martedì 19 maggio 2020

QUARANTENA E QUARESIMA


Un mio caro amico mi ha fatto rilevare il rapporto tra quarantena e quaresima. Ma è solo per l'etimologia del nome dal numero 40. A parte che la quaresima è finita e la quarantena è continuata'. Ma non è un problema di giorni ma di esperienza interiore. Si può vivere aspettando che passino. Oppure facendo diventare la quarantena una vera quaresima. Come? Come momento di revisione di vita e di conversione cioè di cambiamento. L'epidemia non è una punizione di Dio. Ma forse Dio sta permettendo questa prova per farci comprendere che alcuni stili di vita sono sbagliati e quindi da correggere. E che il vero virus di cui avere paura è l'egoismo in tutte le sue forme. E finché c'è vita c'è speranza di cambiare. Altrimenti avremo sprecato quaresima quarantena e vita

Dio ha promesso a Noè che non avrebbe più distrutto l'umanità nonostante la cattiveria umana. L'arcobaleno ce lo ricorda. Dio non ha mandato il virus per distruggere gli uomini. È la natura che fa il suo corso. Ma sostenere che dobbiamo aspettare che faccia il suo corso in attesa passiva non è da credenti. Perciò non solo dobbiamo pregare che Dio ci sostenga nella prova e illumini le menti degli scienziati per trovare presto rimedi efficaci ma dobbiamo pregare che Dio metta fine al contagio. Non pregare significherebbe negare che il Dio creatore non può più intervenire nella sua creazione. Ma questo dipende dalla conversione dei cuori. La fine è tanto in Dio quanto nelle nostre mani.


 

A PROPOSITO DI DIGIUNO EUCARISTICO


Vi confesso che ho riflettuto molto su quanto sta accadendo e sulle sue ripercussioni circa la vita "eucaristica" dei cristiani.

Mi ero ripromesso di rimanere in silenzio per evitare che anche le mie parole aumentassero il chiacchiericcio che forse non ci sta aiutando a discernere questo "segno del tempo" per leggervi il mistero della Volontà di Dio. Se lo faccio ora è perché spinto da due motivazioni. Una, perché l'Eucaristia è segno di comunione e non ci si può dividere e litigare proprio sul fatto di celebrare o non celebrare le messe. L'altra, perché ho trovato in uno scritto dell'allora teologo Joseph Ratzinger la consonanza con quanto mi sono portato dentro nel cuore dall'inizio del divieto di celebrare la messa e perciò ho trovato anche le parole giuste per esprimerlo. Anzitutto sul senso del digiuno eucaristico che da sempre i padri hanno considerato il vero digiuno (più che del cibo e della carne, al punto che in tanti Riti Orientali e nel Rito Ambrosiano il venerdì di Quaresima non si celebra la Messa): noi, a mio parere (dimenticando che Dio non ha legato la sua grazia ai soli sacramenti, come ricordava san Tommaso) abbiamo banalizzato l'Eucaristia, riducendola ad una devozione fra le tante, una pia pratica inserita tra Rosario e Via Crucis e una partecipazione abitudinaria che non coglie più la differenza essenziale tra quella feriale e quella domenicale e forse questo epidemia ci aiuterà a riscoprirla nella sua verità più profonda. E poi perché vi confido che ho sentito fin da subito la necessità di condividere la fame del pane eucaristico con tutti i miei fedeli e gli altri amici cristiani. In tempi normali celebro la messa tutti i giorni, anche da solo, ma il solo pensiero di celebrarla a porte chiuse mi ha fatto star male, come il sentirmi quasi un privilegiato rispetto ad altri che per ora ne restano esclusi. Ecco perché (pur nel rispetto di chi ha fatto una scelta diversa dalla mia) ho scelto di non celebrare nei giorni feriali (la domenica è tutt'altra cosa e la Pasqua domenicale in un modo o nell'altro va salvaguardata) e di farmi carico, nel mio desiderio, del desiderio dei fratelli. Il Signore ci sta facendo vivere il Venerdì Santo della Morte di Dio e il lungo Sabato Santo del suo silenzio e della sua avvertita assenza e credo che, più che addolcire questo "Tremendum Mysterium" con parole di sdolcinata pseudo spiritualità laicale o sacerdotale che sia, dobbiamo avere il coraggio di assumere in noi questa lunga attesa davanti al Sepolcro. Con un solo grido al Custode d'Israele: <<Shomèr ma Mi-llailah?>> Custode, quanto resta della notte?

