Confesso che ho difficoltà ad avviarmi a scrivere queste
righe dopo la pausa che ci ha imposto la quarantena. Perché ho paura che,
impelagati in questioni che sembrano importanti ma che in realtà spesso sono
solo pretestuose, stiamo perdendo
anzitutto una occasione per riflettere seriamente su cosa il virus ha portato
allo scoperto. Questa dunque vorrebbe essere una riflessione sulla pandemia che
non vuole farsi irretire nella polemica se aprire o chiudere e in che misura
aprire o chiudere. Perché vuole andare ad alcune considerazioni spero più
profonde.
In primo luogo credo che la pandemia abbia fatto cadere
alcune maschere, perché (e io non mi ero fatto illusioni) chi era buono si è
rivelato migliore (penso alla generosità e solidarietà di tanti in ogni campo)
e chi aveva un animo bacato si è rivelato ancora peggiore.
Perché il problema non è quello che accade fuori, ma come
reagisce l’animo umano: come davanti ai miracoli di Gesù: chi credeva aumentava
la fede, chi non credeva diventava più incredulo, magari attribuendo i miracoli
al diavolo pur di non cedere davanti a Gesù.
Il problema è l’animo e dal modo in cui si fa interrogare
dagli eventi (lieti o tristi).
Infatti, se un frutto positivo dobbiamo cogliere da questa
situazione, è che (mi auguro), anzitutto, ci stiamo ricordando che siamo
mortali. Che si muore. Che la morte fa parte della vita.
Avrebbero dovuto ricordarlo quelli che in tempi normali
volevano nascondere o edulcorare la morte, ad esempio, nascondendo la visione
dei nonni morti ai nipotini (che è l'unico modo per elaborare il sentimento
della morte pedagogicamente e psicologicamente efficace) o non portandoli ai
funerali e, magari, ora, si lamentano perché i morti sono portati senza riti
funebri al cimitero. Avrebbero dovuto ricordarlo quelli che fino a ieri hanno
propugnato teorie esoteriche e riti new age e neopagani e ora si lamentano
perché si vedono recapitare i loro cari in urne cinerarie.
O il virus ti ricorda che sei mortale o sarà un'altra
occasione sprecata di migliorare la tua vita. Questa situazione può essere per
noi quello che in passato avevano le grandi raffigurazioni dei trionfi della
morte. E gli ammonimenti della Chiesa: “ricordati che devi morire, ricordati
che polvere sei e in polvere ritornerai!”
Non per fare terrorismo psicologico, ma perché a partire da
ciò può scattare l'altra domanda: se devo morire, ha senso attaccarmi a cose
che passano, e lottare per cose che
accumulo ma che mi possono essere tolte da un giorno all'altro?
Un mio amico mi ha detto: alla fine ringrazieremo il virus
se ci avrà aiutato a riscoprire i veri valori, gli affetti, la famiglia, la
solidarietà, il senso del limite umano.
Ammettiamolo, è da un po' che eravamo presi dal delirio di
onnipotenza, magari alimentato dalla nuova religione della scienza novella
salvatrice dell'umanità. E ora che abbiamo scoperto che la scienza non ha in
mano tutte le chiavi della vita?
E magari ora (ri)scopriamo che il senso della vita sta in un
orizzonte più ampio che (in qualsiasi modo lo si voglia intendere) per
definizione chiamiamo Dio.
Il virus lo si vince ammettendo che non siamo dei. Punto.
Ma per fare ciò bisogna essere onesti intellettualmente e
avere l'umiltà di cambiare. Altrimenti avremo perso solo tempo.
Perché il problema non è né il virus né la quarantena. Il
problema è la capacità di sapersi mettere in crisi e magari di cambiare il
proprio stile di pensare e vivere.
Cambiare.
Non solo per il fatto di abituarci a portare la mascherina.
Ma a riconsiderare le grandi scelte di fondo.
Una lezione della pandemia che dobbiamo imparare è che, in
ogni caso, abbiamo scoperto che con i vecchi sistemi ideologici (e quindi di
vita) non si può continuare.
Sia a livello ecclesiale (si pensi, ad esempio, al vecchio modo
di fare pastorale, specie sacramentale che si è rivelato inadeguato e la
catechesi ha mostrato tutte le lacune accumulate dagli anni ’70 fino ad oggi,
sfornando pseudo fedeli che non hanno retto all’impatto con la
secolarizzazione).
Sia a livello civile (si pensi, ad esempio, al ruolo abnorme
giocato in questo caso dalle oligocrazie economiche e quindi ad un ruolo che la
politica deve recuperare sulla stessa economia, sia al ripensamento del
principio di sussidiarietà nello Stato tra centralizzazione e
delocalizzazione).
