domenica 28 maggio 2017

Cristo, la cultura e Buchowski

Ho rivisto per Pasqua il film La Passione. Ho ricordato le polemiche che lo accompagnarono alla sua uscita (<<troppo crudo>> si disse allora) e ho notato ora invece l’indifferenza generale per la sua rimessa in onda. Eppure è un film che 
ha comunque richiamato in me quel principio che personalmente a me sta tanto a cuore e che dovrebbe stare a cuore di tutta la Chiesa e di tutti i cristiani, di qualsiasi confessione: è quello che in teologia viene chiamato come Legge dell’Incarnazione. Ho usato il condizionale, parlando di Chiesa, perché uno dei rischi che oggi è più paventato da tanti acuti osservatori del fatto cristiano, sia credenti  sia non credenti o comunque non praticanti (quale ad esempio Massimo Cacciari che in diverse interviste sta difendendo – a volte forse più degli stessi uomini di Chiesa – il proprio, l’essenza del cristianesimo che è lo stesso Cristo) è che l’esperienza cristiana sia ridotta ad una etica, una morale, fosse anche una religione tra le tante, ad una via di conoscenza (gnosi) intellettuale, a pura ideologia o filosofia. Così facendo si snatura la fede cristiana che non è fondata né su principi o su valori astratti, fossero anche i più belli, ma su un uomo, Gesù  di Nazaret che la fede ci fa confessare come il Verbo rivelatore dell’unico Dio Creatore del mondo e Signore della storia. Nonostante quello che si dice il cristianesimo (e l’ebraismo da cui deriva ma da cui nettamente si stacca) non è una religione del libro (termine improprio creato da Maometto per accreditare il Corano come libro sacro e acriticamente ripreso purtroppo anche da commentatori cristiani): la Bibbia (vangeli compresi) non è tanto importante per se stessa (e quindi parola di Dio tout court: altrimenti cadremmo nel fondamentalismo letteralista) o per le belle espressioni o i bei principi in essa contenuti; il cristiano anzitutto vive nella fede il suo incontro personale con il Cristo, e sa che la Bibbia è solo una testimonianza della sua incarnazione. Se anche non avessimo più vangeli o non avessimo neanche una parola di Cristo la mia fede in lui non verrebbe meno, perché quello che conta non sono le parole che lui ha detto, ma il gesto d’amore con cui lui mi ha salvato sulla croce. Se Cristo avesse scritto mille libri sull’amore ma poi fosse morto di vecchiaia nel suo letto certo la sua morte non avrebbe avuto il  valore salvifico che tutti noi attribuiamo invece alla croce. Comprendere ciò significa essere veramente cristiani ed evitare di leggere il film di Gibson (per me il più bel film sulla passione finora visto) con pregiudizi tendenziosi ed equivoci (anche strumentali). Dio ci salva in Cristo assumendo l’umanità e il suo peccato e quindi anche la morte e il dolore: questo si afferma quando si dice che il Verbo si è fatto carne. Perché tutto ciò che l’uomo sente e sperimenta lo prova attraverso la carne: l’incarnazione è il gesto appassionato di un Dio che ama l’uomo per quello che è, senza nessun astrattismo. Guai a dimenticarlo: l’uomo è carne (e la tradizione biblica rifugge dal dualismo anima – corpo di origine platonica che tanti danni ha poi causato nel pensiero e nella prassi ecclesiale al punto di interessarsi solo della cura animarum!) e il cristianesimo, con l’affermazione che il nucleo centrale della fede è l’incarnazione e la conseguente resurrezione della carne (e non tanto l’immortalità dell’anima, anche questa frutto della speculazione filosofica greca) è il materialismo antropologico più radicale che mai si sia avuto nella storia e l’inno alla materia più bello che sia stato mai scritto. Ma l’incarnazione è legge non solo per Cristo ma anche per la chiesa che da lui prende le mosse: la Chiesa non può non essere e agire se non come lui ha fatto. Questo implica uno sforzo di inculturazione del Verbo in ogni epoca e in ogni civiltà e contesto storico per assumere ogni volta non il “concetto” di uomo, ma questo uomo hic et nunc le sue vicissitudini e la sua storia. In pratica lo sforzo costante di farsi carico dell’altro che comporta la  sua conoscenza piena e diretta: l’inculturazione è una mediazione che non può essere fatta una volta per tutte perché l’uomo e le sue situazioni cambiano e la Chiesa deve calarsi come il buon samaritano ogni volta su un ferito diverso. Ecco perché è grave lo iato esistente tra Chiesa e cultura (e mondo della cultura) ed è ancora più grave che in forza di una malintesa pastoralità tanti uomini di chiesa non coltivino il dialogo con la cultura: senza cultura non si hanno strumenti per potere poi incarnare il messaggio evangelico. E cultura significa entrare in dialogo con tutte le espressioni dell’animo umano. Se già un intellettuale romano poteva dire “sono uomo e niente di umano reputo straniero” a maggior ragione un cristiano non può considerare alieno nessun fatto genuinamente umano. Senza puzza sotto il naso né velo agli occhi. Sono grato al Signore per aver avuto l’opportunità negli anni di seminario di leggere non solo libri di ascesi e di mistica ma anche i libri di Kerouac e di Buchowski: perché  le loro storie di ordinaria follia mi hanno aiutato a capire su quali strade oggi il mondo cammina, strade che purtroppo forse mai incroceranno le strade di Cristo e del Vangelo. E confesso che questo è la mia sofferenza di prete oggi: perché per quanto mi possano piacere Gioia e Cavalcata e Mulici e tonache e piviali, mi si spezza il cuore passare davanti a giovani che vivono alla giornata e che non si fanno minimamente interpellare da quanto succede loro intorno, si sparassero pure migliaia di euro in fuochi d’artificio! Giovani che di Charles Buchowski hanno appreso solo l’arte dello sballo ma non quello che c’era dietro (proprio Buchowski a un giornalista che gli chiedeva cosa cercasse in alcool e droga nella sua ultima intervista rispose: <<Cosa? Dio, naturalmente, e che altro?>>).  Ma è una sofferenza ancora più grande quando una parte di uomini di Chiesa non si fa mettere minimamente in questione da scene come questa, dalle decine di nostri figli drogati e alcolizzati e di figlie ragazze madri o dall’aborto facile, di famiglie che si dissolvono come neve al sole, di bambini e fanciulli (ma anche adulti) educati da spettacoli immorali (no: non pensate ai film porno, perché la reality tv è più sconcia di un film hard) però poi se un prete cita un proverbio popolare si scandalizza! Ma il vero scandalo è che Scicli, con tutto l’Occidente sta morendo di un lento suicidio e nessuno se ne preoccupa! La Chiesa italiana aveva varato il progetto culturale, ma temo che sia rimasto un pio desiderio che nessuno ha veramente compreso e voluto. E forse, nonostante le chiacchiere e le grida altisonanti, perché preferiamo curare di più le nostre buone e care bizzoche che avere il coraggio di uscire dal tempio. Ma il mondo, l’uomo, la storia, sono fuori: e di questo peccato di omissione dovremo rendere conto a Dio.

