito a Dio” (v. 1). “Offrire i vostri corpi”: parla della liturgia, parla di Dio, della priorità di Dio, ma non parla di liturgia come cerimonia, parla di liturgia come vita. Noi stessi, il nostro corpo; noi nel nostro corpo e come corpo dobbiamo essere liturgia. Questa è la novità del Nuovo Testamento, e lo vedremo ancora dopo: Cristo offre se stesso e sostituisce così tutti gli altri sacrifici. E vuole “tirare” noi stessi nella comunione del suo Corpo: il nostro corpo insieme con il suo diventa gloria di Dio, diventa liturgia. Così questa parola “offrire” – in greco parastesai – non è solo un’allegoria; allegoricamente anche la nostra vita sarebbe una liturgia, ma, al contrario, la vera liturgia è quella del nostro corpo, del nostro essere nel Corpo di Cristo, come Cristo stesso ha fatto la liturgia del mondo, la liturgia cosmica, che tende ad attirare a sé tutti.
“Nel vostro corpo, offrire il corpo”: questa parola indica l’uomo nella sua totalità, indivisibile - alla fine - tra anima e corpo, spirito e corpo; nel corpo siamo noi stessi e il corpo animato dall’anima, il corpo stesso, deve essere la realizzazione della nostra adorazione. E pensiamo - forse direi che ognuno di noi poi rifletta su questa parola - che il nostro vivere quotidiano nel nostro corpo, nelle piccole cose, dovrebbe essere ispirato, profuso, immerso nella realtà divina, dovrebbe divenire azione insieme con Dio. Questo non vuol dire che dobbiamo sempre pensare a Dio, ma che dobbiamo essere realmente penetrati dalla realtà di Dio, così che tutta la nostra vita – e non solo alcuni pensieri – siano liturgia, siano adorazione. Paolo poi dice: “Offrire i vostri corpi come sacrifico vivente” (v. 1): la parola greca è logike latreia e appare poi nel Canone Romano, nella Prima Preghiera Eucaristica, “rationabile obsequium”. E’ una definizione nuova del culto, ma preparata sia nell’Antico Testamento, sia nella filosofia greca: sono due fiumi – per così dire – che guidano verso questo punto e si uniscono nella nuova liturgia dei cristiani e di Cristo. Antico Testamento: dall’inizio hanno capito che Dio non ha bisogno di tori, di arieti, di queste cose. Nel Salmo 50 [49], Dio dice: Pensate che io mangi dei tori, che io beva sangue di arieti? Io non ho bisogno di queste cose, non mi piacciono. Io non bevo e non mangio queste cose. Non sono sacrificio per me. Sacrificio è la lode di Dio, se voi venite a me è lode di Dio (cfr vv. 13-15.23). Così la strada dell’Antico Testamento va verso un punto in cui queste cose esteriori, simboli, sostituzioni, scompaiono e l’uomo stesso diventa lode di Dio.
Lo stesso avviene nel mondo della filosofia greca. Anche qui si capisce sempre più che non si può glorificare Dio con queste cose – con animali od offerte –, ma che solo il “logos” dell’uomo, la sua ragione divenuta gloria di Dio, è realmente adorazione, e l’idea è che l’uomo dovrebbe uscire da se stesso e unirsi con il “Logos”, con la grande Ragione del mondo e così essere veramente adorazione. Ma qui manca qualcosa: l’uomo, secondo questa filosofia, dovrebbe lasciare – per così dire – il corpo, spiritualizzarsi; solo lo spirito sarebbe adorazione. Il Cristianesimo, invece, non è semplicemente spiritualizzazione o moralizzazione: è incarnazione, cioè Cristo è il “Logos”, è la Parola incarnata, e Lui ci raccoglie tutti, cosicché in Lui e con Lui, nel suo Corpo, come membri di questo Corpo diventiamo realmente glorificazione di Dio. Teniamo presente questo: da una parte certamente uscire da queste cose materiali per un concetto più spirituale dell’adorazione di Dio, ma arrivare all’incarnazione dello spirito, arrivare al punto in cui il nostro corpo sia riassunto nel Corpo di Cristo e la nostra lode di Dio non sia pura parola, pura attività, ma sia realtà di tutta la nostra vita. Penso che dobbiamo riflettere su questo e pregare Dio, perché ci aiuti affinché lo spirito diventi carne anche in noi, e la carne diventi piena dello Spirito di Dio.
La stessa realtà la troviamo anche nel capitolo quarto del Vangelo di San Giovanni, dove il Signore dice alla samaritana: Non si adorerà in futuro su quel colle o sul quell’altro, con questi o altri riti; si adorerà in spirito e in verità (cfr Gv 4,21-23). Certamente è spiritualizzazione, uscire da questi riti carnali, ma questo spirito, questa verità non è un qualunque spirito astratto: lo spirito è lo Spirito Santo, e la verità è Cristo. Adorare in spirito e verità vuol dire realmente entrare attraverso lo Spirito Santo nel Corpo di Cristo, nella verità dell’essere. E così noi diventiamo verità e diventiamo glorificazione di Dio. Divenire verità in Cristo esige il nostro coinvolgimento totale.
E poi continuiamo: “Santo e gradito a Dio: è questo il vostro culto spirituale” (Rm 12,1). Secondo versetto: dopo questa definizione fondamentale della nostra vita come liturgia di Dio, incarnazione della Parola in noi, ogni giorno, con Cristo - la Parola incarnata -, san Paolo continua: “Non conformatevi a questo mondo, ma lasciatevi trasformare, rinnovando il vostro modo di pensare” (v. 2). “Non conformatevi a questo mondo”. C’è un non conformismo del cristiano, che non si fa conformare. Questo non vuol dire che noi vogliamo fuggire dal mondo, che a noi non interessa il mondo; al contrario vogliamo trasformare noi stessi e lasciarci trasformare, trasformando così il mondo. E dobbiamo tenere presente che nel Nuovo Testamento, soprattutto nel Vangelo di San Giovanni, la parola “mondo” ha due significati e indica quindi il problema e la realtà della quale si tratta. Da una parte il “mondo” creato da Dio, amato da Dio, fino al punto di dare se stesso e il suo Figlio per questo mondo; il mondo è creatura di Dio, Dio lo ama e vuol dare se stesso affinché esso sia realmente creazione e risposta al suo amore. Ma c’è anche l’altro concetto del “mondo”, kosmos houtos: il mondo che sta nel male, che sta nel potere del male, che riflette il peccato originale. Vediamo questo potere del male oggi, per esempio, in due grandi poteri, che di per sé stessi sono utili e buoni, ma che sono facilmente abusabili: il potere della finanza e il potere dei media. Ambedue necessari, perché possono essere utili, ma talmente abusabili che spesso diventano il contrario delle loro vere intenzioni.
Vediamo come il mondo della finanza possa dominare sull’uomo, che l’avere e l’apparire dominano il mondo e lo schiavizzano. Il mondo della finanza non rappresenta più uno strumento per favorire il benessere, per favorire la vita dell’uomo, ma diventa un potere che lo opprime, che deve essere quasi adorato: “Mammona”, la vera divinità falsa che domina il mondo. Contro questo conformismo della sottomissione a questo potere, dobbiamo essere non conformisti: non conta l’avere, ma conta l’essere! Non sottomettiamoci a questo, usiamolo come mezzo, ma con la libertà dei figli di Dio.
Poi l’altro, il potere dell’opinione pubblica. Certamente abbiamo bisogno di informazioni, di conoscenza delle realtà del mondo, ma può essere poi un potere dell’apparenza; alla fine, quanto è detto conta di più che la realtà stessa. Un’apparenza si sovrappone alla realtà, diventa più importante, e l’uomo non segue più la verità del suo essere, ma vuole soprattutto apparire, essere conforme a queste realtà. E anche contro questo c’è il non conformismo cristiano: non vogliamo sempre “essere conformati”, lodati, vogliamo non l’apparenza, ma la verità e questo ci dà libertà e la libertà vera cristiana: il liberarsi da questa necessità di piacere, di parlare come la massa pensa che dovrebbe essere, e avere la libertà della verità, e così ricreare il mondo in modo che non sia oppresso dall’opinione, dall’apparenza che non lascia più emergere la realtà stessa; il mondo virtuale diventa più vero, più forte e non si vede più il mondo reale della creazione di Dio. Il non conformismo del cristiano ci redime, ci restituisce alla verità. Preghiamo il Signore perché ci aiuti ad essere uomini liberi in questo non conformismo che non è contro il mondo, ma è il vero amore del mondo.
E san Paolo continua: “Trasformare, rinnovando il vostro modo di pensare” (v. 2). Due parole molto importanti: “trasformare”, dal greco metamorphon, e “rinnovare”, in greco anakainosis. Trasformare noi stessi, lasciarsi trasformare dal Signore nella forma dell’immagine di Dio, trasformarci ogni giorno di nuovo, attraverso la sua realtà, nella verità del nostro essere. E “rinnovamento”; questa è la vera novità: che non ci sottoponiamo alle opinioni, alle apparenze, ma alla Grazia di Dio, alla sua rivelazione. Lasciamoci formare, plasmare perché appaia realmente nell’uomo l’immagine di Dio.
“Rinnovando - dice Paolo in modo sorprendente per me - il vostro modo di pensare”. Quindi questo rinnovamento, questa trasformazione comincia con il rinnovamento del pensare. San Paolo dice “o nous”: tutto il modo del nostro ragionare, la ragione stessa deve essere rinnovata. Rinnovata non secondo le categorie del consueto, ma rinnovare vuol dire realmente lasciarci illuminare dalla Verità che ci parla nella Parola di Dio. E così, finalmente, imparare il nuovo modo di pensare, che è il modo che non obbedisce al potere e all’avere, all’apparire eccetera, ma obbedisce alla verità del nostro essere che abita profondamente in noi e ci è ridonata nel Battesimo.
“Rinnovare il modo di pensare”: ogni giorno è un compito proprio nel cammino dello studio della Teologia, della preparazione per il sacerdozio. Studiare bene la Teologia, spiritualmente, pensarla fino in fondo, meditare la Scrittura ogni giorno; questo modo di studiare la Teologia con l’ascolto di Dio stesso che ci parla è il cammino di rinnovamento del pensare, di trasformazione del nostro essere e del mondo.
E, infine, “Facciamo tutto - secondo Paolo - per poter discernere la volontà di Dio, ciò che è buono, a Lui gradito e perfetto” (cfr v. 2). Discernere la volontà di Dio: possiamo imparare questo soltanto in un cammino obbediente, umile, con la Parola di Dio, con la Chiesa, con i Sacramenti, con la meditazione della Sacra Scrittura. Conoscere e discernere la volontà di Dio, quanto è buono. Questo è fondamentale nella nostra vita. (Benedetto XVI, Lectio al Seminario romano).


