Premessa: nostalgia di politeismo
Nell’orizzonte del dibattito culturale attuale, si nota un
ritorno ciclico di alcune idee: ciò non desta meraviglia. Quello che stupisce è
invece la virulenza con cui è ritornata in auge una in particolare, dietro il
tentativo di spiegare la matrice religiosa di un certo terrorismo islamico: è
la tesi per cui la radice della violenza religiosa si annida nel monoteismo, in
particolare in quello cristiano e islamico.
Un excursus per capire lo status quaestionis
1. Il Protestantesimo e le guerre di “religione”
Col Protestantesimo nasce il “confessionalismo”.
La guerra dei trent’anni frammenta la christianitas europea
(occidentale).
Il principio “cuius regio eius et religio”: la ricerca di un
nuovo equilibrio e di un nuovo concetto di Stato.
La falsa soluzione con il concetto di “tolleranza”
2. La nascita del deismo illuminista…
L’Illuminismo propose un superamento della questione
elaborando, con il Deismo, un concetto di Dio super partes, svincolato dalle immagini veicolate dai tre
monoteismi storicamente affermatisi: Ebraismo, Cristianesimo, Islam.
Fu una reazione alle “guerre di religione” in seguito alla
nascita del protestantesimo.
Ma anche il frutto del lungo cammino di emancipazione
dell’uomo da Dio iniziato con l’Umanesimo e il Rinascimento.
3. …e la sua degenerazione
Tuttavia, tale concezione deistica della divinità, resasi
autonoma rispetto all’immagine di Dio contenuta quantomeno nell’ambito dei due
monoteismi biblici, non è riuscita ad entrare in dialogo positivo con queste
due esperienze storiche di monoteismo: spesso ha invece espresso posizioni
segnate da un antagonismo paradossale, volendo superare la presupposta radice
violenta del monoteismo ebraico-cristiano con l’imposizione, anche violenta, di
un nuovo monoteismo o di un altro principio ideologico assoluto!
4. Da Dio alla “Dea ragione”
La degenerazione dell’Illuminismo segna proprio il
fallimento di questa impresa.
La rivoluzione francese, madre di ogni rivoluzione totalitaria
è frutto del «pregiudizio – tipico del
modello razionalistico – secondo il quale, anche sul piano esistenziale e
sociale, c’è un solo modo per affermare la verità: negare la libertà o
eliminare l’antagonista».
5. Le altre formule a-teistiche
Ma il deismo non fu e non è l’unica reazione al preteso
legame tra violenza e monoteismo.
L’alternativa radicale alla creduta concezione
assolutizzante del monoteismo, così come nei confronti di ogni altra idea
religiosa, è data dalla teorizzazione
di varie forme di laicismo politico,
delle varie forme di agnosticismo,
delle varie tesi di ateismo immanentistico e
naturalistico,
dell’esistenzialismo ateo
del nihilismo di matrice nietzschiana
6. Una lettura della storia delle religioni “viziata”: il capovolgimento del giudizio sul monoteismo
Stranamente, si sta assistendo al capovolgimento del
giudizio sul monoteismo, un tempo considerato come l’approdo della ricerca
religiosa degli uomini in una forma «culturalmente più evoluta», cioè come
concezione ultima della divinità a cui è pervenuto il pensiero
filosofico-teologico dopo una riflessione durata secoli e ora invece ritenuto
come il vero ostacolo al progresso e alla piena realizzazione dell’uomo e della
società. Il rovesciamento del quadro moderno è inaspettato: ora il monoteismo è
arcaico e dispotico, il politeismo è creativo e tollerante.
7. La tesi: il monoteismo è violento, il politeismo è tollerante
È l’idea di Umberto Eco, volgarizzata qualche anno fa in
diverse sue pubblicazioni e diffusa anche dal Galimberti; ma è soprattutto il
forte convincimento di Jan Assman, illustre egittologo, che ha lanciato con
forza l’idea, ripresa fortemente dai media di tutto il mondo e oggetto di
accesi dibattiti, secondo cui per sconfiggere la violenza terroristica è necessario
superare il monoteismo che la genera.