Qualcuno ancora una volta forse si scandalizzerà per queste mie parole, si chiederà come un prete può avere una visione così tragica della realtà: no, non sono pessimista, anzi, se non ci fossero fede e speranza ad animare le mie giornate chissà da quanto tempo avrei ceduto alla tentazione di smettere di lottare. Ma non mi va stare a guardare senza fare niente, magari immaginando che le situazioni si aggiustino da sole, o di accontentarmi di un minimo da chi invece è chiamato a dare  il massimo e il meglio di se stesso. Perché la Chiesa ha un compito educativo e formativo a cui non può rinunciare, pena la perdita della sua stessa identità. Diciamolo però con franchezza, oggi nelle nostre chiese difficilmente si educa alla fede, non si formano più cristiani che anzitutto sanno in chi e in cosa credono (l’ignoranza è così grande ormai che ce la rimproverano anche i pensatori laici!), o per tenerci buoni i quattro fedeli che ancora ci seguono cominciamo a fare sconti sulle esigenze della sequela: come mi preoccupano certi cammini di fede in cui tutti sono intruppati e plagiati, così d’altro canto temo certe proposte di fede tutta acqua e sapone e in cui ogni problema è risolto solo con sdolcinati sorrisi. Stranamente che la fede, quella biblica, sia un cammino di libertà, di coscienza e di interiorità che comincia con Abramo, che si nutre di Parola, che tende alla santità, che vive di amore e di accoglienza a volte devono essere i non credenti o i non praticanti a ricordarcelo. Dice San Tommaso  D’Aquino che la verità, da chiunque è detta, rimane tale e quale, e allora? E allora siamo al discorso di prima. Per questo non ci rimane che sperare che dalle nostri parti ritorni di moda una parola: responsabilità, cioè prendere sul serio la propria vita e la propria fede, contro tutti i luoghi comuni che sono i buchi neri in cui oggi sprofondano tutte le buone intenzioni!

mercoledì 24 maggio 2017

Un omaggio alla bella Siria un tempo luogo di pace e speriamolo anche nel futuro.