mercoledì 16 novembre 2016

Dio c’è? Chi è? Cosa ci chiede?

1. Premessa: la quaestio su Dio oggi

1. Il dramma dell’umanesimo ateo (H. De Lubac)
1. Hegel: Dio autocoscienza dell’uomo
2. Nietsche: Dio rivale dell’uomo <<Se vi fossero degli dei, come potrei sopportare di non essere dio! Dunque non vi sono dei!>>
3. Comte: Dio favola dell’uomo-bambino
4. Feuerbach – Marx: Dio alienazione dell’uomo
5. Freud: Dio proiezione dell’inconscio
6. Sartre: l’esistenzialismo ateo e l’assurdità del vivere
7. Camus: l’uomo in rivolta contro Dio: il creato non depone a suo favore.
8. J. Prevert: <<Padre nostro che sei nei cieli, restaci!>>
9. J.Monod: Dio? No! Il caso o la necessità. Lo scientismo autosufficiente.
  I maestri del sospetto: l’emancipazione dell’uomo ormai adulto.
  Il dramma: <<Non è vero che l’uomo possa organizzare la terra senza Dio. E’ vero piuttosto che, senza Dio, egli non può che organizzarla alla fin fine contro l’uomo>> (De Lubac)

2. Secolarizzazione e ateismo postmoderno
L’ateismo postmoderno non è preoccupato di dimostrare filosoficamente che Dio non esiste, di arrivare a conclusioni teoretiche, piuttosto egli vive praticamente come se Dio non esistesse:
  vivere come se Dio non ci fosse: “etsi Deus non daretur”
Il neo ateismo non si presenta in modo culturalmente elevato, ma “isterico”, manchevole di argomentazioni filosofiche e cedevole a teorie di moda variamente ripetute che riescono a impressionare il pubblico ostentando sicumera e insolenza.
Si fonda su due pregiudizi:
lo scientismo che riduce la scienza a religione, a ideologia
l’idea che la filosofia sia per sua natura atea o quanto meno agnostica (cfr. Kant)

2. <<Niente è più incredibile di una risposta data ad una domanda non fatta>> (F. Ventorino)

