sabato 30 gennaio 2016

Sulla stupidità

Confesso che più passa il tempo più debbo ricredermi sulla facilità dei rapporti umani. Certo, in gioventù si è portati a idealizzare i rapporti di amicizia o comunque più in generale ci si fa un punto d’onore nel voler fondare qualsiasi rapporto con l’altro, amico o nemico, simpatico o antipatico, su una base di schiettezza e di sincerità. Almeno questa è stata la mia scelta : di impostare i rapporti ad una onestà di fondo con  tutti, sforzandomi di credere che l’altro partisse pure da una scelta analoga. Purtroppo constato giorno dopo giorno che le persone che hanno il coraggio di dire realmente quello che pensano diminuiscono sempre di più. O per opportunismo o perché sopraffatti dai pregiudizi : in ogni caso il risultato è sempre quello : si pensa di fare un dialogo, in realtà si sta parlando davanti ad un sordo della peggiore specie, quello che non vuol sentire perché il discorso non gli conviene. E queste sono le esperienze più frustranti, perché davanti ad un avversario che ti attacca direttamente tu puoi opporre le tue ragioni, ma davanti a chi si chiude davanti a te in modo ottuso che fare ? Mi sono perciò ritrovato nel seguente passo di un grande teologo che diede fra l’altro prova di grande coraggio civile partecipando alla Resistenza contro Hitler e per questo condannato all’impiccagione Dietrich Bonhoeffer che in Resistenza e resa scrive :
“Per il bene, la stupidità è un nemico più pericoloso della malvagità. Contro il male è possibile protestare, ci si può compromettere, in caso di necessità è possibile opporsi con la forza...Ma contro la stupidità non abbiamo difese.
Qui non si può ottenere nulla, né con le proteste né con la forza ; le motivazioni non servono a niente.
Infatti ecco il principio su cui si fonda lo stupido, come scrive ancora Bohoeffer : ‘Ai fatti che sono in contraddizione con i pregiudizi personali semplicemente non si deve credere’ - in questi casi lo stupido diventa addirittura scettico - ‘e quando sia impossibile sfuggire ad essi, possono essere messi semplicemente da parte come casi irrilevanti.’
Nel far questo lo stupido...si sente completamente soddisfatto di sé ; anzi, diventa addirittura pericoloso, perché con facilità passa rabbiosamente all’attacco. Che fare dunque ? ecco il consiglio del nostro teologo : E’ necessario essere più guardinghi nei confronti dello stupido che del malvagio. Non tenteremo di persuadere con argomentazioni lo stupido : è una cosa senza senso e pericolosa. Se vogliamo trovare il modo di spuntarla con la stupidità, dobbiamo cercare di conoscerne l’essenza. Una cosa è certa, che si tratta essenzialmente di un difetto che interessa non l’intelletto ma l’umanità di una persona. Ci sono uomini straordinariamente elastici dal punto di vista intellettuale che sono stupidi, e uomini molto goffi intellettualmente che non lo sono affatto. Da che deriva dunque la stupidità ? Così continua il nostro : Ci accorgiamo con stupore in certe situazioni nelle quali si ha l’impressione che la stupidità non sia un difetto congenito ma piuttosto che in determinate circostanze gli uomini...si lascino rendere tali. L’uomo rinuncia così ...ad assumere un atteggiamento personale davanti alle situazioni che si presentano. Il fatto che lo stupido sia spesso testardo non deve ingannare sulla sua ... indipendenza. Parlandogli ci si accorge addirittura che non si ha a che fare direttamente con lui personalmente ma con slogan, motti ecc. da cui egli è dominato.

Ecco allora il punto : lo stupido è l’uomo che ha rinunciato a pensare con la sua testa. E purtroppo - e come vorrei che il mio fosse un giudizio temerario - oggi di stupidi che hanno rinunciato a pensare in proprio e si sono fatti schiavizzare da mode e slogan e frasi fatte ce ne sono più di quanto si immagini. I miei lettori mi scuseranno questo atto di autocompiacimento : se c’è qualcosa che ha guidato nella mia vita le mie azioni è il credere veramente a quanto promesso dal Cristo : “La verità vi farà liberi”. E per me sempre la ricerca della verità, nella assunzione delle proprie responsabilità è quella che dà pienezza di senso alla propria umanità, costi quello che costi. Già, la responsabilità : il sentire che tu sei “responso habilis”, chiamato cioè a dare risposta, conto e ragione delle tue scelte davanti ad un Altro. Giustamente è stato detto che se non c’è Dio tutto è lecito, perché l’uomo non deve dare più conto delle proprie azioni a nessuno, specie quando la giustizia o la morale  umana non chiedono più conto di niente. E dai fatti recenti di cronaca ce ne stiamo accorgendo : si parla di ragazzi, persone, definite normali e poi si scoprono dei mostri : il fatto è che quello che a noi  sembra normalità è spesso stupidità.  Come uscirne ? Concordo ancora con Bonhoeffer : “La Bibbia, affermando che il timore di Dio è l’inizio della sapienza dice che la liberazione interiore dell’uomo alla vita responsabile davanti a Dio è l’unica reale vittoria sulla stupidità.”  E ritornare al gusto “sapienziale” della vita significa riscoprirne i valori più profondi, a partire dall’opposto della stupidità che è l’interiorità. Ma di questo parleremo un'altra volta.