Ho avuto la gioia di partecipare, come socio di Biblia, l’Associazione laica che promuove lo studio della Bibbia, ad un viaggio di studi biblici in Siria nel giugno 2008.
Come sempre mi piace mettervi a parte di quelle sensazioni che questo viaggio (fatto in compagnia di persone simpaticissime: questo si che è doveroso dirlo, e organizzato in maniera impeccabile) mi ha suscitato e di quelle riflessioni che mi hanno accompagnato in quei giorni.
Il prof. Prato, nella conferenza iniziale ad Aleppo, chiuse il suo discorso dicendo che – tutto sommato – ognuno viaggia per cercare una conferma alle proprie convinzioni.
Sarà che in fondo il mio animo scout di tanto in tanto riemerge con prepotenza, e che dunque la spiritualità della strada, e perciò il fascino della scoperta e dell’avventura, ha contribuito a forgiare la mia personalità, ma dico subito che se da un lato questa affermazione del prof. Prato può essere in parte condivisibile, d’altro lato però credo che, almeno per me, non rappresenta la molla unica, o quantomeno la sola o la più preponderante che mi spinge a viaggiare.
Se infatti il vedere e toccare con mano, l’essere nei luoghi a lungo studiati nei libri di scuola può essere una riconferma delle nostre convinzioni, l’esperienza dell’incontro con mondi e culture diverse ti suscita sempre nuovi interrogativi e ti apre nuovi orizzonti. Viaggiare per me è sempre l’accettare di mettersi in discussione e rinunciare alle proprie certezze (a partire dalla rinuncia a voler trovare il tuo piatto di spaghetti dovunque tu vada!). E se questo può valere per ogni viaggio, debbo confessare che, almeno personalmente, la Siria si è rivelata in questo molto stimolante.
Voglio leggere così, quasi tra questi due poli, l’esperienza del viaggio in Siria.
Chi fin dalla scuola elementare ha studiato di Assiri e Sumeri, di Mesopotamia e di Hittiti, di Punici, Egiziani e Fenici… può ben comprendere cosa significhi l’Eufrate (e tutto quello che questo evoca) nell’immaginario collettivo e l’emozione di quanti hanno voluto finanche bagnarsi i piedi in questo fiume che, col suo collega, il Tigri, rappresenta l’idea stessa della Storia che scorre. Nella traversata in barca dell’Eufrate pensavo proprio a quanti popoli si sono incontrati e scontrati sulle sponde di questo fiume e nella Siria tutta, terra proprio di incontro/scontro di popoli, e perciò terra ricca di memorie, tradizioni, anime…in un mosaico che la rende bella, come le belle ragazze e i bei giovani che incontri per le strade e ti sorridono e ti salutano (penseresti mai di trovare rosse e biondi in Siria? Ma l’incontro dei popoli ti fa pure di questi scherzi!).
Il viaggio in Siria è stato dunque una rilettura di quelle pagine di storia, tra il mythos e l’epos, con cui noi siamo cresciuti, un rivivere pagine liete e tristi di quel racconto che ci riporta alle nostre stesse radici di popoli del Mediterraneo. Una scarpinata polverosa tra quelle città i cui nomi, balzati fuori dalle pagine dei libri con lo stesso vento che ora li copre con una coltre di sabbia e ora magari ne scopre un angolo recondito da cui emergono le vestigia di un dio dimenticato, adesso sembrano richiamare davanti a te immagini di mondi e regni passati, e ti chiedi se mai esse furono davvero, se non ti trovi invece davanti ad una di quelle città invisibili descritte da Calvino. Senti ancora la bellezza di Zenobia quasi trasfusa nella sua città a Palmira, il canto dello Shemà Israel nella sinagoga di Dura Europos, le litanie dei pellegrini nella chiesa di San Sergio… ma Padre Ramon ti sveglia dal sonno ricordandoti che alla fine il deserto vincerà!
Ma, per chi ama la Bibbia, la Siria è anche Ebla e Ugarit, la nascita dell’alfabeto, il retroterra culturale dei racconti genesiaci, El e Jah, le tavolette cuneiformi e i templi di Baal e degli  altri dei, è il mondo semitico, è l’aramaico… (la lingua parlata da Gesù e che ancora risuona a Maalula: sentire il Padre Nostro in aramaico ti fa venire la pelle d’oca!)… è la prepotente domanda di come un’esperienza religiosa, quella ebraica, pur partendo da assunti per niente originali, abbia dato origine a quel mondo della fede che ancora oggi ci fa riflettere e ci fa interrogare su noi stessi e il senso delle cose.  E credo sia questo il motivo profondo del nostro viaggio, come soci di Biblia (da avere in partenza, ma magari per tanti altri da trovare all’arrivo), proprio per dare una coscienza a quanto si è vissuto. Proprio la Bibbia però ti spinge a cercare  anche nell’incontro con l’altro, nel dialogo, nella scoperta della diversità al di là di quanto ci accomuna, come ricchezza umanizzante. E per questo non si può solo cercare tra le pietre ma anche ascoltando le comunità cristiane delle varie confessioni- nell’impossibilità politica di un approccio con la comunità ebraica-, proprio per verificare la possibilità effettiva di questo dialogo tra cristianesimo, ebraismo ed islam da tutti ricercato. Perciò per me il viaggio in Siria (come qualsiasi altro viaggio) vale anche per le persone incontrate, i sorrisi, le battute, i saluti… l’accoglienza e il grande senso di ospitalità, i frammenti di storia che riesci a cogliere al di là dell’impaccio delle lingue, in un frammisto di arabo e italiano, inglese e francese, ma soprattutto di gesti e di sguardi. Scopri che, se si vuole, l’incontro può avvenire, il dialogo si può avviare. Tra persone ma anche tra culture e ancor più tra le fedi: a Damasco e ad Aleppo non senti solo il muezzin, senti anche le campane delle chiese che invitano alla preghiera e nelle moschee vedi che i musulmani offrono ceri a San Giovanni Battista e a suo padre Zaccaria per implorare il dono di un figlio o per ringraziare di averlo avuto. Se solo dunque si volesse… e proprio qui senti struggente la mancanza, tra figli di Abramo, della componente ebraica che renderebbe più completa la nostra gioia. Mi chiedo: se l’incontro è avvenuto, avviene per gli odori e i sapori, nella fantasia di salse ed insalate, se avviene nel canto e nella danza, perché non può avvenire anche per le altre dimensioni della vita? I castelli dei crociati e le cittadelle del Saladino sulle mute alture testimoniano di un mondo che più non ritornerà e che spinge a trovare altre strade… La Siria è stata e potrebbe ritornare ad essere un laboratorio per la ricerca di queste strade di incontro tra i popoli.

E poi dobbiamo ricordare che proprio sulla via di Damasco Saulo fu folgorato dalla presenza del suo Signore. Al di là di come la si voglia intendere, al di là del fatto di credere o meno in Dio, conversione è anzitutto cambiamento del modo di vedere e considerare le cose. La Siria ci ha coinvolto, ci ha sedotto: chi non è rimasto insensibile alle sue provocazioni adesso certo sta vivendo la sua metanoia. 