1. Ritornare a pensare
Heidegger: <<vivamo un tempo di povertà e distretta… ma la verà povertà sta non nella mancanza di Dio , ma nel fatto che gli uomini non soffrono più della mancanza di Dio … Non credono in Dio non perché è diventato per loro incredibile, bensì perché essi stessi hanno distrutto la possibilità di credere in quanto non sono più in grado di cercare Dio e non sono più in grado di cercare perché non pensano più>>.
  pensare è cercare, domandare:
  la domanda è la forma più alta del sapere:
  pensare è interrogarsi sul senso dell’esistenza: <<l’uomo è un essere a forma di domanda>>(E. Jabes)

2. Risvegliare la domanda
  prima di fare la proposta di Dio occorre far emergere la domanda su Dio
  il coraggio di riprendere a domandare: <<All’insinuante domanda, da dove vieni Uomo?, io rispondo: da mio padre e da mio madre, e ci fermiamo qui>> (Nietsche)
  educare significare aiutare a saper porre le domande giuste: chi sono? donde vengo? dove vado? che senso ha la vita? E la morte? Cosa posso fare? Per chi sono io?
3. Dimensione esistenziale della domanda
  educare significa aiutare a vivere la vita nella dimensione della domanda
  educare significa invitare a “custodire” la domanda, con pazienza: <<Vorrei pregarla , per quanto posso, di avere pazienza verso quanto non è ancora risolto nel suo cuore e di avere care le domande stesse come stanze serrate e libri scritti in una lingua molto straniera. Non cerchi ora risposte che non possono venirvi date perché non le potreste vivere. E di questo si tratta, di vivere tutto. Viva ora le domande. Forse vi insinuate così a poco a poco, senza avvertirlo, a vivere un giorno lontano la risposta>> (R.M. Rilke, Lettera a un giovane poeta).
  la domanda sul senso coinvolge tutti gli aspetti della vita: unitarietà della persona umana, intelletto, volontà, affetti
  no ai fraintendimenti
intellettualistici,
volontaristici,
sentimentalistici.

4. Al centro della domanda: la domanda sull’essere
Il filoso credente Copleston domandò a Bertrand Russel << perché c’è l’essere e non il nulla? >> Questi gli rispose che non gli interessava la risposta perché era sufficiente l’esistenza. Copleston gli rispose che aveva smesso di pensare troppo presto.
  la domanda sull’essere fonda tutte le domande sul senso
  la domanda sull’essere è espressa nella domanda su Dio
  con la parola “Dio” indichiamo l’Essere assoluto, alla radice di ogni esistenza particolare
  << o si pensa teologicamente o non si pensa affatto>> (W. Benjamin)

5. Dell’Essere, o di Dio
Io sono: dunque qualcosa c’è!
qualcosa c’è, dunque qualcosa è!
  ogni essere ha dentro di se o fuori di sé la ragione del proprio essere:
l’essere contingente
l’essere ab-solutus, sciolto da ogni contingenza
  Dio come sorgente dell’essere = il Dio Creatore
  la via della creazione = dalla creazione al Creatore
Credere in Dio significa credere nei miracoli, a partire dal miracolo dell’esistenza stessa delle cose.
  la via del cuore = la via dell’interiorità: “Noli ire foras, in interiore hominis…”
Credere in Dio significa trovare il senso alla propria esistenza, la realizzazione a cui aspira ogni uomo


6. Il luogo dove nasce la domanda
lo stupore: il senso religioso

7. La ragione e la conoscibilità di Dio
la conoscenza razionale di Dio 
  educare significa aiutare a saper cogliere la ragionevolezza del credere: cfr. Paolo ai Romani
8. La risposta
la domanda implica la risposta? 
nella domanda c’è la risposta
l’uomo “capax Dei”
3. C’è Dio? Chi è Dio? 

1. La via della analogia entis
an sit Deus
quid sit Deus
quis sit Deus
quomodo sit
ubi sit Deus

2. Di quale Dio parliamo
  la risposta delle filosofie
  la risposta delle religioni
I falsi dei etici
I falsi dei filosofici
i falsi dei teologici
l’ateismo e il laicismo come religioni!
No ad una concezione utilitaristica di Dio: il Dio tappabuchi
No al Dio-fai-da-te: folklorismi, new age, bricolage delle credenze
No a mettere le maschere a Dio
  continua purificazione della nostra immagine di Dio

3. Dire che Dio c’è non significa affermare ipso facto la sua completa conoscibilità
4. Dio nessuno lo ha mai visto: il Figlio ce lo ha rivelato. 

1. Il Dio “in sé”

2. Rivelazione come automanifestazione libera e gratuita di Dio
un Dio che “Parla”
un Dio “Persona”

3. Creazione come rivelazione
<<i cieli narrano la gloria di Dio, l’opera delle sue mani annunzia il firmamento, non è linguaggio, non sono parole di cui si oda il suono>>
  Attenzione ai monismi panteistici: Spinoza, Deus sive natura

4. Storia come rivelazione
un popolo
una terra
una promessa
una alleanza
una legge
  Attenzione al liberalismo protestante e al modernismo cattolico: rivelazione come esperienza religiosa soggettiva e non come accadimento extra nos

5. Il logos incarnato come pienezza della rivelazione
cfr. Giovanni: In principio era il Logos…
  è lo stesso logos creatore che s’incarna: nel verbo incarnato creazione e storia si incontrano
  lo stesso logos fonda fides e ratio
Il figlio ce ne ha fatto l’esegesi: 
  il figlio rivelatore del Padre
  sappiamo chi è il Padre solo attraverso quello che ci ha detto il Figlio
nello Spirito
Il mistero di Dio uni-trino

5. Cosa vuole Dio da noi? Vivere la fede, vivere di fede.

1. l’offerta di una amicizia

2. il Dio-con-noi

3. il Dio-per-noi

4. per grazia

5. amicizia come salvezza: il riscatto dal peccato

6. l’offerta di una vita nuova: la loghikè latreia 

7. la Chiesa come “luogo” dove vivere nella libertà di figli



domenica 18 settembre 2016

DIALOGARE O CHIACCHIERARE?