Certo, questa, per tanti versi, è l'ora delle tenebre: ma sappiamo che più avanzano le tenebre più la luce dell'alba è vicina.

Io prego perché grazie a questa prova risorga la fede assopita, si rinfranchi la speranza di chi è disilluso, ritorni ad ardere la carità nei cuori.

Ora leggete le belle parole di Benedetto XVI e magari pregate per me, come io mi ricordo di voi tutti nelle mie preghiere.

<<In questo contesto mi si impone una riflessione che ha un più forte carattere di pastorale generale. Quando Agostino sentì avvicinarsi la morte, «scomunicò» se stesso, prese su di sé la penitenza della Chiesa. Nei suoi ultimi giorni si pose in solidarietà con i pubblici peccatori che cercano perdono e grazia mediante la sofferenza per la rinuncia alla comunione . Egli volle incontrare il suo Signore nell’umiltà di chi ha fame e sete di giustizia, di Lui, il giusto e il misericordioso. Sullo sfondo delle sue prediche e dei suoi scritti che descrivono grandiosamente il mistero della Chiesa come comunione con il corpo di Cristo e come corpo di Cristo a partire dall’eucarestia, questo gesto ha in sé qualcosa di commovente. Esso mi rende tanto più pensoso quanto più spesso vi rifletto.

Noi, oggi, non riceviamo spesso con eccessiva facilità il santissimo sacramento? Talvolta questo digiuno spirituale non sarebbe utile o addirittura necessario al fine di approfondire e rinnovare il nostro rapporto col corpo di Cristo?

In questa direzione la Chiesa antica conosceva una pratica di grande capacità espressiva: già a partire dall’epoca apostolica il digiuno eucaristico del venerdì santo era frutto della spiritualità comunionale della Chiesa. Proprio la rinuncia alla comunione in uno dei giorni più santi dell’anno liturgico, trascorso senza messa e senza comunione ai fedeli, era un modo particolarmente profondo di partecipare alla passione del Signore: il lutto della sposa alla quale è tolto lo sposo (cfr. Mc. 2, 20) .

Io penso che anche oggi un tale digiuno eucaristico, nel caso fosse determinato da riflessione e sofferenza, avrebbe un notevole significato in determinate occasioni, da ponderare con cura, come nei giorni di penitenza (perché non, ad esempio, di nuovo il venerdì santo?) …

Un tale digiuno … potrebbe favorire un approfondimento del rapporto personale col Signore nel sacramento; potrebbe essere anche un atto di solidarietà con tutti coloro che hanno desiderio del sacramento, ma non lo possono ricevere…

Naturalmente, con questo non vorrei proporre un ritorno ad una specie di giansenismo: il digiuno presuppone una condizione normale del mangiare tanto nella vita spirituale come in quella biologica. Ma talvolta abbiamo bisogno d’una medicina contro la caduta nella semplice abitudine e nella sua assenza di spiritualità. Talvolta abbiamo bisogno della fame — fisicamente e spiritualmente — per capire di nuovo i doni del Signore e per comprendere la sofferenza dei nostri fratelli che hanno fame. La fame tanto spirituale come fisica può essere uno strumento dell’amore>>.