Infatti, con un certo corto circuito logico, da tante parti
si afferma come, dato che ogni monoteismo presenta il proprio Dio come l’unico
e l’assoluto e questi sia posto a fondamento della verità, allora lo scontro
tra monoteismi sarà inevitabile, perché ogni gruppo tenderà ad imporre la
supremazia e l’unicità del suo dio e quindi la propria verità su tutti gli
altri. Magari con la violenza, oltre a tutti gli altri mezzi di persuasione e
di proselitismo.
Come uscirne? Si chiede. Si risponde: bisogna ritornare al
politeismo tollerante, multiculturale e multireligioso del passato, se non,
addirittura fermarsi ad uno stadio di laicismo agnostico.
8. Quale ragione? quale verità? Il relativismo
All’origine di questo ribaltamento c’è certamente il
cambiamento del modo di comprendere l’esercizio della ragione e il concetto di
verità.
Dalla sfiducia tutta moderna sulla possibilità che la
ragione conosca una verità assoluta, o anche da una certa indifferenza verso
questa verità e dalla riduzione dell’ambito della certezza al solo ambito
scientifico (o forse neanche più a questo) discende, anzi, l’idea che proprio
l’affermazione della verità stia alla base di un pensiero unico sfociante nel
totalitarismo e nella «pretesa di
possesso esclusivo da parte di un soggetto o gruppo umano» della stessa verità.
Da qui si pretende affermare da parte di alcuni la nascita
dei conflitti a causa dei fondamentalismi religiosi, giacché uno dei fondamenti
del pensiero monoteista starebbe nel ritenersi detentore assoluto della verità.
Conseguentemente, l’unica posizione lecita su cui attestarsi, in reazione a
questa pretesa assolutistica, sarebbe quella di un pensiero relativista circa
la verità, che di fatto concretamente sfocia nella indifferenza circa qualsiasi
principio o valore.
La prima risposta: il cristianesimo
Ma ne siamo certi? Ma è davvero così?
Si vedrà che la domanda poggia su presupposti errati
I.
perché non è assolutamente vero che il
monoteismo, o meglio, ogni monoteismo, in sé generi necessariamente
intolleranza e violenza.
II.
E poi, ammesso e non concesso che davvero
qualche realizzazione storica di qualche monoteismo abbia generato violenza,
siamo davvero sicuri che la soluzione sia nel ritorno al paganesimo politeista
o nella scelta dell’agnosticismo esistenziale?
A tal proposito, la Commissione
Teologica Internazionale (CTI) ha pubblicato nel 2014 un documento dal
titolo Dio Trinità, unità degli uomini. Il monoteismo cristiano contro la
violenza.
Tuttavia tale pubblicazione sembra che sia rimasta sotto
traccia e la sua conoscenza confinata nell’ambito degli addetti ai lavori,
quando invece ne sarebbe stata opportuna un’ampia diffusione che avrebbe
certamente giovato al dibattito attuale: ecco la necessità di una ripresa del
tema.
Il documento della CTI vuole rispondere dunque all’accusa,
sempre più frequente e ripresa a più livelli di significato, secondo cui è
proprio il monoteismo a generare violenza religiosa e intolleranza tra gruppi
religiosi. La riflessione della CTI si propone perciò di offrire una
chiarificazione circa «una teoria
diversamente argomentata, secondo la quale esiste un rapporto necessario fra il
monoteismo e le guerre di religione» , chiarificazione offerta come
proposta di dialogo e perciò elaborata e presentata «in chiave di argomentata testimonianza, non di contrapposizione
apologetica» .
1. Paganesimo tollerante?
La CTI si oppone con forza a tale concezione sviluppando una
argomentazione a più livelli. Anzitutto, viene negato che il politeismo, così
come si è attestato nella storia, sia davvero un esempio ideale di tolleranza.