 
Da Dibattito - Settembre 2016:

La rubrica che da anni tengo su questo giornale si intitola "confessioni ad alta voce". Se volete un titolo non originale, ma che scelsi per indicare ai lettori che il contenuto era da un lato strettamente privato, "confessioni" appunto, a partire dalle esperienze personali e dalle considerazioni altrettanto personali che non volevano e non vogliono coinvolgere il mio aspetto "istituzionale", ma d'altro lato confessioni proposte "in pubblico" perché motivato dalla convinzione che talune mie riflessioni, talvolta spinte fino anche alla provocazione, potessero essere utili ai miei lettori, non solo per la condivisione delle mie esperienze e riflessioni, ma anche per un confronto tra idee, seppur non sempre condivise o condivisibili, sulla linea dello stesso nome del giornale che mi ospita, Dibattito. E confesso che in questi anni non sono mancate le reazioni positive (bontà dei miei lettori) ai miei scritti, che mi hanno dato l'umana soddisfazione di sapere spesso di non essere il solo ad essersi formata una certa convinzione su un argomento, ma che il mio convincimento è compreso e condiviso anche da altri amici. Perché oggi scrivo tutto ciò ? Perché voglio mettere a parte i miei amici lettori di un'altra considerazione che sono andato via via maturando a partire dalla mia frequentazione delle rete web: mi riferisco a tutti i "luoghi" cosiddetti "social" quali Facebook, Messenger, WhatsApp e simili, per parlare solo dei più noti. Attenzione: non sono qui a fare la solita morale sulla bontà di tali mezzi o sulla loro negatività. Come ogni strumento la bontà o meno dipende da chi lo usa e come si usa: io internet lo uso ad esempio per cercare libri antichi altri per cercare invece immagini porno, ma come si dice, "ognunu arma a sua e cuscienzia a sua"! La mia considerazione va invece su un altro piano. Sul fatto che questi strumenti si dice siano nati "for connecting people" cioè per far incontrare le persone. E apparentemente sembra che siano riusciti nell'intento. Ognuno di noi su Facebook ha centinaia di amici; facciamo parte di diversi gruppi su WhatsApp e così via... Stiamo sempre a chattare in ogni ora e in ogni luogo... Questo dovrebbe aiutare e in un certo senso far crescere il confronto, la discussione, il dibattito, lo scambio di idee, la verifica su problematiche personali e comunitarie... Invece, paradossalmente, più siamo connessi, più banali sono i discorsi che si fanno: l'amico ci aggiorna di quando è come si sia alzato, di come ha fatto la cacca stamattina, l'amica della acconciatura o del piatto che farà a mezzogiorno... La mattina arrivano centinaia di buongiorno, ma mai uno che ti chieda come stai, che pena ti porti nel cuore, quale è la tua fatica di vivere, e, per chi crede, la fatica del credere. Magari c'è chi su Facebook mette "mi piace" a quello che scrivi o condividi: e questo è il massimo di quanto ci si possa aspettare, perché sono pochi quelli che hanno il coraggio di uscire allo scoperto e di manifestare apertamente le proprie idee. Ecco. Direi proprio che un nocciolo della questione stia proprio qui: nella scelta di non voler entrare mai pienamente in una questione per non esporsi, per un malinteso equivoco che tutte le idee si equivalgano e quindi "chi sono io per giudicare" se un altro ha una idea diversa dalla mia? E forse anche la paura di compromettersi, di dire cosa realmente si pensa, in cosa realmente si crede, in un mondo in cui è più facile e semplice seguire la moda dominante, pronti a cambiare idea appena il vento dell'opinione pubblica soffia in altra direzione o il politicamente corretto impone un linguaggio ipocrita buono per tutte le stagioni.
Talvolta su Facebook ho messo provocatoriamente la condivisione ad articoli proprio per provocare un dibattito, suscitando poche o nessuna reazione, poi metto una mia foto mentre mangio un vassoio di spaghetti o fumo il narghilè e allora vedo centinaia di condivisioni! Certo tutto ciò può essere pure gratificante, ma non è certo appagante.
Per me nato e cresciuto in un tempo in cui il dibattito e la dialettica erano il nostro pane quotidiano, così come la condivisione delle esperienze, anche in ambito ecclesiale, la banalità e la superficialità in cui tutti e a tutti i livelli ci si ferma, non soddisfa minimamente la mia voglia di apertura e di confronto. E perciò ho rivolto un invito ai miei amici: per favore, parliamo, di noi, dei nostri sogni, di cosa ci sta a cuore, dei problemi che ci affliggono... Per evitare che ognuno di noi se ne vada in giro chiuso come una monade nel suo mondo, senza porte e senza finestre, in mezzo agli altri ma non con gli altri. Alla ripresa delle attività dopo le ferie estive, credo che forse questo potrebbe essere un buon proposito: cercare e magari creare luoghi veri di incontro, dove si incontrino persone ed idee. Vere. Sincere. Perché tutto il resto sono chiacchiere vane.

sabato 25 giugno 2016

Otium et negotium

Questo tempo segna l’ingresso nel periodo estivo e l’inizio delle vacanze : confesso che quest’anno direi proprio “sospirate” vacanze, perché la stanchezza fisica di un anno scolastico e pastorale per me pieno di attività e sorprese comincia a farsi sentire e con questa  la voglia di cambiare ritmo di vita per qualche giorno, dando più spazio alla riflessione e alle letture. “In agello cum libello vera quies” : in un piccolo campo con un piccolo libro c’è la vera quiete, così recita un detto latino affisso alle pareti della casa di campagna di un amico sacerdote, e questa è una sacrosanta verità. Benedetta calura estiva che ci obbliga alle soste forzate del nostro attivismo : quell’attivismo che ci ingenera una idea pericolosa : che l’uomo valga per il suo fare e non per il suo essere. Quanto spesso si sente giudicare un uomo con l’enumerazione delle sue imprese, quanto poco invece per le sue qualità intrinseche. Più passa il tempo più mi rendo conto invece di come a volte un attivismo quasi forsennato nasconda il vuoto : delle idee, delle scelte di fondo, dei valori veri. E’ facile passare da un appuntamento all’altro, da un incontro all’altro, da un convegno all’altro, da una attività all’altra : ma non credo che solo questo faccia di noi delle persone “impegnate” se il nostro “agere, operari” non deriva dal nostro “esse”. Ho l’impressione però che di questi tempi sia proprio la cura per l’essere che sia venuta a mancare, a meno che non si faccia coincidere l’essere con l’apparire ! Se si dimentica questa priorità dell’essere sull’agire stesso, se si giudica l’altro solo in base alla sua produttività materiale o quantomeno visibile, allora non sorprende la domanda sull’utilità dello studio delle materie umanistiche e filosofiche ad esempio,  o quella che a volte ritorna anche in campo ecclesiale sull’utilità delle suore di clausura che passano il tempo a pregare ! Cosa produce un libro o una preghiera ? Apparentemente non sposta il mondo di una virgola, eppure... io faccio parte di quella minoranza che crede che il mondo sia cresciuto più con le tragedie greche che con la rivoluzione bolscevica, che Francesco d’Assisi abbia dato al mondo più di tanti re e regine,  tanto per fare qualche esempio ! Come confesso di stimare di più le persone e gli amici che camminano più con la testa che con le gambe ! Benedette allora quelle occasioni che ci danno l’opportunità di coltivare anzitutto noi stessi : “cultura” non significa proprio questo ?  
In questo anno giubilare di “remissione” di tanti pesi, allora voglio anch’io alleggerire i miei lettori del peso di una mia “confessione” impegnativa e seriosa che non si addice al fresco di un pergolato : a patto però che sia sostituita da quell’autentica esperienza di “otium” che rinfranca il corpo e lo spirito. I “negotia” possono aspettare !