sabato 20 maggio 2017

Scongiuriamo l'esodo dei cristiani dal Medioriente

Confesso la mia continua meraviglia per quella sorta di rassegnazione che quasi rasenta l’indolenza con cui non solo da parte dei mass media (ma questo tutto sommato non mi stupisce) ma anche all’interno stesso della comunità cristiana si seguono (o forse sarebbe meglio dire in realtà non si seguono) le sorti dello sparuto gregge cristiano rimasto a presidiare i luoghi cari e preziosi della Terrasanta e del Medio oriente. E parlo di cristiani in generale perché non vorrei che il mio discorso fosse travisato in un interessato richiamo solo pro domo mea, cioè per la sola parte cattolica (fra l’altro numericamente minoritaria rispetto alle altre confessioni cristiane ortodosse). Già altre volte ho levato accorati appelli perché almeno questo dramma fosse conosciuto anche in questa nostra piccola cittadina di Scicli dove sicuramente un’informazione alternativa a quella dell’establishment mediatico (e non solo politico perché in questo caso maggioranza e opposizione difatti brillano per la mancanza di qualsiasi azione propositiva che non sia di mera propaganda) trova difficoltà ad arrivare. E il mio è un appello che vuole prescindere dal contesto politico in cui la Terrasanta attualmente si trova (volutamente non parlo perciò né di Israele né di Palestina): il mio è un discorso certamente di fede, ma che in questo caso prescinde anche da questo, per farsi culturale e per aprirsi anche ad un livello di giustizia nel rispetto per quelli che sono i diritti fondamentali di ogni uomo. Non hanno i cristiani di Terrasanta uguale diritto ad abitare la loro terra e di professare la loro fede come tutti gli altri? La Carta dei Diritti dell’uomo non vale anche per loro? Mi sorprendo infatti quando vedo appelli per questa o quella minoranza, per emigrati e immigrati di ogni genere e di ogni colore in casa nostra e fuori casa nostra: siamo pronti a fare collette, raccolte e gemellaggi con il più sperduto paese dell’Africa o dell’America Latina e tutto questo è certamente giusto, ma … e poi siamo pronti a levare alte grida e a stracciarci le vesti per chi doveva fare e non ha fatto o cosa si poteva fare e non si è fatto in occasione di olocausti e affini e questo è altrettanto giusto, ma poi? Cosa stiamo facendo noi ora? Non stiamo rispondendo anche noi con  il silenzio su tante altre realtà scomode? Ecco perché arrivati a questo punto mi chiedo cui prodest, a chi giova tutto ciò. Mi chiedo se non abbia ragione chi afferma che c’è in atto un rigurgito di anticristianesimo in cui certe frange liberali, radicali, massoniche e sinistrorse di ogni genere si ritrovano. E questa mia supposizione è avvalorata dal fatto che non solo non si parla della sorte dei cristiani di Terrasanta, ma non si parla degli altri genocidi di cristiani che in Africa ad esempio si stanno perpetrando. Non c’è telegiornale in cui non ci sia l’immancabile servizio (pilotato) dalla Siria, eppure nel mondo attualmente stanno avvenendo tragedie altrettanto gravi ma su ci nessun riflettore viene acceso. Cui prodest allora che la presenza cristiana divenga pian piano insignificante in tanti contesti geopolitici del nostro pianeta? Certo il quesito è intrigante e merita una risposta più articolata in uno spazio più ampio. Ma certamente in Terrasanta la risposta è chiara: è nell’interesse degli opposti integralismi sia ebraici che islamici (vedi ad es. il rifiuto del governo israeliano di concedere permessi di soggiorno a sacerdoti, frati e suore che operano in strutture della Terrasanta con l’imposizione di tasse che sta obbligando tanti ospedali e orfanotrofi religiosi a chiudere o le pressioni e le minacce che i cristiani palestinesi subiscono per abbandonare le loro case e terre ed emigrare, e grazie a Dio non si è arrivati alle intimidazioni con le bombe nelle chiese come in Iraq o Siria o Egitto!). Proprio per questo i responsabili delle chiese cristiane di Terrasanta hanno indetto attività di sensibilizzazione per la ricerca di aiuti concreti per tante famiglie messe alle strette da questa situazione. Non sarebbe bello che anche nella nostra Scicli ripartisse il progetto di gemellaggio con Gerusalemme e Betlemme di cui tanto si è parlato e si parla ma che non si riesce a concretizzare? Pensiamoci.

venerdì 12 maggio 2017

Ripubblico una riflessione del 2004 ma ancora attuale (sperando che nessuno arricci il naso)!