La Commissione formula infatti una «riserva
critica nei confronti di una semplificazione culturale che riduce l’alternativa
alla scelta fra monoteismo necessariamente violento e un politeismo
presuntivamente tollerante».
Anzi, si afferma che «l’applicazione
metaforica del politeismo religioso alla democrazia civile, come antidoto alla
violenza, in verità, sembra talora stravagante dal punto di vista storico,
sociologico, e anche teorico» . Basti pensare al “tollerante” impero romano
e alle persecuzioni contro i cristiani!
2. Una reazione comprensibile, ma… davvero paganesimo significa pluralismo?
Se però può essere comprensibile, e in parte giustificabile,
una certa posizione agnostica o ateistica nei riguardi dell’esperienza
religiosa in sé, a volte causata da una reazione alle sue concretizzazioni
storiche, in cui la religione spesso è servita da supporto strumentale alle
varie forme di potere e alla sua gestione, appare quantomeno strana – così come
si afferma nel documento – la posizione odierna di alcuni che vedrebbero il
monoteismo come la radice di ogni violenza e da qui il rimpianto di una
concezione religiosa politeista che assicurerebbe il rispetto per la diversità
di idee e di forme di vita etica e sociale in un contesto, ormai attestatosi,
come pluralistico e variegato.
3. No al relativismo: il vero problema
Perciò la CTI afferma che l’idea della consequenzialità tra
monoteismo e violenza, considerata da alcuni intellettuali come una ovvietà
culturale, non faccia invece che acuire l’indifferenza della società nei
riguardi dell’esperienza religiosa, oscurando la vera immagine della religione
e offendendo la dignità dei credenti sinceri .
Paradossalmente, inoltre, questo «sentire relativistico totale abbandona i rapporti umani a una gestione
anonima e burocratica della convivenza civile» e sfocia nell’affermarsi «di un
disegno totalitario del pensiero unico»: così, nel tentativo di uscire dal
preteso totalitarismo del monoteismo, si assiste al tentativo, altrettanto
violento e a senso unico, di una imposizione autoreferenziale di strategie
sociopolitiche ed economiche da parte di gruppi di potere più o meno occulti.
4. Tutti i monoteismi sono uguali?
Viene rigettata, poi, la scelta di fatto di accomunare,
sotto l’unica denominazione di monoteismo, i tre grandi monoteismi storici
conosciuti: Ebraismo, Cristianesimo e Islam. Il documento sottolinea
vivacemente come sia profondamente ingiusto considerare insieme tre esperienze
religiose che, nell’unica forma monoteista, in realtà veicolano concezioni
stesse della divinità radicalmente diverse, da cui discendono antropologie e
concezioni culturali e socio-politiche diverse. Basti pensare al rapporto, variamente
inteso e interpretato, tra religione e Stato, in ognuno dei tre monoteismi in
questione .
Ø Ebraismo
Ma la CTI concentra poi tutta la sua argomentazione verso la
concretizzazione dell’accusa della radice violenta monoteista contro il solo
Cristianesimo. Di fatto, dei tre monoteismi storici, l’Ebraismo è generalmente
sottratto a questa accusa, sia perché gli intellettuali occidentali sono ancora
sotto l’influenza del complesso di colpa per la Shoà, sia perché, a causa della
scelta del giudaismo di non puntare sulla missione e sul proselitismo, non ci
si sente “attaccati” dalla sua presenza (fra l’altro numericamente esigua
rispetto agli altri due monoteismi).
Ø Islamismo
D’altra parte il rapporto con l’Islam è interpretato sotto
il riflesso del conflitto storico fra dominio cristiano e dominio islamico,
quindi in chiave geopolitica, mentre si stenta a farne una lettura filosofica e
teologica . Così non resta che il Cristianesimo «a essere preferibilmente analizzato come caso esemplare
dell’inclinazione dispotica del monoteismo religioso» .