A tutti i miei lettori dunque buone vacanze !

sabato 27 febbraio 2016

Il dovere di aggiornarsi

Permettetemi una riflessione ancora una volta sulla storia e sulla nostra incapacità tante volte di non saperla leggere fino in fondo e, soprattutto, sulla nostra incapacità di tenerne il passo. Non mi riferisco al volgare “stare al passo coi tempi” perché non è detto che questo sia sempre una virtù! Mi riferisco alla capacità di quello che Papa Giovanni XXIII chiamava “aggiornamento”: cioè di saper leggere i “segni dei tempi” per riuscire a cogliere al di là delle superficiali contraddizioni il lento cammino di maturazione e di crescita dell’umanità. Aggiornamento perciò significa capacità di non legarsi a schemi fissi, a pregiudizi, a ideologie che la storia stessa spesso ha rivelato erronee o quantomeno superate, e quindi capacità di aprirsi al nuovo, più che alle novità, con onestà intellettuale e senza trasformismi. Aggiornamento che deve prendere le mosse in ambito culturale da un fatto tanto semplice quanto a mio avviso tanto importante: dallo stare attento cioè ai progressi degli studi e delle ricerche delle varie discipline. Mi dà infatti sempre un senso di insofferenza  il riscontrare in tanti una sorta di apatia intellettuale, se non di pigrizia vera e propria, nel rimanere fermi alla quattro cosucce imparate quando si andava a scuola senza poi la minima preoccupazione di accrescere o rivedere criticamente il loro sapere. Esemplifico, chiedendo scusa se mi limito solo al mio ambito di conoscenza, con alcuni fatti riportati non certo per apologia! Già dai tempi del Concilio Vaticano II (e quindi da più di un trentennio) ci fu il reciproco annullamento delle scomuniche tra Roma e Costantinopoli emesse con lo Scisma di Oriente, ma i libri di storia non ne parlano ancora! anni fa è stato firmato un documento storico tra la Chiesa Cattolica e la Chiesa Luterana in cui si riconosce che la dottrina luterana della giustificazione è componibile con la fede della Chiesa con l’annullamento anche qui delle scomuniche reciproche, facendo seguito al riconoscimento della validità delle intuizioni della Riforma di Martin Lutero fatta da Giovanni Paolo II, ma a scuola si continua a insegnare come se la “lite” dogmatica tra cattolici, luterani e ortodossi continuasse e non fosse già finita. Con la revisione del processo di Galileo si è visto come la condanna che subì fu quella di dover recitare una volta alla settimana i sette salmi penitenziali e come alloggio cinque camere con vista sui giardini vaticani e con cameriere personale, tutto a spese della Santa Sede: altro che tortura e carcere! E se il rabbino capo di Roma al tempo del nazismo alla fine della guerra si convertì al cristianesimo e prese il nome di Eugenio in omaggio a quanto aveva fatto Papa Pio XII (Eugenio Pacelli) in favore degli ebrei, ha ancora senso dare più credito alle fantasie di un commediografo di parte sul silenzio della Chiesa per la Shoà? Aggiornamento in questo senso significa allora il permettere alla verità di farsi strada, di ricomporsi dagli strappi a cui spesso viene sottoposta, di venire fuori dalle costrizioni partigiane e dalle tirannia delle opinioni. Perché quando, ad esempio, a non aggiornarsi sono quei “professionisti” della cultura che dovrebbero essere gli insegnanti, il risultato a volte è tragico: infatti si corre il rischio di fornire agli studenti informazioni tendenziose se non addirittura false! Così facendo non si riesce certamente né a fare un buon servizio alla verità e né quindi a saper comprendere le vere ragioni della storia. “Pensare” la storia credo che invece oggi sia un dovere imprescindibile per quanti non si vogliono rassegnare a sentirsi quasi schiavi impotenti di avvenimenti che corrono il rischio di prenderci la mano: e questo un uomo che vuole essere all’altezza del suo ruolo nel mondo non se lo può permettere!


sabato 20 febbraio 2016

dare del tu al proprio computer?