(Joseph Ratzinger)

 

lunedì 18 maggio 2020

FESTEGGIARE IL COMPLEANNO IN QUARANTENA


Mi sono fatto da solo una torta con un rimasuglio di colomba pasquale e le candeline sopra per dire che anche in tempo di epidemia non può mancare il rispetto per noi stessi e che si deve pur continuare a cogliere ogni piccola gioia che la vita ci offre. Ma soprattutto per reagire ad una specie di mainstream che si è diffuso e temo si possa diffondere sempre di più sul modo di vivere questo periodo. Non voglio entrare in polemica con nessuno né entro nel merito dei provvedimenti più o meno appropriati. Ma vorrei andare alla radice. Che è la libertà interiore che ognuno di noi deve avere e conservare al di là di ogni situazione esterna. Io mi sono sentito sempre libero e mi sento libero a casa e fuori. Si può essere liberi in un carcere e prigionieri di se stessi anche nella massima libertà esteriore. Paradossalmente ho visto lamentarsi persone che si sentivano private delle relazioni con lo stare in casa quando per esperienza personale in tempi normali ho sperimentato la loro chiusura e incapacità di relazione e apertura umana. Chi avrebbe impedito loro in tempi normali di avviare percorsi di amicizia e di dialogo? A meno che non ci si lamenti del fatto di non poter uscire perché uscire, più che la ricerca di rapporti, è anzitutto fuga da se stessi, dall'obbligo di pensare, di farsi le grande domande.

Ti lamenti di essere coartato? Ma chi ti impedisce di riflettere? Di pensare? E se credi, di pregare? Anche qui, paradossalmente si lamenta della chiusura delle chiese gente che non proprio faceva la fila le domeniche per venire a messa. Quando anche questo potrebbe essere un modo per recuperare il vero senso dell'esperienza di fede. Nei primi quattro secoli i cristiani non ebbero chiese e in Unione sovietica il cristianesimo è rimasto a dispetto di chiese e icone bruciate. Non lamentiamoci di essere coartati a casa. E magari, se pensi che da un giorno all'altro il prossimo contagiato potresti essere tu, magari approfittane per fare le cose che non hai fatto, dire le cose che non hai detto: abbracciare e dire "ti voglio bene" ai tuoi cari, ai tuoi amici, o magari chiedere perdono... pensieri macabri? No, liberatori, perché umani. Io ieri non potendo far altro ho offerto virtualmente un pezzo di colomba pasquale secca ai miei amici (molti dei quali virtuali) per dire loro semplicemente grazie perché ci siete. Perché il virus passa. Solo l'amore resta.

 



COSA CI LASCERA' L'EPIDEMIA?


Confesso che ho difficoltà ad avviarmi a scrivere queste righe dopo la pausa che ci ha imposto la quarantena. Perché ho paura che, impelagati in questioni che sembrano importanti ma che in realtà spesso sono solo pretestuose,  stiamo perdendo anzitutto una occasione per riflettere seriamente su cosa il virus ha portato allo scoperto. Questa dunque vorrebbe essere una riflessione sulla pandemia che non vuole farsi irretire nella polemica se aprire o chiudere e in che misura aprire o chiudere. Perché vuole andare ad alcune considerazioni spero più profonde.

In primo luogo credo che la pandemia abbia fatto cadere alcune maschere, perché (e io non mi ero fatto illusioni) chi era buono si è rivelato migliore (penso alla generosità e solidarietà di tanti in ogni campo) e chi aveva un animo bacato si è rivelato ancora peggiore.

Perché il problema non è quello che accade fuori, ma come reagisce l’animo umano: come davanti ai miracoli di Gesù: chi credeva aumentava la fede, chi non credeva diventava più incredulo, magari attribuendo i miracoli al diavolo pur di non cedere davanti a Gesù.  

Il problema è l’animo e dal modo in cui si fa interrogare dagli eventi (lieti o tristi).

Infatti, se un frutto positivo dobbiamo cogliere da questa situazione, è che (mi auguro), anzitutto, ci stiamo ricordando che siamo mortali. Che si muore. Che la morte fa parte della vita.