5. Contro il cristianesimo: il vero bersaglio
La CTI inizia affermando che questa «puntigliosa identificazione del Cristianesimo come ostacolo da
abbattere, nella lotta contro il monoteismo che diffonde la violenza religiosa
nel mondo [...] non cessa di stupire»
sia perché, almeno nella cultura occidentale, il Cristianesimo è la
religione che dovrebbe essere di gran lunga la più conosciuta e quindi non ci
dovrebbero essere equivoci sulla sua reale essenza e identità, sia perché
diverse acquisizioni della società occidentale, quali il primato della dignità
della persona umana, la libertà, l’uguaglianza fra gli esseri umani, la
separazione fra la sfera laica dello Stato e della società civile e
l’ordinamento ecclesiale, sono tutte radicate nei valori irrinunciabili
propugnati dal Cristianesimo.
E perciò non si può ritenere – afferma il documento – che
questo attacco sia condotto in buona fede, perché tante affermazioni errate e
distorte sul Cristianesimo non sono certo frutto di sola ignoranza . Tra le
cause possibili di questa idea si può rilevare la concezione nichilista del mondo
impostasi in Occidente, a partire dalla modernità e che ha condotto all’odierna
società “liquida” dell’epoca postmoderna, per cui si vive in una sorta di
ripudio del Cristianesimo, di cui l’Occidente è pure, in larga parte, frutto.
6. Cosa dice veramente il credo cristiano
Il documento, così, passa all’enunciato fondamentale: «Possiamo attestare, con tutta la fermezza e
l’umiltà necessaria, che il radicale ammonimento nei confronti di un uso
dispotico e violento della religione appartiene in un modo unico al nucleo
originario della rivelazione di Gesù Cristo e ne rappresenta uno degli aspetti
più inauditi ed emozionanti nella storia dell’attesa della manifestazione
personale di Dio e dell’esperienza religiosa dell’umanità» e questo perché «l’unità indissolubile del comandamento evangelico dell’amore di Dio e
del prossimo stabilisce il grado di autenticità della religione. Di ogni
religione».
E pertanto la CTI sottolinea che «nella tradizione della Chiesa il principio di questa verità
cristologica di Dio non si è mai perso, a costo di mettere il Cristianesimo in
contraddizione fra la sua prassi storica e la sua autentica ispirazione».
Come dire che, se in qualche momento storico la Chiesa è stata tentata da una
imposizione violenta del messaggio evangelico, ciò è stato fatto in aperta
contraddizione con il vangelo, con uno scandalo circa la sua fedeltà alla
rivelazione di Dio in Cristo. Ed è proprio a partire dalla verità dello stesso
messaggio evangelico che la Chiesa ha potuto convertirsi e rinnovarsi per
ritornare alla purezza originaria del vangelo. In altre parole: se un cristiano
si rifà al messaggio evangelico per giustificare il suo agire violento, sa e
deve sapere che tale ricorso non può essere assolutamente giustificato, perché
è il vangelo stesso che rigetta e rimprovera questo uso strumentale del suo
messaggio, con il suo appello all’amore per Dio e il prossimo.