Qualche tempo fa una mia ‘confessione’ su Dibattito è uscita riportando nel titolo un errore, stravolgendo il famoso detto: “timeo lectorem unius libri”. Un errore nato non da ignoranza (non sarò Cicerone ma, credetemi, almeno il latino della Messa lo conosco!!!) ma dalla fretta e da un eccesso di fiducia nelle facoltà del computer! Confesso infatti che se non ho l’urgenza della stampa del giornale non riesco mai a dare l’ultimo tocco all’articolo. Così poi in fretta mi affido al servizio di revisione e correzione automatica del computer che certo non conosce il latino o, meglio, ha imparato a riconoscere solo le parole che io altre volte ho usato e che ha memorizzato. Quando corregge perciò compie due scelte: o lascia la parola sottolineata in rosso, per indicare quello che secondo lui è un errore, oppure la cambia con un’altra che gli si avvicina e che secondo lui è la forma esatta. Per curiosità sono andato a rivedere l’origine dello sbaglio riscrivendo la frase al computer per seguire il modo come procedeva alla correzione. Vi confesso che la cosa mi ha in un certo senso coinvolto, e ho voluto vedere fino a che punto stiamo diventando interdipendenti noi e queste macchine sui generis! Così ho scoperto che il mio computer ha cambiato il ‘timeo’ in ‘temo’ (parola italiana più somigliante), il ‘lectorem’ in ‘lector’ (perché già usato altrove nel parlare del principio ermeneutico del ‘lector in fabula’ e quindi memorizzato) e ha lasciato ‘unius’ in rosso. Non ha segnalato affatto ‘libri’ perché l’avrà scambiato per il plurale italiano di libro. La mia fretta allora non mi ha fatto sentire il bisogno di dare una guardata alle parole sottolineate in rosso e così è venuto fuori l’errore! Mi scuso per la pedanteria della descrizione, ma è per far comprendere – specie a chi non ha familiarità col computer – la riflessione che ne è scaturita. Il mio errore infatti mi ha ricordato il tentativo di un gruppo di esegeti di far tradurre alcuni brani evangelici al computer per avere una traduzione quanto più neutrale possibile. Ebbene la frase di Gesù al Getsemani “lo spirito è forte ma la carne è debole” fu tradotta con “l’alcool è forte di gradi e la carne è tenera”!!! Che ne capisce un computer di allegorie, similitudini, doppi sensi e cose del genere? Ma ancora di più mi ha ricordato il film di Kieslowski sul I° Comandamento: “non avrai altro Dio all’infuori di me”. Lì un padre ha educato il figlio nel culto dell’intelligenza artificiale che è in grado di gestire tutta la vita domestica (ogni cosa nella loro casa è gestita dal computer) e che sogna essere in grado di gestire in un futuro tutti gli aspetti della vita dell’uomo. Ma la tragedia è dietro l’angolo: nonostante i calcoli del computer che indicavano lo spessore del ghiaccio tale da sopportare il peso di un uomo, il figlio muore proprio annegando nel fiume attraverso l’apertura di una crepa nel ghiaccio ‘sicuro’! La lezione credo sia chiara: la vita non dipende dal computer. Perché fin quando ci vada di mezzo un errore di scrittura o di traduzione tutto finisce con una risata, ma quando questi strumenti sono caricati di attese eccessive, specie quando ci si attende qualcosa che una macchina non può dare, qui cominciano i problemi! Ho letto infatti da qualche parte che aumenta sempre di più il numero delle persone che prendono a “botte” il proprio computer passando dall’insulto alla demolizione totale! Ma insieme cresce anche il numero di chi si rivolge sempre di più al proprio computer quasi con un ‘tu’ da dialogo amicale da ‘Io e lui’ alla Moravia! C’è da pensare che il computer stia diventando davvero il nostro alter ego o un’appendice della nostra personalità di cui non riusciamo più a fare a meno? Con il computer ormai abbiamo un rapporto in cui l’odio e l’amore si alternano e si mescolano in una specie di strano e nuovo sentimento in cui stavolta il destinatario non è una persona ma una macchina! Da quando ho comprato il computer ad esempio mi sono reso conto come tante volte non sia facile proprio capire chi dei due comandi sull’altro! Farne a meno? No, perché sono anche gli strumenti a fare un buon ‘mastro’ ci avverte la sapienza antica e certo non sono di quelli che demonizzano il progresso tout court. Dipende credo dal non riporre un’eccessiva fiducia in quello che appunto non è altro che uno strumento. Perché in fondo è una macchina e dimenticarlo è pericoloso! Quando si pensa che si possa sostituire alla nostra intelligenza, alla nostra attenzione e al nostro lavoro spuntano fuori i guai e allora le tirate di orecchie non se le merita lui ma ce le meritiamo noi!

sabato 13 febbraio 2016

Chi educa oggi?

Passavamo davanti ad una casa, due bambine di un quattro anni circa con in braccio ognuna una bambola giocano. Rallentiamo un po’ il passo perché ormai non è più facile incontrare scene del genere. Ma il sapore di quella scena serena dura poco. Una bambola scivola dalla mano di una bimba e cade sul gradino della porta, la vuole raccogliere ma l’altra la ferma: “aspetta facciamo un gioco” dice e io quasi mi fermo curioso. Nel frattempo l’altra bimba si mette accanto alla porta e finge di telefonare: “Pronto polizia? Si? Venite, c’è un maniaco che ha violentato una bimba. E poi le ha staccato le mani e poi i piedi e poi la testa e poi l’ha ridotta in piccoli pezzetti e poi ha pestato tutto coi piedi”. E questo detto con una naturalezza e con un tono disincantato come se stesse ordinando un gelato. Vi confesso che io e l’altro sacerdote che passeggiava con me ci siamo fermati allibiti e sconcertati. Che dire? Che pensare? Immagine dei tempi d’oggi, frutto di ciò che purtroppo si vede e si sente nelle nostre televisioni, evidenza di ciò che la cronaca nera ci riporta tutti i giorni… Ci domandiamo che esempi stiamo dando alle nuove generazioni. Ci interroghiamo sulla responsabilità educativa che ognuno per sua parte dovrebbe sentire. Chi educa oggi? Chi dovrebbe educare oggi? Educare: tra le altre cose significa formare ai valori. Ma nessuno oggi ci pensa. Lo stato laico non può imporre valori, si dice: ma è proprio sicuro che il contrario di uno stato “etico” sia uno stato amorale? La scuola non educa più i giovani né al rispetto reciproco, né a quello per gli insegnanti e comunque per gli adulti, né a tutti quei valori che costituiscono i fondamenti di una civiltà: gli insegnanti scaricano la responsabilità sui genitori che hanno abdicato al loro ruolo, e anche questo è vero. Ormai nessun padre osa dire al figlio che un gesto o un comportamento sono sbagliati. Umilmente devo riconoscere che anche nelle nostre parrocchie il tono si è abbassato di molto, per paura che i giovani scappino via o per un malinteso senso di benevolenza pastorale siamo pronti ad accettare o a subire anche comportamenti al limite dell’educazione e della morale. Che fare? Spesso ne abbiamo parlato e non vogliamo ripeterci né fare gli eterni catoni pronti più a censurare che ad indicare nuove strade. Un educatore tedesco dei primi del novecento diceva che l’educazione delle nuove generazioni è ogni volta come l’inculturazione dei barbari. I grandi devono accettare continuamente la sfida di inculturare, cioè inserire nel solco della tradizione e della civiltà ogni nuova generazione: perché ogni nuovo nato è un “barbaro” che deve essere educato alle regole del gioco civile. Forse ci siamo illusi che questo “incivilimento” avvenisse in modo automatico e senza bisogno di un intervento degli adulti che aiutasse a “razionalizzare e interiorizzare i comportamenti”. Abbiamo dato troppe cose per scontate: me ne accorgo quando do per scontato il fatto che alcune esperienze, solo perché le abbia vissute io le abbiano vissute anche gli altri, i miei alunni o i miei giovani. Poi però vedi che è impossibile parlare di Moro se a quei tempi nessuno di loro era nato e quindi loro la stella a cinque punte te la disegnano sulla lavagna come una decorazione natalizia. Lo stesso, è impossibile parlare del Papa Buono dando per scontato che ci si riferisca a Papa Giovanni se sono tutti sono i quindici anni. Perché il guaio non è della loro piccola età, è dato dal fatto che nessuno ha mai raccontato loro queste storie. Ugualmente nessuno ha mai detto loro come ci si comporta in società. Gli ebrei a Pasqua invece sono obbligati a raccontare ai figli la loro liberazione dall’Egitto: così è come se ogni generazione ripetesse quell’esperienza. Io credo che una strada per uscire dalla barbarie sia il recupero della memoria e della storia che ti fa sentire parte di un popolo e di una civiltà: altrimenti sarà la fine! Immaginate cosa significhi entrare in una classe a Scicli e scoprire che nessuno conosce S. Guglielmo o il perché di altre tradizioni religiose come quella del Venerabile a Pasqua. Ma domani si potrà pure dimenticare Hitler e i suoi efferati crimini, e allora cosa succederà? “Un popolo che dimentica la sua storia è condannato a riviverla” ha detto qualcuno. Mi auguro sinceramente che questo non avvenga.