martedì 26 gennaio 2016

chiudere il cerchio

Il popolo dei navajos ha sviluppato una teoria esistenziale davvero sapienziale. Spesso tante esperienze di vita, relazioni, amicizie... rimangono come incompiute, frammentarie, quasi sospese... Col rischio di non riuscire a coglierne il senso profondo. Occorre allora saper chiudere il cerchio, o in modo attivo, o anche lasciando che il cerchio si chiuda... Chiudere il cerchio è un modo per dire che ogni esperienza deve arrivare al suo compimento, alla sua pienezza. Nell'ultimo anno sto scoprendo quanto questo sia vero... Compagni di scuola, vecchi amici ritrovati, compagni di strada reincontrati, tanto perdono, tanta riconciliazione, tanta pace, tanta serenità, tanta dolcezza... Occhi nuovi, sguardi rinnovati, cammini finalmente conclusi, sensi svelati... Sorpresa di vedere intorno a me tanto affetto, tanta tenerezza. Sono grato a Dio che mi sta educando con lo sguardo dei bimbi. Tanti cerchi si sono chiusi e si stanno chiudendo, ma non per chiudere il cammino. E la strada si apre, passo dopo passo... Grazie anche a voi, amici. Vi voglio bene. Tutti.

sabato 23 gennaio 2016

Elogio della lentezza

Ho una sveglia strana sul comodino: quando accendo di notte la sua lucina, impartisce un comando alle sue lancette imprimendo loro un moto antiorario. Così ad esempio se la prima volta accendo alle sei e controllo dopo un’ora, la seconda volta scopro che sono le cinque, cioè un’ora indietro invece delle ore sette come dovrebbe regolarmente segnare. Confesso che un paio di volte, quando ancora non avevo scoperto tale meccanismo (ché invece se non tocco il comando della lucina tutto funziona alla perfezione) ho quasi mancato gli appuntamenti fissati! Per questo, dopo aver scoperto l’inghippo, ho dovuto sciogliere un dilemma: o cambiare sveglia o convivere con questa sua peculiarità. E’ andata per la seconda ipotesi. Perché non mi attira tanto la curiosità della cosa (non sono proprio esperto di problemi di fisica e di meccanica) ma è perché mi ha  solleticato un po’ quella specie di  riflessioni a metà tra il filosofare e il semplice “oziare pensando” che ora voglio condividere con voi. Partiamo dal fatto: la mia sveglia mi riporta indietro nel tempo: certo lo fa per un difetto meccanico e non per darmi il piacere di farmi rimanere un po’ di più a letto, né perché ha coscienza di tutti i tentativi fatti di poter viaggiare avanti e indietro nel tempo (e speriamo che non sia manovrata neanche da un diavoletto in vena di scherzi). Eppure se io spegnendo la sveglia mi riaddormentassi convinto di aver ancora tanto tempo cosa succederebbe? Sarebbe un’ora di sonno perso o riguadagnato? Certo il risveglio mi riporterebbe alla dura realtà: ma allora il tempo che ho vissuto cosa è stato? E, ancora più in profondità: quando posso definire “mio” il tempo che vivo? Non si tratta di andare alla ricerca del tempo “perduto” o solo “passato”: Proust ha scritto già tanto in proposito  e credo che non si possa guardare al passato solo in vena di nostalgia o di rimpianti. Che il tempo scorra – e che noi scorriamo col tempo e nel tempo - è un dato di fatto. E che la vita poi abbia i suoi tempi – e tutti da vivere pienamente – ce lo ricorda il Qoelet: “un tempo per nascere, un tempo per morire, un tempo per ridere, un tempo per piangere…”  Quello che mi preoccupa oggi è una sorta di espropriazione del tempo di cui noi oggi siamo un po’ tutti vittime: o meglio, del senso stesso del tempo ( già il romanzo Momo aveva dato voce a questa preoccupazione). E parlando del tempo chiaramente mi riferisco non solo alla mera scansione di secondi, minuti ed ore e giorni e mesi ed anni… vissuto in questo modo il tempo non si riduce che ad una serie di scadenze, appuntamenti, impegni da rincorrere e da non mancare (vi ricordate del coniglio in perpetuo ritardo del Paese delle Meraviglie di?) in una continua e progressiva alienazione da se stessi. Mi riferisco al tempo nel senso in cui ne parlava S. Agostino, come misura delle emozioni e dei sentimenti del cuore. E’ in questo senso che si dice che ognuno ha i suoi tempi, i suoi ritmi, il suo modo di vivere anche questa dimensione della vita. Perché le emozioni non si possono bruciare, si devono vivere e gustare fino in fondo, centellinandole pian piano come un buon bicchiere di vino. Costretti a scappare da un impegno all’altro, da un luogo all’altro, sempre di fretta, spesso siamo obbligati quasi a non dare conto o sfogo alle nostre emozioni. E così non ci accorgiamo neanche di vivere. Mi hanno raccontato di un esploratore che per salire sulle Ande aveva assoldato due guide indigene pianificando i chilometri da percorrere ogni giorno. Per i primi giorni tutto va bene. Poi le due guide si accamparono e per due giorni non si vollero muovere. Interrogati risposero: “stavamo andando troppo in fretta e le nostre anime facevano fatica a seguirci! Abbiamo dovuto aspettarle!” In un tempo in cui il valore è dato dal “fast” (e non solo food) credo occorra un ritorno allo “slow”: c’è chi ha scritto in proposito un “elogio della lentezza” che condivido in pieno. Confesso che se c’è una cosa che mi fa arrabbiare è quando qualcuno mi mette fretta per cose che invece occorre fare con calma. Si dice: “non rimandare a domani quello che puoi fare oggi”: e se lo riformulassimo in “non anticipare ad oggi quello che puoi fare ugualmente domani?”. E se recuperassimo il senso del riposo? Non è questa la motivazione anche della festa domenicale? E ancor più del riposo sabbatico per Israele? Occorre oggi recuperare la qualità della vita e quindi anche del tempo. Chi sarà il nuovo Giosuè che avrà il coraggio di ordinare “fermati, uomo?”       