Così, per corroborare le proprie affermazioni, la
Commissione ripercorre anzitutto la storia della rivelazione biblica,
Ø con
la considerazionedell’offerta dell’alleanza a tutte le genti, del discernimento
cristiano sull’antica alleanza, dell’appello alla pratica dell’amore e alla
custodia della giustizia, in cui anche gli stessi passi difficili e “violenti”
sono ricompresi alla luce della pedagogia divina nei riguardi del suo popolo:
così si sottolinea come il senso ultimo della alleanza di Dio con Israele sia
la rivelazione della sua misericordia e della sua giustizia. (parte II)
Ø Si
giunge infine alla rivelazione di Dio nel Figlio, compiuta in vista della
riconciliazione e del superamento della inimicizia fra gli uomini. E ciò
attraverso il superamento della violenza nella morte in croce del Figlio: in
lui è tolto ogni muro di inimicizia e ogni barriera e distinzione fra gli
uomini. La croce dimostra come la lotta da sostenere non è fra popoli ma contro
il male che alberga in noi stessi e le potenze del Maligno che si oppongono
alla signoria di Dio sulla terra e nel cuore degli uomini. L’incarnazione e la
croce manifestano così l’essenza del Dio uni-trino, lui stesso comunione di
amore (radicalmente diverso dal monismo monoteista delle altre religioni)
offerta a tutti gli uomini. Nella logica dell’incarnazione e della rivelazione
della gloria di Dio nella paradossale potenza della croce, anche la Chiesa è
chiamata a proclamare la sua fede nel Dio della pace e così offrire speranza a
tutti i popoli per superare ogni conflitto etnico e odio di civiltà. E per
tutte le volte che la Chiesa ha tradito questo ministero di pace e
riconciliazione fra i popoli la Chiesa ha fatto e fa il suo mea culpa. (parte
III)
Ø Così
facendo il documento recupera la dimensione della fede nel rapporto con la
ragione, per superare le critiche dell’ateismo sulla stessa esistenza di Dio,
ridimostrando la validità del percorso che dalla ragione arriva alla fede nel
Dio creatore, un Dio “persona” e unico che interpella ogni uomo e lo chiama a
vivere in relazione con lui. (parte IV)
Ø Da
qui il valore della dignità del singolo uomo e il legame dei molti nell’unico
Dio che fonda la dimensione etica dell’agire umano e la passione per la
giustizia dei singoli e dei popoli. (parte V)
Per concludere: contro la tentazione del dominio
L’impegno della Chiesa
Il monoteismo che si realizza in questo modo nella fede
trinitaria del Cristianesimo non solo rigetta ogni tentativo di violenza, ma
concorre a purificare ogni esperienza religiosa dalla tentazione del dominio:
in questa tentazione va riconosciuta infatti non l’autentica esperienza
religiosa ma una sua radicale corruzione, specie se proveniente da forme di
violenza generate da interessi economici e politici che strumentalizzano la
sensibilità religiosa dei popoli. E dimostrare la forza della pace con Dio è e
sarà sempre di più la missione irreversibile della Chiesa.
L’impegno delle religioni
La Commissione, dunque, presenta l’esigenza irrinunciabile
per tutte le religioni, specialmente per quelle originate dai monoteismi, di
opporre una reazione alle accuse di essere generatrici di violenza e per far
ciò afferma che occorre un ripensamento critico che possa mostrare il vero
volto, ad intra come ad extra, della loro stessa esperienza religiosa.
La seconda risposta: l’ebraismo
A qualche anno di distanza dalla stesura del documento,
l’augurio della CTI sembra quasi essere ripreso da una pubblicazione del
rabbino Jonathan Sacks, dal titolo
significativo: Non nel nome di Dio . Questo saggio sembra accogliere il grido
inascoltato dei Pontefici dagli inizi di questo secolo fino a Benedetto XVI e
Francesco: non si può uccidere nel nome di Dio.
Il testo contiene davvero una voce forte e chiara che si
leva per disinnescare la miccia della violenza terroristica attribuita
indistintamente a tutti i monoteismi. Nato per reagire all’ondata di terrorismo
di matrice islamica che sta scuotendo da alcuni anni l’Occidente , il libro si
apre con una affermazione programmatica: «Quando
la religione trasforma gli uomini in assassini, Dio piange» . Per
argomentare le sue tesi, Sacks articola il saggio come un lungo itinerario con
diversi livelli di analisi e lettura: dalla storia all’esegesi, alla
spiritualità, che si intersecano tra loro e che conducono il lettore a
constatare che rimangono tante vie aperte per il dialogo e per il ripudio della
violenza.
Malafede
Politeismo tollerante?
L’autore reagisce alla tesi per cui il politeismo sia la
religione della tolleranza, affermando invece che «la religione, sotto forma del politeismo è entrata nel mondo come
giustificazione del potere» rilevando come nei riguardi di questa
concezione «il monoteismo abramitico
emerse come una potente protesta» .