sabato 6 febbraio 2016

Scambiare il cavallo per il cavaliere

A Modica gira un racconto: ‘Un modicano di campagna si recò per la prima volta al duomo di San Giorgio e al sacrista -  davanti alla sua statua del Santo cavaliere - mostrando grande interesse per il simulacro chiese al sacrista: “Bello davvero S.Giorgio! Ma quello sopra il cavallo chi è?”. Il campagnolo aveva riconosciuto il cavallo – questo rientrava nella sua esperienza – ma non aveva riconosciuto il santo che cavalcava il cavallo, perché - così si scusò – il santo non l’aveva mai incontrato prima! Il guaio non è stato la sua inesperienza in fatto di santi, quanto il voler leggere a partire dalla propria limitata esperienza un fatto più grande di lui col risultato di confondere il cavaliere col cavallo! Dove è stato lo sbaglio? Nel non confessare la propria ignoranza e così la sua stessa esperienza si è rivelata un pregiudizio, un fattore che cioè lo ha ingannato nell’accrescersi del suo processo conoscitivo dando luogo ad un errore. Risibile errore in questo caso. Solo che in tanti altri casi gli esiti dei pregiudizi danno luogo ad esiti drammatici. Mi veniva in mente questo aneddoto a proposito della preparazione della festa di San Giuseppe e della Cavalcata: c’è chi purtroppo ogni anno si ferma ai cavalli e non riesce ad andare al di là del cavallo! Fuor di metafora c’è chi crede che la Cavalcata sia una manifestazione equina (al massimo arriva alla sua dimensione folkloristica) ma non riesce a cogliere il suo aspetto fondamentale che è quello religioso. Come per la statua di San Giorgio, per bello che sia il cavallo quello che conta è il Santo che lo monta, così la cavalcata non ha ragione di esistere senza San Giuseppe e la rievocazione della fuga in Egitto! Chi vuole separare le due cose volendo fare la festa al solo cavallo di San Giorgio credo che abbia le idee confuse [ ma – detto per inciso - i miei cari lettori (e in questo caso i devoti di San Giuseppe ) non devono temere: finché il parroco sarò io la Festa e la Cavalcata saranno “di San Giuseppe”!].  Anche qui il guaio sta nella mancanza di una conoscenza esatta o in una conoscenza parziale ed errata che però rimane inconfessata ma che viene creduta esaustiva e quindi dà luogo ad una lettura preconcetta delle cose. Perché scrivo questo? Per raccontare anzitutto il modo con cui nascono le mie riflessioni.  Spesso infatti  mi viene chiesto il perché dei miei articoli, se scrivo perché ce l’abbia con qualche persona in particolare o se sono dettati da qualche episodio particolare. Voglio soddisfare la parte legittima della curiosità di chi mi ha fatto queste domande. Le mie confessioni nascono sempre da esperienze personali, questo però non vuol dire che “sic et simpliciter” siano trasposte nei miei scritti, né tantomeno che usi i miei articoli per attaccare indirettamente qualcuno. Mi sembra di aver dato ampiamente prova che quando voglio dire qualcosa a qualcuno so benissimo chiamarlo per nome e cognome. Ma non credo che il giornale o il blog debbano servire per combattere le mie battaglie. Se ho accettato l’invito a scrivere e ho deciso di collaborare attraverso lo strumento delle mie “confessioni” sul periodico “Dibattito” di Scicli è perché invece credo che forse a qualcuno le mie riflessioni sui più vari accadimenti possano interessare, dato che penso di non essere il solo a cercare di dare continuamente senso alle più varie esperienze che la vita ci propone, come d’altronde io sono grato a quanti, aprendomi il loro cuore e mettendomi a parte dei loro pensieri, mi consentono di usufruire della loro ricchezza spirituale per la mia crescita personale. Ritornando alla storia del cavallo di San Giorgio: il problema del pregiudizio è il tema della stupidità di cui abbiamo parlato la volta scorsa. Perché? Perché il problema – e se ne era accorto già Platone nella sua Apologia di Socrate – è che spesso chi è ignorante o ha una conoscenza parziale, invece di aprirsi ad una conoscenza più ampia, si chiude in una sorta di compiacimento autosufficiente e si crede invece già saggio e sapiente, ritenendo di non aver niente da imparare dagli altri, anzi la sua conoscenza parziale, se assolutizzata si rivela come un pregiudizio insanabile. Lo stupido di cui parlavo in qualche altro scritto precedente è di questo genere: avrebbe tutti gli strumenti di cui l’ha dotato madre natura per conoscere non superficialmente ma dal di dentro le cose (intelligenza, intelligere, non viene proprio da intus – leggere : leggere dentro?) ma non li usa o li usa male! E li usa male perché è viziato da pregiudizi insuperabili che gli fanno leggere in modo distorto la realtà. Un antico detto ammonisce “timeo lectorem  unius libri”: temo il lettore di un solo libro. Come dire, temo chi si è chiuso nelle proprie idee e vuole sentir suonare solo la propria campana. L’altro articolo si chiudeva con l’accenno al fatto che la stupidità si risolve da un lato con la responsabilità e dall’altro con la qualità della propria esistenza. Ebbene, qualità significa qui appunto la capacità di saper uscire dalla propria mediocrità, dalla propria ignoranza, aprendosi alla cultura, al confronto con le ragioni degli altri, all’intelligenza che non si fa abbagliare dagli specchietti per le allodole. Confesso che per me è sempre una gioia stimolante incontrare e parlare con persone di cultura che magari combattono in campi diversi e talora opposti al mio ma la cui intelligenza  ti permette un incontro vero con l’altro e una comune ricerca della verità, piuttosto che a volte sopportare la pena di gente vuota e insignificante che non sa andare al di là dei propri pregiudizi e del pettegolezzo e che pure dice di essere dalla tua parte e d’accordo con te! Per questo non amo i talk – show e rifiuto gli inviti a parteciparvi. Perché spesso sono solo una sfilata di gente che monologa e ognuna a partire dal proprio pregiudizio. Alla fine ognuna ritorna a casa così come era prima: e allora cosa ci ha guadagnato? La qualità della vita invece credo dipenda dalla propria onestà intellettuale con cui uno si mette alla ricerca della verità e della sapienza. Partendo però da un ammissione: il sapere di non sapere! Cioè il non credere di sapere tutto. Si può conoscere la propria arte eppure non essere sapienti! Proprio come Socrate: allora si arriverà alla “dotta ignoranza” di cui parlano mistici religiosi e laici. E credo che, in tempi in cui è facile scambiare il cavallo per il cavaliere, un po’ di saggezza e di intelligenza non guastino a nessuno!