sabato 16 gennaio 2016

LA MIA INTERVISTA SU FREETIME

                  

San Gaetano da Thiene diceva: "Sfidate la Provvidenza, lei vi schiaffeggerà con l’abbondanza". Padre Ignazio La China, parroco della Chiesa di San Giuseppe a Scicli ha sperimentato nei lunghi anni del suo sacerdozio, ventotto oramai, che è proprio vero. Anni del suo apostolato impiegati nel servizio di tre parrocchie povere (prima la Madonna della Scala a Noto, poi San Giuseppe Lavoratore in Zappulla a Modica, San Giuseppe a Scicli) in cui spesso non c’è neanche di che pagare la bolletta della luce. Specie in quest’ultima parrocchia, un tempo centro storico ma ora in parte abbandonata dai suoi abitanti e diventata il quartiere con il più alto numero di immigrati di Scicli, tra tunisini, albanesi e rumeni. Sempre sfidando la provvidenza dunque, confidando in essa che non lo ha mai deluso e che lo ha sempre ripagato proprio per via dei suoi grandi sacrifici, specie quando, di fronte alle crescenti situazioni di povertà ci si è dovuti attrezzare per far fronte alle nuove necessità, al servizio degli ultimi, degli umili, dei disagiati e degli sfortunati.
Ai bisogni materiali si è sopperiti con la convenzione col Banco Alimentare e creando un raccordo con le associazioni di volontariato cittadine (P. Ignazio è Assistente della Commissione Caritas cittadina e del Centro di Ascolto di ascolto cittadino) ma spesso il vero bisogno sono la solitudine e tante povertà spirituali: e da qui il suo duro impegno nel non mancare mai nell'arduo e spesso difficile compito di offrire una spalla su cui piangere, una mano di aiuto ed anche contributi concreti a chi ne ha di bisogno. Lo incontriamo accompagnati da una cara collega, Pinella Drago, che prima di introdurci a lui ci fa da cicerone lungo le viuzze e le strade che conducono nella sua parrocchia.
E’ reduce di una riunione preparatoria della “Cavalcata di San Giuseppe”. E’ stanco ma col sorriso di chi è soddisfatto per come sono andate le cose. E’ molto legato Padre Ignazio a questa  rappresentazione religiosa e soprattutto tiene molto al fatto che essa, nonostante l’inevitabile ed affascinante folklore di cui è intrisa, non perda la sua intima essenza. “E’ una festa ricca di suggestioni, lunga e dalla laboriosa preparazione delle straordinarie bardature dei cavalli, che coinvolge una intera città ma che non dobbiamo dimenticare – tiene ad evidenziare Padre Ignazio – possiede una imprescindibile dimensione sacra. La cavalcata di San Giuseppe è la Rievocazione della biblica Fuga in Egitto della Sacra Famiglia, narrata dagli Evangeli. ll coloratissimo corteo, con la Sacra Famiglia in testa, si snoda per le vie della città dove, in vari punti e quartieri sono accesi i pagghiara, falò attorno ai quali si raccoglie la gente del vicinato in attesa del passaggio della Sacra Famiglia. La tradizionale Cena, che come ogni anno, si svolge sul sagrato della Chiesa di San Giuseppe è una cena di beneficenza con l’offerta dei doni per i poveri. Tutto ciò rischia di diventare più coreografia che un modo per poi stare anche accanto al più povero e bisognoso.  Ogni anno, durante i preparativi della festa la questione nodale che mi trovo ad affrontare come una sorta di baluardo della sacralità  è sempre quella  di riuscire a far convivere, in un sano equilibrio, folklore e fede” . Per Padre Ignazio La China la Chiesa vicina ai più bisognosi ed agli ultimi non può abdicare al suo ruolo di madre caritatevole in nessuna occasione, sia essa festosa che di vita quotidiana. Sul solco di questo pensiero preponderante nasce, ci racconta con malcelato orgoglio ancora Padre La China, “Casa Valverde” ad opera della Fondazione San Corrado di cui lo stesso Padre Ignazio ne è presidente per volontà del Vescovo di Noto, Mons. Antonio Staglianò. Sulla scia di esperienze diocesane analoghe come ad esempio quella di Pachino denominata “Casa dopo di noi” dedita alla cura e all'ospitalità dei soggetti affetti da disabilità fisica che non hanno o avranno più il supporto dei genitori, o quella di Noto “Casa Tobia” sorta con l’intento di animare di integrare e recuperare ragazzi con handicap mentale o il cantiere educativo progettato insieme con la Scuola Media Maiore di Noto per l’integrazione della comunità dei “camminanti” fortemente presente nel territorio netino.