Relegare la religione nel privato?
Così come si oppone alla tesi secondo cui, per eliminare la
violenza alla radice occorre eliminare la dimensione religiosa dalla sfera
pubblica e relegarla nella sfera intima e privata della persona. L’autore cita
per esemplificare un famoso testo
musicale dei Beatles, intitolato Imagine,
in cui viene evocato un mondo in cui non ci sono più le religioni: un sogno che
ha affascinato tutta la beat generation, ma che affonda le proprie radici negli
inizi della modernità, nell’Illuminismo, nello scientismo positivista, per
sfociare infine nel nichilismo di Nietzsche, nei totalitarismi e in ogni
laicismo di sorta, accomunati dal solo grido “Dio è morto”. Ironicamente Sacks
denomina questo tentativo malvagità altruistica, perché in nome di un presunto
beneficio per l’umanità si perpetrano i più atroci delitti contro la stessa
umanità: basti pensare non solo all’intollerante illuminismo che imponeva il
culto alla Ragione, ma anche alle nuove idolatrie del nazismo e delle varie
forme di comunismo realizzate in alcuni contesti geopolitici del mondo, in cui
in definitiva si rivela invece la logica violenta del potere. In alcuni periodi
storici sembra che la brama del potere si sia insinuata anche nel cuore
dell’esperienza religiosa (si vedano ad esempio le guerre di religione che
hanno insanguinato l’Europa nei secoli passati), ma il rabbino americano nega
che la soluzione stia nel sognare un futuro senza religione. Un interrogativo
più autentico consiste invece nel chiedersi «cos’è che, in primo luogo, rende le persone violente?» .
Violenza e identità
La violenza è generata dalla malvagità e dal tentativo
egoistico di affermazione e sopraffazione di un individuo sull’altro, perciò
viene ribadita la necessità di una esperienza etica che fondi le regole della
convivenza civile, alimentata da una esperienza religiosa genuina, in cui il
superamento di una concezione dualistica della religione possa evitare il
rischio ideologico della contrapposizione di diversi gruppi umani che si
pensano come detentori del bene e della verità assoluta. Qui si considera la
possibile strumentalizzazione della religione radicata in interpretazioni
fondamentaliste dei testi sacri per fini utilitaristici o per esercitare un
potere ideologico.
Dualismo e monoteismo
Nel dualismo l’identità personale è sempre letta in
contrapposizione all’altro: “io e gli altri” o “noi e loro”:
Il dualismo è un’idea pericolosa, e la visione tradizionale
della Chiesa e della Sinagoga fecero bene a respingerla. […] Il dualismo
patologico fa tre cose. Fa disumanizzare e demonizzare il nemico. Porta a
vedere te stesso come una vittima. E ti permette di commettere della malvagità
altruistica, uccidendo in nome del Dio della vita, odiando nel nome del Dio
dell’amore e praticando la crudeltà nel nome del Dio della compassione .
Il superamento del dualismo nell’autentico monoteismo è la
condizione, dunque, per uscire da queste logiche di contrapposizione. Inoltre,
è necessario comprendere la radicale diversità del monoteismo di origine
biblica: nel Dio che si rivela nella storia del popolo ebraico, il dualismo è
ricompreso nell’unità stessa di Dio che crea il bene e il male (per richiamare
Isaia), la luce e le tenebre e che compone insieme in modo originale la
giustizia e la misericordia, la vendetta e il perdono. È il superamento del
dualismo che può far uscire dalla logica della ricerca del capro espiatorio e
della rivalità fraterna, ampiamente studiato da René Girard. Si può concepire
dunque un modo diverso di intendere il rapporto interpersonale, che non cada
nella contraddizione dualistica e nella conflittualità radicale apparentemente
insita nella stessa esperienza della fraternità, come sembra suggerire lo
stesso testo biblico a proposito delle rivalità tra fratelli, da Caino e Abele,
a Isacco e Ismaele, a Giacobbe ed Esaù. Ma è nella seconda parte che l’autore
offre un contributo originale e creativo per una spiritualità di pace e non
violenza.