Avrebbero dovuto ricordarlo quelli che in tempi normali volevano nascondere o edulcorare la morte, ad esempio, nascondendo la visione dei nonni morti ai nipotini (che è l'unico modo per elaborare il sentimento della morte pedagogicamente e psicologicamente efficace) o non portandoli ai funerali e, magari, ora, si lamentano perché i morti sono portati senza riti funebri al cimitero. Avrebbero dovuto ricordarlo quelli che fino a ieri hanno propugnato teorie esoteriche e riti new age e neopagani e ora si lamentano perché si vedono recapitare i loro cari in urne cinerarie.

O il virus ti ricorda che sei mortale o sarà un'altra occasione sprecata di migliorare la tua vita. Questa situazione può essere per noi quello che in passato avevano le grandi raffigurazioni dei trionfi della morte. E gli ammonimenti della Chiesa: “ricordati che devi morire, ricordati che polvere sei e in polvere ritornerai!”

Non per fare terrorismo psicologico, ma perché a partire da ciò può scattare l'altra domanda: se devo morire, ha senso attaccarmi a cose che passano,  e lottare per cose che accumulo ma che mi possono essere tolte da un giorno all'altro?

Un mio amico mi ha detto: alla fine ringrazieremo il virus se ci avrà aiutato a riscoprire i veri valori, gli affetti, la famiglia, la solidarietà, il senso del limite umano.

Ammettiamolo, è da un po' che eravamo presi dal delirio di onnipotenza, magari alimentato dalla nuova religione della scienza novella salvatrice dell'umanità. E ora che abbiamo scoperto che la scienza non ha in mano tutte le chiavi della vita?

E magari ora (ri)scopriamo che il senso della vita sta in un orizzonte più ampio che (in qualsiasi modo lo si voglia intendere) per definizione chiamiamo Dio.

Il virus lo si vince ammettendo che non siamo dei. Punto.

Ma per fare ciò bisogna essere onesti intellettualmente e avere l'umiltà di cambiare. Altrimenti avremo perso solo tempo.

Perché il problema non è né il virus né la quarantena. Il problema è la capacità di sapersi mettere in crisi e magari di cambiare il proprio stile di pensare e vivere.

Cambiare.

Non solo per il fatto di abituarci a portare la mascherina. Ma a riconsiderare le grandi scelte di fondo.

Una lezione della pandemia che dobbiamo imparare è che, in ogni caso, abbiamo scoperto che con i vecchi sistemi ideologici (e quindi di vita) non si può continuare.

Sia a livello ecclesiale (si pensi, ad esempio, al vecchio modo di fare pastorale, specie sacramentale che si è rivelato inadeguato e la catechesi ha mostrato tutte le lacune accumulate dagli anni ’70 fino ad oggi, sfornando pseudo fedeli che non hanno retto all’impatto con la secolarizzazione).

Sia a livello civile (si pensi, ad esempio, al ruolo abnorme giocato in questo caso dalle oligocrazie economiche e quindi ad un ruolo che la politica deve recuperare sulla stessa economia, sia al ripensamento del principio di sussidiarietà nello Stato tra centralizzazione e delocalizzazione).

Sia, mi si permetta di fare un esempio riportato alla attenzione in questi giorni, nel rapporto tra Chiesa e Stato, senza riprese di vecchi collateralismi ma neanche subalternità strumentali, ma proprio per recuperare lo spazio di autonomia - non privilegi - che permetta una azione pastorale efficace e completa dove liturgia (il culto e i sacramenti), evangelizzazione (l’annuncio della Parola in tutte le sue forme) e servizio (la vicinanza ai piccoli e ai poveri) devono stare necessariamente insieme. Richiamare lo Stato ad una sana laicità è la garanzia perché la Chiesa continui a dare a Cesare quello che è di Cesare ma a Dio quello che è di Dio: in fondo era questo il richiamo della CEI al Governo, letto purtroppo solo come protesta per la riapertura delle chiese, quasi come rivendicazione sindacale; ma la Chiesa non può accettare di essere ridotta ad un club di volontariato che si occupa di distribuire viveri e aiuti, né i preti possono essere ridotti ad assistenti sociali, se poi non si dà modo di poter annunciare il Vangelo e amministrare i sacramenti.