A Scicli padre Ignazio è stato il promotore, insieme con la Caritas Diocesana,  di “Casa Valverde” dove si sta sperimentando l’esperienza di “Housing first”: assicurare prima di ogni bisogno l’opportunità di una casa a quelle famiglie che versano in situazione economica per via della quale il mantenimento di una casa non permetterebbe loro di provvedere agli altri bisogni di prima necessità . Le stanze dell’ex convento cinquecentesco delle suore Mercedarie a Scicli, da sempre adibito ad orfanotrofio, sono state ristrutturate ed adibite ad appartamenti in grado di ospitare interi nuclei familiari. Debitamente attrezzati con camere  da letto, frigo, cucina, lavanderia, gli appartamenti, tre in tutto,  rappresentano una opportunità concreta di alloggi dignitosi. Una gemma pienamente incastonata nella struttura della Chiesa caritatevole di Papa Francesco e che ogni giorno è testimonianza viva di quanto piccoli gesti  possano farci sperimentare la Santità di  vivere  con Dio, insieme a Dio. “Dio – afferma Padre Ignazio - ci è accanto nella nostra vita a partire dal battesimo. Tendiamo a dimenticarlo. San Paolo chiamava Santi i suoi. Noi siamo già santi e dovremmo sperimentarlo pienamente nel nostro intimo e poi manifestarlo nelle nostre opere ma non sempre ne siamo capaci, -  continua ancora Padre Ignazio - e per farlo non occorrono gesta eclatanti ma solo tanta fede e concrete azioni quotidiane. Nino Baglieri, ad esempio, lo ha espresso”. Padre Ignazio cita non a caso Nino Baglieri. Egli infatti è stato nominato Giudice Delegato per la causa di beatificazione di Baglieri ed in questa qualità è impegnato a  raccogliere le testimonianze a supporto della causa di beatificazione.“Ciò che emerge dall’ascolto di tutti i testimoni – ci racconta ancora Padre Ignazio -  sembra quasi un ritornello: un soggetto  straordinario in quella che è stata l’ordinarietà della sua  esperienza.   Egli ha vissuto il suo dramma in comunione con Dio e attraverso un percorso che invece altri hanno vissuto in senso opposto e completamente diverso. Nino Baglieri cade da una impalcatura, resta paralizzato.  Altri che hanno vissuto analoga esperienza hanno pensato ad un Dio distratto, forse anche inesistente ma per lui invece  è stata l’occasione per scoprirlo questo Dio.   Se ci riflettiamo col senno di poi in un modo strano Dio ha scelto di entrare nella sua vita. Una vita vissuta pienamente come se la sua disabilità rappresentasse per lui un momento di forza piuttosto che un limite. Nino Baglieri ha mantenuto rapporti e vecchi amicizie, ne ha create tante altre con una semplicità di cuore sbalorditiva che è possibile percepire concretamente anche dai suoi innumerevoli scritti.  Nino Baglieri sentiva che Dio era presente nella sua  vita  e  non perdeva occasione per  esprimere la sua  gioia nell’averlo incontrato”.  Padre Ignazio ci racconta come tra tutti i seminaristi ed i preti della diocesi che frequentavano abitualmente la sua abitazione sia stato  l’unico a non averlo mai visitato pur avendolo più volte incontrato a Noto. Un paradosso che oggi egli legge come un disegno divino affinché possa svolgere con più imparzialità ed obiettività il suo ruolo  nella causa di beatificazione. L’insegnamento che si può trarre secondo Padre Ignazio dalla vita di Nino Baglieri è quello di saper fare della vita un dono. “Nino Baglieri – dice Padre Ignazio - sceglie di seguire il Cristo sulla Croce e alla fine diventerà egli stesso il Cristo sulla croce  per la sua sofferenza finale”. La nostra conversazione con Padre Ignazio prosegue nonostante l’ora tarda, affascinati da quest’uomo di Chiesa che si reputa un intellettuale sui generis. Uno studioso