I fratellastri
Giacobbe ed Esaù
L’autore esamina la vicenda di Agar e Sara e dei figli
Ismaele e Isacco, interrogandosi sulla presunta condanna dei fratellastri figli
di Abramo. Sacks nota come Dio accordi protezione ad Agar e al figlio, con la
promessa di una benedizione accordata ad Ismaele e mai revocata. Così, la
scelta di osservare il patto stretto con Abramo non si traduce in un abbandono
di Ismaele al suo destino. È la dimostrazione della presenza di due vocazioni,
di due ruoli storicamente diversi ma che non sfociano necessariamente nella
contrapposizione. Sacks lo dimostra facendo ricorso in questo caso al midrash,
tecnica eminentemente rabbinica per leggere la Bibbia anche fra le sue righe,
in cui si dimostra come Abramo, pur nella scelta obbligata di tenere con sé
solo Isacco, non smise mai di amare e di interessarsi della sorte dell’altro
figlio. E lo mostra ancor meglio ricordando il testo di Genesi 25 in cui, a
proposito della morte di Abramo, si dice che lo seppellirono entrambi i figli
insieme: cioè in nome dell’unica paternità i due figli, pur con destini
diversi, sono in grado di vivere una vera esperienza di fraternità.
Nel segno di una fraternità ritrovata è possibile poi
interpretare la vicenda di Giacobbe ed Esaù. È nota la storia dell’inganno e
della fuga di Giacobbe. Anche qui Sacks mostra come le vocazioni e i destini
dei due fratelli sono già delineati e distinti, per cui non ci sarebbe stata
ragione per Giacobbe di invidiare Esaù e insidiarlo per avere la sua
benedizione, quando in realtà per ogni fratello era prevista una benedizione e
quindi una vocazione diversa. Così, la lotta misteriosa con l’angelo da cui
Giacobbe esce vincitore, anche se ferito, rappresenta anche il momento in cui
Giacobbe prende consapevolezza del suo ruolo nell’economia del popolo che da
lui si chiamerà Israele, ben diverso da quello del fratello, che perciò può
incontrare in una rinnovata esperienza di fraternità ricevendo, proprio dal
fratello ingannato, una lezione di magnanimità e di accoglienza, dimentica
della rivalità passata.
Giuseppe e i suoi fratelli
Nella vicenda di Giuseppe venduto come schiavo dai suoi
fratelli risalta ancora di più il recupero della fraternità, del rifiuto della
vendetta e della disponibilità al perdono: una storia iniziata con gelosie e
invidie, ma che si chiude nel segno della fraternità. Per arrivare a ciò
Giuseppe trova l’unico modo pedagogicamente valido: far sperimentare ai
fratelli la stessa sofferenza della prigione, del sospetto, della accusa
calunniosa.
L’autore considera possibile superare le rivalità interpersonali
facendo una esperienza profonda delle condizioni vitali del prossimo, nella
misura in cui ognuno prova “a mettersi nei panni degli altri”. È l’esperienza
della regola d’oro: non fare agli altri quello che non vuoi sia fatto a te /
fai agli altri quello che vuoi sia fatto a te. In questo cammino di
conversione, il perdono accordato da Esaù a Giacobbe come quello di Giuseppe ai
suoi fratelli dimostra come nessuno, se lo vuole, è destinato a rimanere legato
al suo passato: chi vuole può essere anche in grado di rileggere la sua vita
passata in modo da aprirsi a nuove tappe di crescita e di prospettive future.
Paternità e giustizia: Giacobbe
Sacks sottolinea poi il grande ruolo che il padre può avere
nell’educare i figli a vivere la fraternità. Così Abramo con Isacco e Giacobbe,
anche quando sembra che il padre favorisca un figlio a scapito dell’altro: il
favore di un padre per un figlio non significa mai schierarsi contro un altro
figlio. Altrimenti risulta incomprensibile l’elezione di Israele e la volontà
salvifica di Dio per tutti i popoli. Ciò è esemplificato dalla storia di Lia e
Rachele, analizzata nel capitolo nono, intitolato Il rigetto del rifiuto.