sabato 30 gennaio 2016

Sulla stupidità

Confesso che più passa il tempo più debbo ricredermi sulla facilità dei rapporti umani. Certo, in gioventù si è portati a idealizzare i rapporti di amicizia o comunque più in generale ci si fa un punto d’onore nel voler fondare qualsiasi rapporto con l’altro, amico o nemico, simpatico o antipatico, su una base di schiettezza e di sincerità. Almeno questa è stata la mia scelta : di impostare i rapporti ad una onestà di fondo con  tutti, sforzandomi di credere che l’altro partisse pure da una scelta analoga. Purtroppo constato giorno dopo giorno che le persone che hanno il coraggio di dire realmente quello che pensano diminuiscono sempre di più. O per opportunismo o perché sopraffatti dai pregiudizi : in ogni caso il risultato è sempre quello : si pensa di fare un dialogo, in realtà si sta parlando davanti ad un sordo della peggiore specie, quello che non vuol sentire perché il discorso non gli conviene. E queste sono le esperienze più frustranti, perché davanti ad un avversario che ti attacca direttamente tu puoi opporre le tue ragioni, ma davanti a chi si chiude davanti a te in modo ottuso che fare ? Mi sono perciò ritrovato nel seguente passo di un grande teologo che diede fra l’altro prova di grande coraggio civile partecipando alla Resistenza contro Hitler e per questo condannato all’impiccagione Dietrich Bonhoeffer che in Resistenza e resa scrive :
“Per il bene, la stupidità è un nemico più pericoloso della malvagità. Contro il male è possibile protestare, ci si può compromettere, in caso di necessità è possibile opporsi con la forza...Ma contro la stupidità non abbiamo difese.
Qui non si può ottenere nulla, né con le proteste né con la forza ; le motivazioni non servono a niente.
Infatti ecco il principio su cui si fonda lo stupido, come scrive ancora Bohoeffer : ‘Ai fatti che sono in contraddizione con i pregiudizi personali semplicemente non si deve credere’ - in questi casi lo stupido diventa addirittura scettico - ‘e quando sia impossibile sfuggire ad essi, possono essere messi semplicemente da parte come casi irrilevanti.’
Nel far questo lo stupido...si sente completamente soddisfatto di sé ; anzi, diventa addirittura pericoloso, perché con facilità passa rabbiosamente all’attacco. Che fare dunque ? ecco il consiglio del nostro teologo : E’ necessario essere più guardinghi nei confronti dello stupido che del malvagio. Non tenteremo di persuadere con argomentazioni lo stupido : è una cosa senza senso e pericolosa. Se vogliamo trovare il modo di spuntarla con la stupidità, dobbiamo cercare di conoscerne l’essenza. Una cosa è certa, che si tratta essenzialmente di un difetto che interessa non l’intelletto ma l’umanità di una persona. Ci sono uomini straordinariamente elastici dal punto di vista intellettuale che sono stupidi, e uomini molto goffi intellettualmente che non lo sono affatto. Da che deriva dunque la stupidità ? Così continua il nostro : Ci accorgiamo con stupore in certe situazioni nelle quali si ha l’impressione che la stupidità non sia un difetto congenito ma piuttosto che in determinate circostanze gli uomini...si lascino rendere tali. L’uomo rinuncia così ...ad assumere un atteggiamento personale davanti alle situazioni che si presentano. Il fatto che lo stupido sia spesso testardo non deve ingannare sulla sua ... indipendenza. Parlandogli ci si accorge addirittura che non si ha a che fare direttamente con lui personalmente ma con slogan, motti ecc. da cui egli è dominato.

Ecco allora il punto : lo stupido è l’uomo che ha rinunciato a pensare con la sua testa. E purtroppo - e come vorrei che il mio fosse un giudizio temerario - oggi di stupidi che hanno rinunciato a pensare in proprio e si sono fatti schiavizzare da mode e slogan e frasi fatte ce ne sono più di quanto si immagini. I miei lettori mi scuseranno questo atto di autocompiacimento : se c’è qualcosa che ha guidato nella mia vita le mie azioni è il credere veramente a quanto promesso dal Cristo : “La verità vi farà liberi”. E per me sempre la ricerca della verità, nella assunzione delle proprie responsabilità è quella che dà pienezza di senso alla propria umanità, costi quello che costi. Già, la responsabilità : il sentire che tu sei “responso habilis”, chiamato cioè a dare risposta, conto e ragione delle tue scelte davanti ad un Altro. Giustamente è stato detto che se non c’è Dio tutto è lecito, perché l’uomo non deve dare più conto delle proprie azioni a nessuno, specie quando la giustizia o la morale  umana non chiedono più conto di niente. E dai fatti recenti di cronaca ce ne stiamo accorgendo : si parla di ragazzi, persone, definite normali e poi si scoprono dei mostri : il fatto è che quello che a noi  sembra normalità è spesso stupidità.  Come uscirne ? Concordo ancora con Bonhoeffer : “La Bibbia, affermando che il timore di Dio è l’inizio della sapienza dice che la liberazione interiore dell’uomo alla vita responsabile davanti a Dio è l’unica reale vittoria sulla stupidità.”  E ritornare al gusto “sapienziale” della vita significa riscoprirne i valori più profondi, a partire dall’opposto della stupidità che è l’interiorità. Ma di questo parleremo un'altra volta.

IO ACCUSO…

Tra epidemia e calura estiva è passato sotto silenzio un importante responso della Congregazione della Dottrina della fede e approvato in pr...