Direi che siamo chiamati ad un impegno quasi da nuova “costituente”, sia a livello nazionale che, per non allargarci troppo, a livello europeo (visto la brutta immagine che la vecchia Europa sta dando di sé).

E’ certo, infatti, che si devono ripensare non solo il sistema sanitario ma anche il sistema scolastico ed educativo e il ruolo della famiglia.

Cioè si deve partire da un ruolo pedagogico e formativo che, giocando a rimpallino tra scuola e famiglia, ad esempio, alla fine non ha assolto più nessuno. Col risultato che abbiamo davanti a noi nuove generazioni non solo ignorantissime, ma anche fragili, vuote e inconcludenti.

Tutti inneggiano al grande modello della democrazia ateniese, dimenticando che lo stesso statuto politico e l’ideale di libertà erano solo le premesse per la realizzazione di una personalità armonica (mente e anima, corpo e spirito) e completa in tutte le sue dimensioni. Quello che i greci chiamavano “paideia”.

E in ciò una collaborazione tra Stato e Chiesa (ma direi Chiese, anzi, Religioni) in Italia è fondamentale e necessario (ma direi anche in Francia e in Spagna dove un malinteso laicismo ha esinanito questa collaborazione). E ciò a partire dalla riconsiderazione del ruolo essenziale che la religione, in qualsiasi modo venga intesa, svolge nella vita dell’uomo. Ma ciò può avvenire a partire da un recupero di una corretta antropologia. Mi azzarderei a dire che abbiamo bisogno di un nuovo umanesimo, se non fossi consapevole che nel nome di nuovi umanesimi si sono sacrificati milioni di vite umane, sotto ogni latitudine e ogni bandiera. Perciò mi limito a dire che abbiamo bisogno di una visione dell’uomo che renda ragione di tutte le sue componenti. Che se l’uomo è solo un tubo digerente (come ancora pensano i nipotini di Feuerbach, e qualche strabico destrorso o sinistrorso che sia) capisco la sorpresa di quelli che si meravigliano di chi si è lamentato che i supermercati rimanevano aperti e le chiese no. C’è chi ha scritto infatti che di mancanza di cibo si muore, senza pregare non si muore. E’ la riprova, questa, di quanto materialista di fatto sia diventata la nostra società sazia e opulenta. E non mi stupisco che i morti siano stati avviati agli inceneritori come qualsiasi altro rifiuto organico. Tranne poi aprire numeri verdi e centralini di consulenza psicologica per aiutare le persone a superare la depressione che, lo ripeto, è venuta fuori non tanto per mancanza di soldi, quanto perché abbiamo scoperti che il re è nudo, o meglio ancora, ci siamo scoperti con le vergogne di fuori come Adamo ed Eva dopo il loro delirio di onnipotenza nel volersi mettere al posto di Dio e stabilire loro ciò che è bene e ciò che è male. Non è questo il peccato di origine che è venuto fuori? Abbiamo chiamato bene ciò che è male (non è così per aborto, eutanasia, eugenetica? Ripensate all’idea abnorme che col virus gli anziani si potevano anche non curare e far morire…). Abbiamo falsificato non solo e le misure e i pesi delle bilance, per dirla con Isaia, ma le nostre stesse vite giocando il gioco delle tre carte tra essere-avere-apparire.

Nonostante tutto non sono qui a paventare esiti tragici della storia, ma dato che, come mi ripete sempre un mio amico prete, sono un inguaribile ottimista, sono dell’idea che abbiamo ancora un margine (perché c’è sempre un margine) di risorse umane e spirituali per poterci riprendere la vita in mano. Lo spero. Per noi. Perché è la vera eredità da lasciare alle generazioni future.

 

 

IO ACCUSO…

Tra epidemia e calura estiva è passato sotto silenzio un importante responso della Congregazione della Dottrina della fede e approvato in pr...