appassionato dei classici greci e latini, legge la Bibbia in ebraico e recita il breviario in latino per non perdere la ricchezza di sfumature che nelle traduzioni non si colgono più, ma che da prete marginale come ama definirsi sente forte la responsabilità di essere dal momento della ordinazione sacerdotale un alter Christus, nonostante i propri limiti. Dove prendere la forza? L’Eucaristia e poi la preghiera. Non tanto dire parole, quanto stare a guardarlo in silenzio, Lui nel tabernacolo e io in fondo alla chiesa, e mettergli davanti le persone che si amano e magari chi proprio non va giù… Inevitabilmente si parla della recente nomina ad arcivescovo di Palermo di Don Corrado Lorefice. Padre Ignazio ci esprime tutta la sua gioia per questa nomina. Con Mons. Lorefice sono coetanei, hanno fatto il  seminario insieme  e studiato insieme sia a Catania e che a Roma. Mons. Lorefice ha studiato morale.  Padre Ignazio  Diritto canonico.  “E’ sicuramente l’uomo che ci vuole oggi a capo di una Diocesi così importante per storia ed estensione. Al di là degli studi e della sua formazione ciò che ho ammirato sempre in don Corrado  é la sua calda umanità, ci dice.  E’ indispensabileper creare un solido  rapporto con chi crede ma anche con chi non crede. Questa caratteristica gli sarà utile per il tipo di lavoro che andrà a fare”. Padre Ignazio è uno di quei preti che hai grande difficoltà ad immaginare su un pulpito ad impartire vuote benedizioni e pronunciare roboanti discorsi. E’ immediato, sanguigno, vero. Con lui è possibile creare subito un contatto che in un non niente si trasforma in empatia ed eccoci già ad affrontare tematiche più profonde ed intime. Parliamo di gioie e sconfitte che caratterizzano il percorso di vita di ognuno di noi e a maggior ragione quelle di chi ha scelto di essere un pastore di anime: le sue.
“Avverto forte il senso della sconfitta – inizia a confidarsi Padre Ignazio - quando  non  riesco  a far comprendere  bene agli altri come il sacro  si deve incarnare sempre nella storia così come l’esperienza di fede. Ma proprio dalle sconfitte, da quelle più cocenti, ho imparato molto. Il Signore ha voluto che imparassi proprio da esse ed oggi ringrazio il Signore per questo dono immenso al punto che “prete”, secondo il concetto di servizio e di donazione completa agli altri,  sento di esserlo pienamente  dal  25° anno di ordinazione sacerdotale sia per  la maturità, l’esperienza, ma anche  la grazia immensa  che il Signore mi ha dato di raccogliere i frutti di quanto seminato. Frutti migliori raccolti lì dove non mi aspettavo nulla. Per me la gioia più bella è data da tutti coloro i quali oggi vivono a pieno la  parrocchia e partecipano a tutte le attività della comunità. Sono i ragazzi di un tempo, piccoli chierichetti allora,oggi uomini e padri di famiglia. Ho avuto la gioia e l’onore di accompagnarli nel loro cammino di fede e di crescita. Li ho cresimati, sposati, ho battezzato i loro figli ed oggi siamo sempre più comunità. Credo che sia questo il dono più grande per un prete. Vivere in sintonia con la propria comunità, accompagnarla nella crescita e mai mortificandone le diversità culturali e religiose che in una società sempre più multietnica come la nostra è ovvio ci siano. Sono un docente, ho insegnato all’Istituto   Magistrale di Scicli, all’istituto di teologia di Noto e ora insegno all’Istituto Teologico San Metodio di Siracusa. Sono incaricato diocesano per l’ecumenismo e dialogo. Ho anche la grazia di poter vivere a contatto con Ebrei, musulmani ed Ortodossi. Vivere una esperienza di Chiesa con  rappresentanti di diverse  religioni la giudico una delle esperienze più arricchenti tra quelle che il sacerdozio mi ha regalato. Mi commuove ancor oggi ad esempio  - prosegue Padre Ignazio - che il rappresentante della chiesa ortodossa  a Ragusa, oramai da oltre cinque anni qui (è arrivato giovanissimo diacono a 28 anni),  nonostante gli anni di frequentazione che contraddistinguono il nostro rapporto di amicizia e di stima  ad oggi  si rivolge a me  dandomi del Lei.  