Confesso che è da un po’ di tempo che mi porto dentro la riflessione di questo mese e che poi ho sempre rimandato a pubblicarla nella speranza di poter trovare una espressione più soft rispetto a quella che tra poco leggerete: il fatto è che gira e rigira non me ne sono venute altre in aiuto per significare un tipico atteggiamento purtroppo diffuso in tanti che pretenderebbero di fare i furbi ai danni di poveri malcapitati e che, sinceramente mi ha fatto e continua a farmi soffrire non poco sia in episodi in cui sono stato coinvolto in prima persona, sia in altri a cui mi sono trovato ad assistere. Faccio affidamento allora sull’intelligenza dei lettori che spero non si fermeranno al commento stupido e superficiale di come un prete possa usare una battuta grossolana e che mi auguro invece mi seguiranno nel deplorare la volgarità e l’ottusità di chi pensa che il mondo sia fatto solo per chi si crede spocchioso. Ma forse avevano ragione già i greci a proposito di commedia e tragedia quando dicevano che se il linguaggio deve rispecchiare  gli stili di vita allora un comportamento volgare non può che essere espresso in una espressione a prima vista volgare ma, diciamolo francamente, in realtà spesso volgare non è il linguaggio ma il comportamento stesso che si trova a descrivere.

Ebbene, col crescere vedo sempre di più la ricchezza dei consigli e delle riflessioni su come va il mondo ereditata da mio padre e finisco sempre più col dargli ragione nel suo guardare la vita e i rapporti sociali con occhi disincantati. E se c’è una constatazione su cui sono sempre più d’accordo con lui è nel riconoscere che molte persone veramente credono che “a minchia ‘nculu r’autru para filu ri ina”. Il detto se volete è un po’ crudo e si riferisce ad un atto di sodomia a cui chi si crede furbo vorrebbe sottoporre il “paziente” di turno, nella pretesa che tale operazione sarà indolore (la “ina” è quell’erba che ha uno stelo lunghissimo e sottilissimo: ergo…). La parabola è presto svelata, perché chiaramente si adombra il comportamento di chi si crede libero di poter usare e abusare degli altri a proprio piacimento, magari sorprendendosi se l’altro ha una qualche reazione, come se fosse quasi un suo diritto abusare dell’ altro e questi avesse solo il dovere di farsi abusare…salvo poi reagire in modo indignato quando il trattamento che il furbo vorrebbe riservare agli altri qualcuno vorrebbe riservarlo proprio a lui!!! Allora verrebbe da  chiedere al furbo: ma se tu ti lamenti per il supposto male che ti viene fatto, non ti è mai venuto in mente che tu hai potuto fare male all’altro? Ecco il nocciolo della questione: confesso di essere stanco e nauseato di vedere gente che si crede “sperta” e che in nome di un preteso diritto fondato solo sulla propria “spirtizza” pretende che tutti gli altri siano solo persone da prendere in giro! Non c’è rispetto che tenga, non c’è sincerità alcuna, non c’è valore o ideale capace di arginare questo comportamento. Gli altri sono solo oggetti che io posso usare a mio piacimento! E non hanno neanche il diritto di ribellarsi! Specie se poi è un credente, un cristiano che crede in quello che professa, a maggior ragione poi se è un ecclesiastico o un prete: allora non ci sono dubbi che tengano. Io come prete dunque ho solo il dovere di essere buono, dove “buono” a detta di questi signori significa solo il dovere di farmi prendere in giro, di farmi sfruttare, di subire i ricatti più o  meno celati da lusinghe di chi pensa solo al proprio interesse e tornaconto. Perché se reagisco contro l’evidente ingiustizia e l’offesa della mia dignità che cristiano, che prete sono? E mi si mette davanti magari il  vangelo del “porgi l’altra guancia” e l’esempio di Cristo che tutti ha perdonato. Ma si dimentica che Cristo al soldato che l’aveva schiaffeggiato in modo ingiusto chiese conto di quel suo schiaffo: “se ho parlato male, dimostrami dov’è il male, ma se ho parlato bene perché mi hai schiaffeggiato?” Perché essere buoni è un conto, essere “babbi”è un altro conto e Cristo ci ha voluti “semplici come le colombe ma astuti come i serpenti” cioè buoni ma non fessi! E un conto è la mia scelta personale e sofferta di perdonare chi mi ha fatto del male, un conto è che l’altro deliberatamente mi faccia del male e pretenda pure che io non solo non mi ribelli ma che pure lo perdoni! Nel vangelo secondo Giovanni la masnada di gentaglia guidata da Giuda venuta per arrestare Gesù le prime due volte fallisce nel suo tentativo e può mettere le mani su di lui solo dopo che Cristo ha ribadito chiaro e tondo, come farà poi davanti a Pilato, che non sono loro che lo prendono, ma è lui che si lascia arrestare: episodio da sempre letto nella tradizione come un modo per dire che il cristiano il “martirio” non lo subisce ma lo sceglie. Allora sia chiaro che sono io che scelgo sempre se essere buono o no, se reagire al male o no, se perdonare o no: e se a volte, come dice il vangelo, non oppongo resistenza al male lo faccio non perché sedotto dal fascino del furbo ma solo perché so che il mio Vendicatore è Dio e lui prima o poi farà giustizia. Perciò oggi più che mai, in un tempo in cui si crede che il successo spetta a chi si impone di più con la forza, con le grida, con le minacce e tutti i soprusi di ogni genere, mi sentirei di ricordare a tutti quelli che si sentono “sperti” altri due detti popolari: ricordate cari amici che “ sa chi nun piacia a tia a l’avitri nun fari” perché “chiddu ca facimu avimu fattu”, perciò attenti cari amici che andate in giro vantandovi di essere capaci di prendere gli altri per i fondelli, non vorrei che alla fine la vera, grande solenne presa per il … alla fine della vita non la prendiate proprio voi!

