sabato 1 settembre 2018

Sentire la gelosia di Dio

Il dieci di questo mese di settembre saranno trent'anni dalla mia ordinazione sacerdotale. Confesso anzitutto il mio stupore per questa meta raggiunta, al di là di ogni mio merito: scrivo questo non per una sorta di affettata umiltà, quanto per sottolineare, guardando retrospettivamente la storia della mia vita, come, in verità, letta in un’ottica di fede, la vicenda della mia vocazione non fa che manifestare più che la mia adesione, libera e convinta, al progetto divino, la scelta di un Altro nei miei riguardi di cui ho sentito sempre lo sguardo, ora amorevole, ora severo, ora geloso sulla mia persona. Anzi, se proprio debbo indicarlo con una sola cifra, direi che proprio questa “gelosia divina” è il modo con cui ho costantemente sentito la Sua presenza nella mia vita: mi ha voluto a sé, malgrado tutto, nonostante i miei limiti e i miei peccati. E ciò ha fatto sì che io non potessi pensare, immaginare, la mia vita diversamente da questa che mi ha dato la grazia di vivere. So che queste mie parole magari faranno storcere il naso a qualche mio lettore non credente o lontano comunque dalla fede o da una certa fede e che il voler ripetere oggi espressioni “Mi hai conosciuto e chiamato fin dal grembo materno…”, “Mi hai sedotto, Signore, e mi sono lasciato sedurre…” come il profeta Geremia rileggeva la sua vocazione, sembrerebbe rivelare una mentalità bigotta e credulona in un mondo ormai secolarizzato e disincantato che non riesce o non vuole più vedere le tracce di Dio nel mondo e nella storia. Libero ognuno di pensare quello che vuole, e magari di pensare che fede e vocazione siano ancora retaggi ed espressione di meccanismi sociologici e inganni, o peggio, autoinganni psicologici, in cui persone fragili siano stati o si siano essi stessi intrappolati. E non nego che a volte magari ciò può accadere. E nessuno pensi che lo sguardo di fede con cui si guarda la propria vita sia uno sguardo ingenuo o credulone: la domanda su questi meccanismi è una domanda con la quale ad un certo momento anche io ho dovuto confrontarmi e alla quale ho dovuto dare risposta. Come credere altrimenti alla sincerità di una vocazione? Perché la risposta personale non è mai data in base ad ipotesi vaghe di studio ma su esperienze in cui si dipana la propria vicenda personale. Si creda quello che si vuole, ma ai miei amici lettori chiedo almeno un occhio non velato da letture pregiudiziali della fede e della vocazione, specie in tempi in cui i sacerdoti siamo sotto l’occhio (e talvolta giustamente) impietoso dell’opinione pubblica. Ma proprio per ciò credo sia anche doveroso dare ragione della propria fede e della propria scelta di vita. Ecco perché, oggi, dopo trent'anni di ministero, mi sento ancor più di affermare che da sempre, fin da piccolo, ho sentito come la “forma” sacerdotale fosse la più confacente per la mia vita. Prima ancora di comprendere cosa fosse lo stesso ministero sacerdotale, e certo non per una infatuazione estetizzante per il culto, come magari qualcuno (magari anche oggi) potrebbe pensare: ma chi mi conosce bene sa quanto lontano sia il mio pensiero dalle derive cerimoniali e devozionistiche di una certa religiosità vuota e vitalmente sterile. Ma se c’era una cosa che già dai tempi dell’asilo mi affascinava, un gesto e una preghiera, e senza che ne capissi il pieno significato, fra tutto il resto, era il prefazio della messa e poi il gesto della elevazione del calice al termine della preghiera eucaristica. E’ la prima parte della celebrazione che imparai a memoria della messa appena tradotta in italiano e nel ripetere “In alto i cuori… è veramente cosa buona e giusta… per Cristo, con Cristo e in Cristo…” sentivo che veniva raccolto e racchiuso il senso della mia esistenza, questo bisogno insopprimibile di farsi lode e offerta. E quando per le missioni per l’incoronazione della Immacolata di Santa Maria La Nova un missionario francescano mi domandò se da grande volevo fare il prete o il frate io gli chiesi la differenza e senza esitazioni risposi: il prete. Perché per me il sacerdote è la messa che celebra. Per me la vita e la fede e la messa sono un’unica cosa. E se la celebrazione è vera, la messa ti salva la vita. Confesso che proprio la messa in questi trent'anni mi ha salvato dalle derive in cui magari per superficialità tua o per cattiveria altrui potresti essere indotto e cadere. Non sono un prete che prega con formulari, devozioni e coroncine varie, perché credo che nella messa ci sia tutto. Ma ripeto, l’eucaristia non come atto di culto, ma appunto come forma, stile di vita. Se il cristianesimo è in crisi oggi, è perché non si va più a messa e perché chi ci va non riesce o non vuole tradurla poi in gesti concreti di una esistenza “altra” rispetto al resto della massa. Non mi sento un santo, anzi, a cinquantasei anni sento sempre di più il peso del mio peccato e dei miei limiti, né penso ad una chiesa di santi: ma credo che il vivere la fede sia un sentire nella tua vita la presenza di un “Compagno” di strada e magari condividere con gli altri viandanti la gioia di questa compagnia. In questo vedo l’essenza del mio sacerdozio: nell’offerta della Parola nel dialogo fraterno, con tutti, specie con chi è in ricerca, mai invasivo e sempre rispettoso; e soprattutto nell’offerta di un Pane spezzato che diventi viatico per chi è pellegrino nella vita. Il resto? Per il resto, “tutto è grazia”, come affermava santa Teresa: amici e nemici, gioie e dolori, fatiche e speranze. Perciò io ancora una volta il dieci settembre farò festa con l’unica cosa che posso fare, la messa, e col salmo sempre e nuovamente dirò: “cosa renderò al Signore per quanto mi ha dato? Alzerò il calice della salvezza e invocherò il nome del Signore”.

IO ACCUSO…

Tra epidemia e calura estiva è passato sotto silenzio un importante responso della Congregazione della Dottrina della fede e approvato in pr...