Sia, mi si permetta di fare un esempio riportato alla
attenzione in questi giorni, nel rapporto tra Chiesa e Stato, senza riprese di
vecchi collateralismi ma neanche subalternità strumentali, ma proprio per
recuperare lo spazio di autonomia - non privilegi - che permetta una azione
pastorale efficace e completa dove liturgia (il culto e i sacramenti),
evangelizzazione (l’annuncio della Parola in tutte le sue forme) e servizio (la
vicinanza ai piccoli e ai poveri) devono stare necessariamente insieme.
Richiamare lo Stato ad una sana laicità è la garanzia perché la Chiesa continui
a dare a Cesare quello che è di Cesare ma a Dio quello che è di Dio: in fondo
era questo il richiamo della CEI al Governo, letto purtroppo solo come protesta
per la riapertura delle chiese, quasi come rivendicazione sindacale; ma la
Chiesa non può accettare di essere ridotta ad un club di volontariato che si
occupa di distribuire viveri e aiuti, né i preti possono essere ridotti ad assistenti
sociali, se poi non si dà modo di poter annunciare il Vangelo e amministrare i
sacramenti.
Direi che siamo chiamati ad un impegno quasi da nuova
“costituente”, sia a livello nazionale che, per non allargarci troppo, a
livello europeo (visto la brutta immagine che la vecchia Europa sta dando di
sé).
E’ certo, infatti, che si devono ripensare non solo il
sistema sanitario ma anche il sistema scolastico ed educativo e il ruolo della
famiglia.
Cioè si deve partire da un ruolo pedagogico e formativo che,
giocando a rimpallino tra scuola e famiglia, ad esempio, alla fine non ha
assolto più nessuno. Col risultato che abbiamo davanti a noi nuove generazioni
non solo ignorantissime, ma anche fragili, vuote e inconcludenti.
Tutti inneggiano al grande modello della democrazia
ateniese, dimenticando che lo stesso statuto politico e l’ideale di libertà
erano solo le premesse per la realizzazione di una personalità armonica (mente
e anima, corpo e spirito) e completa in tutte le sue dimensioni. Quello che i
greci chiamavano “paideia”.
E in ciò una collaborazione tra Stato e Chiesa (ma direi
Chiese, anzi, Religioni) in Italia è fondamentale e necessario (ma direi anche
in Francia e in Spagna dove un malinteso laicismo ha esinanito questa
collaborazione). E ciò a partire dalla riconsiderazione del ruolo essenziale che
la religione, in qualsiasi modo venga intesa, svolge nella vita dell’uomo. Ma
ciò può avvenire a partire da un recupero di una corretta antropologia. Mi
azzarderei a dire che abbiamo bisogno di un nuovo umanesimo, se non fossi
consapevole che nel nome di nuovi umanesimi si sono sacrificati milioni di vite
umane, sotto ogni latitudine e ogni bandiera. Perciò mi limito a dire che
abbiamo bisogno di una visione dell’uomo che renda ragione di tutte le sue
componenti. Che se l’uomo è solo un tubo digerente (come ancora pensano i
nipotini di Feuerbach, e qualche strabico destrorso o sinistrorso che sia)
capisco la sorpresa di quelli che si meravigliano di chi si è lamentato che i
supermercati rimanevano aperti e le chiese no. C’è chi ha scritto infatti che
di mancanza di cibo si muore, senza pregare non si muore. E’ la riprova,
questa, di quanto materialista di fatto sia diventata la nostra società sazia e
opulenta. E non mi stupisco che i morti siano stati avviati agli inceneritori
come qualsiasi altro rifiuto organico. Tranne poi aprire numeri verdi e
centralini di consulenza psicologica per aiutare le persone a superare la
depressione che, lo ripeto, è venuta fuori non tanto per mancanza di soldi,
quanto perché abbiamo scoperti che il re è nudo, o meglio ancora, ci siamo
scoperti con le vergogne di fuori come Adamo ed Eva dopo il loro delirio di
onnipotenza nel volersi mettere al posto di Dio e stabilire loro ciò che è bene
e ciò che è male. Non è questo il peccato di origine che è venuto fuori?
Abbiamo chiamato bene ciò che è male (non è così per aborto, eutanasia,
eugenetica? Ripensate all’idea abnorme che col virus gli anziani si potevano
anche non curare e far morire…). Abbiamo falsificato non solo e le misure e i
pesi delle bilance, per dirla con Isaia, ma le nostre stesse vite giocando il
gioco delle tre carte tra essere-avere-apparire.
Nonostante tutto non sono qui a paventare esiti tragici
della storia, ma dato che, come mi ripete sempre un mio amico prete, sono un
inguaribile ottimista, sono dell’idea che abbiamo ancora un margine (perché c’è
sempre un margine) di risorse umane e spirituali per poterci riprendere la vita
in mano. Lo spero. Per noi. Perché è la vera eredità da lasciare alle
generazioni future.