mercoledì 3 maggio 2017

Omaggio al coraggio della chiesa copta.

Mentre assistiamo agli eventi terribili della guerra in Siria e sentiamo nostra tutta la preoccupazione del Papa a che non venga strumentalizzato il nome di Dio per evitare la scusa di presentare questa guerra come uno scontro fra Islam e Cristianesimo, come omaggio alla chiesa copta, chiesa martire e coraggiosa ancora ai nostri giorni, come omaggio alla sua fedeltà al Vangelo, pubblico il resoconto di un pellegrinaggio compiuto nel 2002 in Egitto.  
SULLE ORME DELLA SACRA FAMIGLIA NELLA FUGA IN EGITTO
Dopo aver visitato negli anni passati i luoghi della nascita di Gesù a Betlemme (chiesa della natività e il campo dei pastori) e la famosa grotta del latte, prima tappa della fuga verso l’Egitto, dove appunto la Madonna si fermò per allattare il bambino, il villaggio cristiano-palestinese di Gifna dove la famiglia si fermò a riposare all’ombra di un fico, e la città di Ramallah dove Maria si accorse di aver smarrito Gesù, con una delegazione della parrocchia di San Giuseppe ci siamo recati in pellegrinaggio in Egitto per ripercorrere le tappe toccate dalla Sacra Famiglia nella sua fuga, fino a raggiungere partendo dal delta del Nilo, attraverso un percorso nell’Egitto classico e copto, il luogo in cui vissero in esilio per tre anni e mezzo sulla strada per la tebaide e Luxor. E’ stata l’occasione non solo di conoscere l’arte e la cultura egiziane ma anche la fede e la  vita delle comunità cristiane che conservano la memoria della vitalità dei primi secoli del cristianesimo e dove rimangono ancora oggi le chiese e gli altari più antichi di tutta la cristianità. In tutte le chiese visitate la delegazione parrocchiale ha lasciato una documentazione circa la festa di San Giuseppe e della rievocazione della fuga in Egitto con la Cavalcata e ha chiesto di rimanere in contatto per una qualche forma di collaborazione e di scambio. Come sempre ci è piaciuto visitare non solo i monumenti e le pietre ma anche incontrare le persone che abitano i luoghi da noi visitati  nel rispetto delle loro tradizioni e del loro stile di vita. Se non è stato possibile farlo per tutti i posti, abbiamo cercato di inserire piccoli “segnali” che a differenza degli itinerari turistici standard ci consentono di avere uno spaccato di un mondo dove la diversità culturale e religiosa è sotto gli occhi di tutti. Oggi si parla tanto di globalizzazione: se questo significa incontrarsi tra culture diverse per un dialogo e una convivenza pacifica allora che ben venga! E tutto nasce dalla conoscenza: per questo noi mentre con i ricordi della scuola si vagava per l’Egitto dei Faraoni non ci siamo dimenticati di dare uno sguardo attento e curioso (ma insieme discreto) all’Egitto attuale, alla sua situazione sociale, politica, economica e religiosa. Avremmo voluto avere un incontro anche con una realtà islamica ma nelle circostanze attuali non è stato possibile. In particolare abbiamo avuto modo di incontrare la minoranza cristiana copta e – minoranza nella minoranza – la cristiano cattolica. I copti si vantano di custodire ininterrotta la fede sin dai primordi del cristianesimo, nonostante la conquista islamica, e il piccolo gruppo dei cattolici è testimone di un ecumenismo di fatto che va al di là delle dichiarazioni teologiche ufficiali: è difatti il dialogo della carità portato avanti con i copti e insieme a loro con i musulmani, pur in condizioni di estrema povertà, diffidenza e a volte di aperta ostilità che negli ultimi decenni ha visto decine di cristiani subire il martirio da parte di gruppi islamici integralisti. Ma dall’Egitto non può scomparire la traccia del Dio di Israele e di Mosè e del Dio di Gesù Cristo: è Terra santa al pari di tutte le altre che sono stati luoghi della rivelazione del Dio che riscatta i poveri e gli oppressi e di schiere di santi monaci e martiri che con la loro fuga dalle ricchezze e dalle vanità del mondo hanno testimoniato la verità di valori eterni e immutabili. Ripercorreremo con voi le tappe della fuga in Egitto della sacra Famiglia e così idealmente ripercorreremo non solo la storia di una delle più grandi civiltà mai esistite, ma quindi anche i luoghi legati alla storia della salvezza.
Arrivare sul Cairo di notte sorvolando il Nilo e le piramidi è stata la prima di una serie lunga di emozioni che il nostro viaggio ci ha procurato. Insieme a tanta stanchezza accumulata nei lunghi trasferimenti da un posto all’altro, ripagata solo dal sapere di stare facendo un’esperienza sui generis, alla scoperta di un Egitto sconosciuto ai canali normali del turismo di massa. Perché l’Egitto non è solo quello dei faraoni, è anche quello dei romani, dell’ellenismo diffuso da quel grandissimo centro culturale che fu Alessandria, è l’Egitto culla del cristianesimo che qui ha operato una mirabile forma di inculturazione dando origine alla Chiesa Copta, che può vantare un legame continuo e ininterrotto con l’esperienza apostolica delle origini e che divenne poi il luogo di nascita di quella particolare forma di vita cristiana che fu il monachesimo sia eremitico sia cenobitico, da Sant’Antonio Abate ai nostri giorni in una rete fitta di monasteri – vere oasi naturali e spirituali nel deserto – che a costo di sacrifici eroici e a prezzo del sangue di innumerevoli martiri offre ancora oggi l’opportunità di un’intensa esperienza ascetica a quanti lo desiderano. Un Egitto diverso dunque dai soliti cartelli pubblicitari e che non mancherà di stupirci giorno dopo giorno.
E già l’inizio è più che promettente: avere la possibilità di avere l’albergo a Giza e quindi di poter contemplare al di là della strada la stupenda triade delle piramidi più famose, ora baciate dal sole ora illuminate dalla luna, non è certo cosa di tutti i giorni! Meno bello è stato sapere che la partenza (arrivati alle due di notte) era prevista per le quattro e mezzo! È stato quasi un rivivere proprio l’inizio notturno della fuga in Egitto sulle cui orme noi volevamo andare! E non volevamo perderne neanche una: dopo un lungo tragitto per il deserto, attraversato il canale di Suez, quasi sulle sponde del Mediterraneo, arriviamo ai pochi ruderi rimasti di Zaranik (l’antica Flosiat) ed El Farma (l’antica Pelosium). E’ qui che arriva, provenendo da Betlem, la Sacra Famiglia, attraverso la via maris e passando dalla “striscia di Gaza purtroppo oggi così tristemente famosa. Non c’è ormai più quasi niente da vedere però per noi è importante lo stesso per avere un’idea della strada percorsa e della difficoltà del cammino. A Zaranik avviene il nostro primo incontro con una parrocchia copta. L’Abuna (il “padre nostro”, come viene chiamato qui il sacerdote) ci accoglie gentilmente (e sarà questa una caratteristica costante dei nostri incontri) e ci spiega come i cristiani di quel posto sono orgogliosi di vivere in un luogo che non solo ricorda il passaggio della Sacra Famiglia ma dove si fa memoria della dimora di Giacobbe quando scese in Egitto richiamato dal figlio Giuseppe insieme a tutti i suoi figli. Quel luogo - ci dice -  è stato da sempre una colonia ebraica e non fa impressione che proprio qui si diresse anzitutto Giuseppe scappando da Betlem per portare in