Lo fa in segno di grande stima “Dopo mio padre, tu e il vescovo Paolo Urso”, mi dice, e vi assicuro che quando si riesce a mettere in disparte le ideologie e si vive pienamente  il rapporto umano, l’esperienza  è fortemente arricchente”. E che l’esperienza di interreligiosità ed interculturalità sia un modo  attraverso il quale Padre Ignazio riesce a dare un volto pragmatico al suo concetto di Chiesa, lo si percepisce immediatamente. È come se per certi versi la comunità di San Giuseppe fosse più avanti rispetto le istituzioni stesse. Non appena si presenta un caso che gli assistenti sociali reputano più delicato o complesso non esitano a confrontarsi con Padre Ignazio. Spesso più che aiuti economici i casi necessitano sostegno morale, dialogo ed ascolto. Lo stesso che Padre Ignazio agevola e coltiva coi suoi parrocchiani. Le piccole dimensioni della parrocchia lo permettono. Non riunioni di gruppi per categoria che tendono sempre ad escludere qualcuno ma riunioni che coinvolgono tutta la comunità parrocchiale, dai giovani alle famiglie, insieme con assoluta semplicità magari anche condividendo un dolce preparato in casa. I giovani – ci dice Padre Ignazio – se li convochi per una riunione di catechesi ti snobbano ma se crei un pretesto per stare insieme a loro, essi  non fuggono. Tutt’altro. Ed è in quei momenti che puoi stargli veramente vicino, seguirli ed indicare loro il giusto cammino. Senza assurgere a maestro o censore ma essendo uno di loro. Un loro amico. Padre Ignazio è sui generis anche nella capacità di parlare ai giovani e diciamo anche nell’utilizzo degli strumenti tipici dei giovani e della società moderna. Alcuni nell’ambiente ecclesiastico demonizzano i social però per lui sono uno strumento di  dialogo e  di opportunità di incontro con chi magari per orgoglio o per pudore ha difficoltà a chiedere aiuto, l’aiuto di un prete. L’intervista a Padre Ignazio si prolunga, diventa un piacevole dialogo e confronto. Si continua a trattare argomenti di scottante attualità. L’ultimo, ci ripromettiamo, prima di salutarci: il sinodo sulla famiglia e il gran parlare che si è fatto sulle unioni gay.  “Non mi scandalizza  il fatto che due persone dello stesso sesso possano amarsi. La chiesa con il suo insegnamento si mostra critica verso tali  sentimenti solo nella  misura in cui li  si vogliono catalogare con definizione tipiche di istituzione secolari  come il sacramento del matrimonio che è una istituzione che nasce in relazione ad un uomo ed una donna ai fini della procreazione. Tutto ciò che esula da ciò non può rientrare nella definizione di matrimonio. Il problema non è dato dal fatto di due persone dello stesso sesso che si amano e stanno insieme. Poi bisogna sempre distinguere tra chi crede e chi non crede. La Chiesa ricorda che non l’orientamento ma l’esercizio dell’omosessualità è peccato. Ma mentre condanna il peccato accoglie sempre l’uomo peccatore. In coscienza ognuno poi davanti  al Signore – ci ricorda Padre Ignazio – risponde delle proprie scelte.  Il primato delle coscienze viene innanzitutto. Un figlio ha il diritto di avere un padre ed una madre, per questo non è corretto parlare di matrimonio tra gay. Ho diversi amici gay ma  nessuno di essi  mi ha mai manifestato questa loro voglia di sposarsi. Mi viene da pensare che spesso dietro questi argomenti così scottanti ci sia una lobby minoritaria che possiede strumenti e risorse economiche tali da influenzare le grandi scelte della società. Stiamo andando verso una società sempre più pluralista, in cui non hanno senso forti pregiudizi. Per chi crede, chiunque sia, l’importante è sempre voler fare un cammino di conversione e di fede. Mutuo quindi le parole di Papa Francesco “se una persona è gay e cerca il Signore e ha buona volontà, chi sono io per giudicarla?» Una citazione con la quale Padre Ignazio si conceda da noi e ci lascia col  profondo convincimento che è davvero un prete sui generis.

