Il fico è tra le piante più
comuni in Israele e la pianta del fico e i suoi frutti hanno dato spesso
origine a episodi, modi di dire e parabole nella lingua ebraica.
Tra l’altro è una delle poche
specie ad avere più nomi (ad esempio c’è un dove diverso per indicare in fico
selvatico, un fico immaturo, un fico precoce, il fico grosso da quello piccolo,
un albero carico di fichi, un fico sterile.
Tra l’altro, l’esegesi rabbinica
individua nel fico l’albero del bene e del male e quindi nel fico anche il
frutto proibito (in occidente diventerà poi mela per la ambiguità di malum:
mela e male), sicuramente anche per il gioco (sono le stesse consonanti della
radice) tra ficus e quello che lo
Zorell nel suo Lexicon definisce appetitus
venereus. Di fatti poi la tradizione popolare identificherà col frutto del
fico anche l’organo sessuale femminile.
E c’è poi anche il nome della ficulnea/ficetum specie se si vuole
sottolineare l’albero col suo tronco e rami, il suo legno: è t’nh ma
nel linguaggio comune col suffisso recupera la radice piena e diventa t’nty dalla radice aramaica tin(t) a sua volta dall’assiro tintu. Fra l’altro noto che la stessa
radice t’in è rimasta anche
nell’arabo.
La radice tematica per indicare
il legno di fico perciò in tutte queste lingue è tintu.
Quando lessi per la prima volta
queste note nel lexicon mi ricordai che anche noi usiamo una parola e una
espressione equivalenti.
Mio padre per indicare uno che
era un buono a nulla, che non voleva lavorare, che non serviva a niente diceva
che era “lignu i ficu” oppure, con
significato equivalente che era “tintu” spesso
accompagnato con “tintu e vili”, oppure
dall’espressione: “chiddu è tintu: a chi
serava?”, “chiddu è tintu: ‘nserava a nenti”. E nel vedere uno preso dalla
“tinturìa” che è la caratteristica
propria di chi è tintu, cioè il
lasciare che le giornate passino senza far nulla, (ma spesso era anche usato in
modo bonario) lo salutava con “ahi! Lignu
i ficu”.
E c’è tuttora da noi anche la
forma completa: “è tintu cuomu ‘nlignu i
ficu”.
Per capire questa espressione
bisogna capire qual è la caratteristica del legno del fico: il legno del fico
non è buono a niente, non si può seccare per intagliare, non brucia bene come
combustibile, in pratica uno non sa che farsene, non ha nessun pregio né valore,
anzi a stare in contatto con questo, specie se verde si può restare infastiditi
e sporcati dal “latte” che secerne.
Dire oggi ad un uomo che è tintu significa appunto dire che è
insignificante, senza nessuna qualità, specie a volte di dubbia moralità, che
da lui non ti puoi aspettare niente di buono.
Infatti spesso tintu (si pensi al tiempu tintu o a una jurnata
tinta) diventa sinonimo di abbrutito, cattivo.
Mentre il senso della
impossibilità di passare ad una posizione positiva ha dato luogo all’altra
espressione “è gghjuntu tintu; a cchjui è
tintu” per indicare un malato in fin
di vita, un ammalato senza speranza di guarigione.
Ora, siccome è sicuro che
certamente da noi tintu non significa
certamente dipinto o tinteggiato (qualcuno lo sostiene: ma ditemi voi che senso
avrebbe dire ad uno che è colorato?) e che sicuramente la tinturìa non è l’antesignana
delle odierne tintorie e lavasecco, io credo che questa espressione (con
l’immagine che veicola) del nostro dialetto ci sia arrivata proprio dal mondo
semitico (ebraico e forse anche arabo).
E in fondo non è l’unica: basti
pensare all’assiro myskinu ( in
ebraico misken, in arabo maskin) rimasto nel nostro miskinu/ miskinieddu che è il povero e
il misero senza nessuna speranza: il povero di spirito cui appartiene il Regno
dei cieli.
Ma c’è poi un’altra parola che mi
ha fatto riflettere per una imprecisa, secondo me, traduzione e quindi
attribuzione di significato tra il dialetto e l’italiano.
Il versetto di Genesi 2,7
letteralmente così dice “e plasmò YHWH Dio l’homo polvere dall’humus e
alitò nelle sue nari un fiato/ neshamah
di vita”.
Neshamah
è proprio l’alito (diverso dal soffio): il fiato che viene su dai polmoni, è il
segno della respirazione e quindi della vita (l’immagine che richiama la Genesi è proprio quella di
una respirazione bocca a bocca tra Dio e l’uomo che ha plasmato).
Proprio per questo è sinonimo di
anima.
Ora c’è una espressione – tra le
più belle – che da noi usa una madre nei confronti del suo bambino (e si noti
che è propria del momento in cui si coccola il figlio avendolo in braccio e di
fronte, quasi bocca a bocca): “shamma,
shamma miu” . Con la variante “arma
mia, arma ro ma cori” (cioè anima del
mio cuore).
Alcuni hanno inteso questa
espressione come “fiamma”. Ma, a
parte il fatto che il nostro dialetto non conosce l’equivalente dell’italiano
“fiamma” (noi abbiamo solo u luci – e
non il fuoco: ma il discorso sulla luce ci porterebbe lontano – e i faiddj : le faville) c’è una comparazione che credo ci aiuti
a capire meglio: nel dialetto della Contea di Modica l’espressione equivalente
è “ciatu miu, ciatu ro ma cori”. E
anche “vita, vita mia”.
Ed è indubbio che ciatu/ sciatu sia fiatu, fiato, o meglio, alito.
Questo mi spinge a concludere che
il nostro shamma sia da intendere più
come fiato/anima piuttosto che con fiamma.
Nel linguaggio parlato infatti la
“n” iniziale è destinata a cadere e la piccola “e”
è quasi impronunciabile mentre la “m” è molto forte per cui non fa impressione che da neshamah si sia arrivati a shamma. Il verbo nshm/ alitare – sospirare nella forma Hi’phil porta appunto la radice shmm.
Del resto anche in arabo la radice nshsh simile a nshmh indica l’animo, l’animare, il dare la
vita.
Da notare poi così come shamma è correlata ad arma, così ciatu è correlato a vita. Questo
ci riporta all’unico vocabolo all’origine nei suoi significati complementari:
alito-fiato-anima-vita, ma ci riporta anche all’uso semitico di ripetere sempre
le affermazioni due volte usando dei sinonimi (basti pensare ai salmi), in cui
la seconda volta il sinonimo però è anche una spiegazione del primo, un
allargamento di significato.
Perciò la dichiarazione d’amore
della mamma è sempre fatta così:
“tu sei il mio fiato /
Tu sei la mia vita”
O anche:
“tu sei il mio alito /
Tu sei la mia anima”.
Così dicendo la mamma dice al
figlio: “in te c’è il mio stesso alito di vita, in te c’è la mia anima: io ti
ho dato la vita, quello che c’è in me è in te e quello che c’è in te è in me”.
E così si capisce l’altra
espressione che generalmente viene aggiunta nell’abbraccio finale (ho ricordato
proprio la posizione in principio per giungere a questo fatto): la mamma si
rivede nel figlio, vede se stessa, vi si specchia, e proprio per questo può
dirgli: “specchju miu, specchju ro ma
cori”.
– salvo migliore opinione –.