salvo Maria e il Bambino. Attraverso poi i mille canali del delta del Nilo ci portiamo a Bubastis (attuale Tell Basta), qui – secondo la tradizione - all’arrivo di Gesù crollarono tutti gli idoli dei templi e gli abitanti impauriti scacciarono la Famiglia. Qui il Bambino prese le lacrime dal volto rattristato di Maria e fece scaturire un pozzo. Il pozzo (conservato fra le rovine dell’antica città ora all’interno di un presidio militare) e la chiesa dedicata a Maria esistono ancora. Ma qui la famiglia non si sente al sicuro e si sposta ancora e arriva ad un luogo che poi si chiamò El Maganna (luogo del bagno), perché la Vergine  fece il bagno al  Bambino Gesù. Qui la commozione è tanta nel vedere uno sparuto numero di famiglie copte con le case quasi diroccate costruite con l’entrata verso il sagrato della chiesa e “accerchiate” da moschee e sue pertinenze (ma anche questa sarà una costante di tutte le chiese copte visitate) fare la guardia per custodire una memoria così importante per la loro storia e la loro fede. E poi per me parroco è particolarmente toccante vedere la scena di un gruppettino di bambini che con un catechista diciottenne fanno la loro lezione di catechismo sui gradini della chiesa, unica loro aula catechistica!!! E che pure fanno a gara a farmi vedere come recitano le preghiere a memoria e tutti sanno fare il segno di croce: e penso ai nostri bambini del catechismo, serviti con le migliori strumentazioni audiovisive e messi nelle migliori condizioni e che pure non riusciamo a smuovere dal loro disinteresse e dalla loro apatia!!! E le famiglie cristiane qui incontrate: povertà grandissima, quasi alla soglia della miseria, ma quanto orgoglio in queste persone, quanta gioia nel portare il nome cristiano, al punto di farsi tatuare una croce blu sul polso, sapendo che però questo non solo può costargli la vita, ma che spesso questo significa la perdita del lavoro o la preclusione di una carriera scolastica o militare o l’impossibilità di migliorare la propria condizione socio-economica e penso alle nostre famiglie “cristiane” spesso solo di nome ma rose dal di dentro dal perbenismo borghese e dalla perdita di orgoglio, identità, ideali e valori! Quanta differenza!
Andando a sud la famiglia si rifugiò a Bilbais qui un albero si piegò per fare loro ombra. Qui nella  chiesa della Vergine si venera l’albero di Maria o meglio, quanto ne resta: si racconta infatti che quando qui arrivò Napoleone con i suoi soldati, spinto da odio anticlericale, avesse ordinato di sradicare quest’albero per eliminare “l’insana devozione cristiana” dal cuore della gente. Ma quando i soldati lo colpirono con la scure dalle ferite dell’albero cominciò ad uscire del sangue. I soldati francesi allora lo presero a cannonate e lo sradicarono del tutto. La gente per devozione quando i francesi se ne andarono piantò quello attuale. Siamo nel delta del Nilo e il viaggio procede lento e a fatica fra i mille canali e i ponticelli di collegamento. Le scene sembrano fissare nel tempo uno stile di vita che si ripete sempre uguale nei secoli: i contadini nei campi, le capanne di fango e paglia, le donne che lavano le stoviglie o i panni lungo i canali, i bambini che tra un lavoro e l’altro si ritagliano spazi per il gioco. E gli immancabili asinelli tuttofare che trottano aitanti ora sommersi dal loro carico ora leggeri e spensierati.  La Famiglia seguitò verso Samanud e noi la seguiamo, orami al tramonto nel luogo della sua sosta dove si conserva un antico recipiente di pietra considerato come l’utensile dove Maria impastava il suo pane: è l’attuale chiesa del martirio dove si conservano i resti di un santo martire sotto la persecuzione di Diocleziano. Un adolescente che per non rinnegare la fede morì sottoposto a terribili sevizie e il cui culto e la fama miracolosa continua tutt’oggi. Ci arriviamo addentrandoci tra un corridoio del mercato cittadino tra una ressa di venditori che si apre e ci fa spazio tra il divertito e il curioso nel vedere un gruppo di occidentali arrivare in quel villaggio lontano. L’abuna, il parroco, è così onorato della visita da aprire il reliquiario e permetterci di baciare le reliquie del martire avvolte in stoffe di porpora e oro e che profumano di incenso. Ci vorrebbe intrattenere più a lungo ma la fretta ci spinge a ripartire per arrivare in serata a Sakha (nome copto di Gesù) nella chiesa della Vergine: qui si conserva l’impronta del piede di Gesù Bambino sulla roccia. Pur essendo arrivati in ritardo scopriamo che tutto il villaggio ci ha pazientemente atteso e la facciata della chiesa è illuminata a festa. Pur nella visibile povertà siamo accolti nientemeno che con una coccola a testa! E si ripete la scena del parroco che apre il prezioso reliquiario per farci toccare con mano la preziosa reliquia. Il nostro arrivo è diventato una festa per tutta la comunità: tutti fanno a gara a mostrarci qualcosa, non riusciamo a capire tutto – sono pochi quelli che parlano inglese – ma c’è una lingua che ci accomuna: il sentire di essere tutti fratelli nella fede. Mastorod, invece fu una tappa nel viaggio di ritorno della Famiglia: qui ancora oggi una chiesa della Vergine conserva un pozzo dedicato alla “signora Maria” (come qui cristiani e musulmani chiamano la Madonnna) che possiede proprietà curative: portiamo via l’acqua in bottigliette di plastica, se non proprio per le virtù curative, certo per accettare l’omaggio di una parrocchia tra le più povere che abbiamo incontrato . Il giorno dopo è la volta della visita ai monasteri di Wadi el Natrun,, l’antica valle dove si estraeva il sale per l’imbalsamazione. Qui l’esperienza cenobitica non è mai stata interrotta a partire dal quarto secolo dell’era cristiana. Nei tre monasteri visitati siamo accolti con gentilezza da monaci colti ma dallo sguardo in cui l’umiltà dell’ascesi lasciava intravedere la lunga frequentazione della Parola e della Divina Liturgia. La vita che qui si svolge è un tentativo di vivere fino in fondo l’esperienza comunionale della chiesa primitiva degli atti degli apostoli: come poi sarà per l’occidente il tentativo benedettino dell’ora et labora. E il numero dei pellegrini e la vitalità delle attività rivela questi monasteri come i centri propulsori ancora oggi della spiritualità copta. Per non parlare del folto numero di monaci giovani, segno che l’esperienza monastica continua ancora ad esercitare la sua attrattiva. Dai libri di storia ricordiamo la teoria della fuga mundi, spesso da noi interpretata come rinuncia solamente ad un confronto con la storia: ma il monaco che ci accoglie ce ne da un’altra versione. Tanti monaci scappavano è vero dalla città e dalle invasioni e dalle persecuzioni. Ma non per paura ma per amore. Avevano capito che una loro resistenza poteva portare l’altro ad ucciderli: indirettamente però sarebbero stati loro la causa del loro peccato per la trasgressione del comandamento di non uccidere. Chi ama veramente non mette mai il fratello nella condizione di peccare! Si racconta di un solo monaco che non fuggì e fu ucciso a colpi di spada: ma lui stesso prima di morire disse che l’aveva fatto per espiare le colpe della sua gioventù prima della conversione. Era stato un assassino e quindi è giusto che chi aveva colpito di spada morisse di spada! Adesso la tomba di questa monaco martire è meta di pellegrinaggi e anche qui le reliquie ci sono mostrate con grande orgoglio. Ma la cosa che personalmente mi fa più pensare non sono tanto i tesori di arte (tantissimi) e di storia, ma una prassi bellissima tuttora in uso tra i monaci: all’ingresso di ogni chiesa c’è un catino con l’acqua dove la domenica  l’abate lava i piedi a tutti i monaci del monastero. Nel refettorio sarà poi lui stesso a leggere la regola e i passi scritturistici durante il pranzo. Un bel modo per ricordare che l’autorità nella chiesa è evangelicamente servizio! 