sabato 9 gennaio 2016

I piccoli del Regno

Si è presentata il giorno della mia nomina chiedendo dove fosse il signor parroco e appena mi presentai mi diede il benvenuto e mi regalò una scatola di cioccolatini. Da quel momento quasi tutti i giorni la vedevo presentarsi in sacrestia ora con una brioche, ora con un mazzo di asparagi, ora magari con qualcosa di impensabile ma significativo ripetendomi la sua contentezza di vedere la chiesa di San Giuseppe aperta tutti i giorni. E in fondo alla chiesa si sedeva aspettando che io finissi di ricevere le altre persone per farsi poi avanti. La stanchezza di una vita che non le aveva dato niente più che la vecchiaia e la malattia le hanno fatto compiere velocemente il trapasso. Ammalata quasi non chiedeva niente, nemmeno aiuto e dall’ospedale si rifiutava di mandarmi a chiamare perché temeva di disturbarmi : quando sono arrivato nella sua stanza ha semplicemente sorriso, ma con un sorriso quasi di complicità. Molti non si sono neanche accorti dei suoi funerali in un’estate che rallenta non solo le attività fisiche ma anche quelle dello spirito.
Perché racconto questo ? Perché confesso che sono queste le esperienze che mi commuovono e che mi danno la spinta a fare il prete più di tutte le altre disquisizioni accademiche degli intellettuali di turno e dello stesso rapporto con chi ha la puzza sotto il naso e passa il tempo in chiacchiere, dietrologie e futurologie varie. Mi commuove la Messa celebrata con le quattro vecchine della mia parrocchia che mi hanno circondato fin dall’inizio con il loro affetto senza chiedersi il perché o il percome della mia nomina - per loro sono il parroco e questo basta per aprirmi il loro cuore - e che giornalmente mi danno lezioni di fede nel loro pregare semplice e silenzioso in chiesa, nei loro gesti umili ma pieni di una grande saggezza.
Ma lo stesso potrei dire in modo speculare dei bambini e del loro modo di porsi in modo spontaneo, in rapporti che superano a volte sicuramente per schiettezza gli stessi adulti. Specie nella capacità di andare al cuore delle cose. Mi fece impressione una volta il dialogo captato fra due bambini dopo che mi ero fermato un po’ con loro : “hai visto come è simpatico il nuovo parroco e come gli piace scherzare ?” domanda l’uno e l’altro : “Si, ma dovessi vedere come è serio quando celebra la Messa !”. Mi sono detto che se avevano intuito già queste cose avevano intuito tutto di un prete : la capacità di essere uomo di fraternità e insieme uomo di Dio.
Debbo a queste esperienze la possibilità di “rimanere coi piedi a terra” rifuggendo da astrattismi e idealizzazioni pericolose. E le lezioni che sto avendo nel girare casa per casa, nel rapporto semplice e spontaneo con le famiglie, riequilibra e concretizza le lezioni di pastorale fatte a scuola.
Non scrivo queste cose per parlare di me, per mettere me o il mio stile pastorale al centro dell’attenzione, ma solo perché scopro sempre di più la verità - e come non potrebbe esserlo - di quella benedizione con cui il Cristo ringrazia il Padre per aver nascosto i misteri del suo Regno ai sapienti e agli intelligenti ed averle rivelate invece ai piccoli.
E mi convinco sempre di più che la storia, quella vera non è quella dei potenti e dei giochi di potere, quella che si legge sui libri. E’ la storia dei piccoli, le cui vicende quotidiane di generosità e pazienza potrebbero essere raccontate con altrettanta importanza sui libri. Purtroppo invece spesso dei piccoli si narra solo la cronaca nera (passata per “vera” da qualche giornale).
E forse dai piccoli deve ripartire il nostro cammino per superare l’impasse in cui pare ci siamo impantanati senza più poterne uscire.
Se ne è accorto ultimamente uno storico della Chiesa quando non ha più voluto scrivere una storia della Chiesa che coincidesse con una storia del papato e che ha scritto perciò una “storia del popolo di Dio” in cui le vicende dei piccoli hanno altrettanto valore della storia dei dogmi. E spero che se ne accorgano anche non solo gli altri storici, ma anche quanti, nelle stanze alte del potere devono ricordarsi che questo ha la sola giustificazione nel servizio dei piccoli. E in questo politica e religioni possono e debbono camminare insieme.


mercoledì 6 gennaio 2016

Non vedere il male, non ascoltare il male, non dire il male.

Quando arrivò sugli schermi cinematografici L’esorcista, scandalizzò ma fece anche riflettere molte persone  negli anni settanta, anni in cui regnava ancora l’infatuazione delle magnifiche sorti progressive del mondo e in cui anche alcuni preti avevano smesso di parlare del diavolo (e di credere nella sua esistenza). L’interesse - se così si può chiamare -  riesplose col forte e coraggioso richiamo di Paolo VI sul fumo di Satana che continua ancora nel presente ad infiltrarsi nella Chiesa e nel mondo. Allora fu l’occasione di un vivace dibattito sia ecclesiale che mondano. Oggi invece il film quando viene dato in televisione passa sotto silenzio, se non fosse per la sua (scorretta) catalogazione nel genere “horror” che richiama qualche adolescente appassionato di brividi. E quando è stato riproposto al cinema non ci sono state più al botteghino le file e la ressa di un tempo. Peccato. Perché il film merita di essere visto, sia dal punto di vista prettamente cinematografico (è un’opera  “cult” che ha segnato la storia del cinema), sia perché non è la solita raccolta di ciarpame ma si fonda su un’opera ben documentata qual è il romanzo da cui è tratto. Qui infatti si tratta di un tema che è stato da sempre al centro del dibattito filosofico e teologico: cos’è il male ? E se Dio è Bene, da dove il male ? E il diavolo: solo un simbolo del male ? Non sembrino superate queste domande, in un  mondo che vuole “esorcizzare” non solo  i vari mali (guai a parlare oggi di dolore, sofferenza, malattia, morte) ma anche la stessa radice del male: non ci si domanda  spesso retoricamente “che male c’è ?” dando per scontata la risposta “No, non c’è niente di male” davanti  alla possibilità  di potersi  liberare da ogni vincolo morale ? Lewis, nelle sue Lettere di Berlicche  (consigli di un diavolo esperto al suo nipotino diavoletto) affermava che il punto di partenza per la buona riuscita di una tentazione fosse appunto il far credere che il male non esiste e così far abbassare la guardia al povero  tentato. Può sembrare strano che  mi sia spinto a parlare di un argomento così poco “festivo”. Ma il motivo c’è.

In questi giorni all'inizio del nuovo anno tutti ci auguriamo ogni bene. Ma il bene non è un qualcosa di scontato. E’ un dono prezioso. E’ una conquista, spesso da strappare con le unghie dalle grinfie del male e da difendere con la vita. E va cercato, come l’oro, e come l’oro deve essere separato da ciò che oro non è. Non è facile, però credo che la grandezza di un uomo si misuri sempre da questa attenzione nel riconoscere e saper separare il bene dal male. La sapienza biblica si riassume proprio in questa indicazione fondamentale : fa’ il bene, evita il male. Ma in ciò penso che qualunque autentica esperienza religiosa ed etica umana possa essere d’accordo.  Vorrei allora augurare ai miei amici lettori di poter avere la capacità - e oggi non è facile per nessuno - di sapersi sempre chiedere cosa sia il vero bene da quello che non lo è. Purtroppo tanti imbonitori oggi vorrebbero cambiare le carte in tavola : ma il male, in qualunque modo lo si presenti o si chiami finisce per ritorcersi sempre su chi lo ha scelto. Perché né nel bene né nel male c’è predestinazione : è sempre in gioco la libertà dell’uomo, fin dall’inizio, fin da Caino, quando Dio vedendolo covare rancore per il fratello Abele lo ammonisce “Il male è come una bestia feroce accovacciato alla tua porta : ma tu non lasciarlo entrare. Se tu vuoi, tu puoi dominarlo”. “Se tu vuoi , tu puoi” : quale messaggio migliore di libertà e di speranza per l’uomo ? Al di là di come si interpretino i rancori gli egoismi le lotte le guerre gli odi sono frutto del male. E all’inizio del nuovo anno dobbiamo ricordare che se l’uomo vuole può cambiare il corso della storia. Non possiamo e non dobbiamo soccombere al male. Un caro amico, italianizzando il soprannome della mia famiglia materna (“cacciariavili”, letteralmente “cacciadiavoli”) mi chiama bonariamente “l’esorcista” e io sto al gioco (confesso che mi piace), perché mi ricorda sia il mio ruolo ministeriale  e sia una grazia che il Signore mi ha fatto, quella che spesso le situazioni di male che mi trovo ad incontrare vengono subito a galla (anche se per far questo deve venire a galla anche la mia umanità peccatrice): grazia perché, venendo allo scoperto, il male può essere combattuto e vinto. Il mio augurio per l’anno nuovo è che un po’ esorcista lo sia ognuno, in questa capacità di non farsi sedurre dal male e di vincere il male con il bene. E’ questo il senso genuino della scultura delle tre scimmiette che Ghandi portava sempre con sé: non vedere il male, non ascoltare il male, non dire il male. Altro che l’immagine dell’omertà mafiosa: le tre scimmiette sono il programma di una vita spesa attivamente a costruire il bene, per noi e per gli altri ! Un anno di bene dunque a tutti !  

IO ACCUSO…

Tra epidemia e calura estiva è passato sotto silenzio un importante responso della Congregazione della Dottrina della fede e approvato in pr...