Navigando da Garanous, Gesù Maria e Giuseppe giunsero a Banhassa, attraversando il fiume approdarono a Gebel el Tair qui in una chiesa si conserva l’impronta della mano di Gesù Bambino. Continuando in barca la Famiglia arrivò a El ashmunim e poi a Dayrout, fino a  El Muharraq qui nel monastero si conserva l’altare in pietra più antico del mondo. Qui rimasero per tutta la loro permanenza in Egitto ricordata nei monasteri di Meir Dranka, Aba bane, Deir Abullu. Al momento di ripartire la Famiglia passa da Assyut e poi percorre a ritroso lo stesso itinerario dell’andata.
In Egitto registriamo una notizia in controtendenza che però ci fa ben sperare: il governo egiziano ha stabilito che la festa del Natale (nella data in cui la chiesa copta lo festeggia, cioè il 7 gennaio) diventi una ricorrenza civile festiva di tutto lo stato. E’ l’unica festa cristiana che viene riconosciuta (nemmeno la domenica che è tollerata di fatto) e la prima istituita ufficialmente come vacanza da uno stato islamico la cui popolazione è però per un quarto cristiana. Salutiamo con piacere questo passo in avanti quasi a riprova che dove lo si voglia la possibilità di vivere un islamismo non integralista e fondamentalista viene data. Ed è pure la riprova che alla fine la via cristiana della testimonianza (martirio) silenziosa e del dialogo ad oltranza prima o poi da i suoi frutti. D’altronde proprio in ciò il governo egiziano sta dando prova di lungimiranza e di sano realismo: perché alla gente del popolo sono estranee tutte le elucubrazioni ideologiche, fossero pure teologiche, mentre vive – qualora non sia strumentalizzata da subdoli politicanti per altri fini – un ecumenismo e un dialogo interreligioso di fatto. Ce ne siamo accorti nei nostri pellegrinaggi in Terrasanta, lo abbiamo visto anche in Egitto. La devozione alla Madonna ad esempio è un tratto che accomuna cristiani e musulmani: in tutti i santuari visitati, specie nel santuario della Cairo vecchia dove in questo secolo è apparsa più volte la “Signora Maria” – come anche il Corano appella la Vergine –. In questo santuario moderno, sorto nei pressi di Matariah dove - provenendo da Wadi el Natrum la Famiglia e diretta ad Heliopolis - un sicomoro si piegò a fare ombra ai tre fuggitivi dopo che il bambino con il bastone di S.Giuseppe aveva fatto sgorgare una sorgente di acqua (un sicomoro ormai secco eppur imponente è tuttora visibile accanto al pozzo che oggi si chiama “sorgente del sole”nel “giardino del balsamo”) era impossibile distinguere  i fedeli delle due religioni fra quelli che invocavano l’intercessione della Madonna pregando e accendendo candeline davanti alla sua immagine. Lo stesso in un antico monastero nel quartiere copto del Cairo dove famiglie intere si recavano a chiedere l’intercessione di un santo monaco eremita lì vissuto nel medioevo e famoso per le guarigioni dalle malattie mentali: cristiani e musulmani in egual maniera si sottoponevano fra le lacrime al rito di esorcismo compiuto con l’imposizione al collo della catena che il santo usava per legare gli ossessi. E sono queste le esperienze che ti fanno riflettere sul senso religioso innato in ogni uomo e del bisogno di esprimersi in una devozione naturale e popolare, al di là delle forme storico-culturali in cui poi le religioni si manifestano. E lo stesso fenomeno è avvenuto in tutti i santuari dove si veneravano reliquie di martiri o in tutti i posti dove il passaggio della Santa Famiglia ha lasciato quasi una scia di sorgenti e di luoghi taumaturgici: è come se in modo quasi naturale l’uomo avvertisse in sé il bisogno della salvezza. E questo è un sentimento comune a tutti: chi lo ha detto allora che la religione deve per forza dividere? Una esperienza religiosa vissuta in modo equilibrato e che non diventi alibi invece per la creazione di strutture di potere può essere un mezzo di pace e di riconciliazione. Proprio queste cose meditavo la domenica mattina passeggiando per la Cairo vecchia dove in un unico quartiere troviamo le moschee più antiche, ma anche le chiese delle diverse denominazioni cristiane e finanche la più vecchia sinagoga d’Egitto, sulle rive del Nilo, dove secondo la tradizione approdò cullato dalle acque il canestro con il piccolo Mosè. Ci troviamo nei pressi di Maadi: qui in una grotta si rifugiarono la S. Famiglia sia all’andata che al ritorno della fuga. Sopra i copti vi costruirono poi la chiesa di San Sergio dove si conserva l’altare in legno più vecchio del mondo: una meraviglia sia per la storia dell’arte che per la storia della liturgia. Accanto c’è la Chiesa della Vergine Maria con una scalinata che scende verso il Nilo: qui secondo la tradizione Mosè fu salvato dalle acque e da qui la Famiglia si imbarcò per risalire il Nilo. L’esperienza intensa vissuta in queste viuzze del quartiere copto tra i suoni dei sonagli dei turiboli fumiganti di incenso della divina liturgia che in tutte le chiese quasi simultaneamente si sta celebrando in cui l’arabo si mescola al greco e al copto in una melodia che a volte si fa quasi struggente ci riporta ai primordi dell’esperienza cristiana. E ci sembra quasi di vivere le pagine dei padri e di Tertulliano, Origene, Ippolito nella descrizione della liturgia quando al termine della Messa ci viene offerto il tipico pane arabo con panna/ricotta con miele di datteri: gli apologisti raccontano che nell’eucaristia oltre al pane e al vino veniva offerto pure latte e miele per indicare che si stava mangiando il pane celeste, il pane della terra promessa! E ancora una volta per me prete viene spontaneo il paragone con le nostre liturgie cristiane fredde, monotone, formali, cui si partecipa per senso del dovere – se non per altro – ma che non diventano quasi mai esperienza gioiosa della salvezza, evento di fede. E mi chiedo se la crisi religiosa che sta vivendo l’occidente, la crisi dell’identità cristiana di cui stiamo soffrendo anche in Italia (e di cui, al di la dei discorsi ufficiali, non sembrano rendersi conto neanche le alte gerarchie ecclesiastiche, ancora illuse dalle chiese piene nelle occasioni di circostanza) non sia un modo per riportarci ad una autenticità che non un regime maggioritario di cristianità ma solo una esperienza minoritaria ma libera dal peso di sentirci quasi una “chiesa di stato” o “chiesa civile” (buona cioè solo come agenzia di solidarietà e solo per questo tollerata) ci può dare veramente. Ma forse questi sono solo sogni di un prete ad occhi aperti.


IO ACCUSO…

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