L’autore sottolinea come Giacobbe sposi Lia e ami anche (in ebraico gam)
Rachele. La vicenda ha un carattere paradigmatico e vuole indicare un modo per
uscire dalla logica dell’aut-aut per entrare in quella dell’et-et. Per
giustizia Giacobbe sposa entrambe e le ama. E la preferenza di un amore
maggiore per una delle due non significa esclusione per l’altra. Amare uno non
significa per forza odiare l’altro! Ritorna così il tema iniziale che ne
costituisce poi il centro: l’amore per l’uno non significa il rigetto per
l’altro. Anche qui Sacks è illuminante: l’amore parentale e amicale è una
esperienza umana fondante e non può essere elusa o disattesa:
Un mondo in cui amassimo gli estranei quanto gli amici, i
non parenti come i parenti, i figli di qualcun altro come i nostri, non sarebbe
umano. […] Il quesito che pone è: come dobbiamo vivere – noi che siamo umani,
che abbiamo passioni, piaceri, desideri, amori e quindi vulnerabilità? Un amore
che non facesse distinzioni, che fosse remoto, distante, che non facesse
discriminazioni, non sarebbe affatto amore per un altro essere umano nella sua
particolarità .
Ma l’amore non è un’esperienza unica e assoluta e implica un
obbligo di giustizia per cui occorre dare a ciascuno il suo, secondo l’antica
massima latina e implica il riconoscimento del ruolo e della prerogativa, anche
vocazionale, di tutti e di ognuno in particolare. Può anche darsi che un padre
ami un figlio più di un altro figlio e che il rischio della rivalità fraterna
sia naturale, ma ciò non è inevitabile: la Bibbia insegna che alla fine i
fratelli sono chiamati al superamento della rivalità. E per farlo capire, a
volte, Dio è pronto a schierarsi dalla parte del più debole o di chi sembra
essere stato rifiutato: ecco perché Sacks tratta della rivalità tra Caino e
Abele come prototipo di ogni rivalità.
Caino non comprende che l’amore di Dio (come un padre) per Abele non implica
un’ingiustizia nei suoi confronti: glielo dimostrerà quando alla fine imporrà
il divieto di uccisione per l’omicida Caino. Dio ama Abele, ma non rigetta
Caino! Così come nel patto con Noè dopo il diluvio, Dio non rigetta per ciò
tutti gli altri popoli. Questo lungo excursus lungo le pagine della Scrittura è
servito a Sacks per poter affermare che la rivalità (e quindi la violenza) fra
i popoli non è inevitabile, come lo dimostra nella terza parte del suo saggio
Il cuore aperto
Lo straniero
Così nel capitolo decimo, viene ricordata la necessità della
purificazione dello sguardo che nasce da una tensione empatica: posso amare lo
straniero solo se comprendo cosa significa essere esuli dalla propria patria e,
se ho sperimentato ciò, non potrò fare a meno di avere comprensione e
accoglienza per lo straniero che chiede ospitalità, perché anch’io sono stato
straniero e forestiero. È in sintesi l’insegnamento della Bibbia.
L’universalità della giustizia
In questo contesto si colloca la particolarità dell’amore. È
la spiegazione del particolarismo del monoteismo ebraico: il Dio considerato
come Creatore e Sovrano dell’universo e dall’altro il Dio creduto come colui
che sceglie Israele. L’antitesi apparente si rivela invece come garanzia per la
libertà dei singoli e dei popoli, al fine di espellere ogni idea di
intolleranza e quindi di violenza. Babele è ciò che accade quando si cerca di
imporre con la violenza un ordine universale. Quando una singola cultura viene
imposta a tutti, sopprimendo la diversità di lingue e tradizioni, ecco un
attacco alle nostre differenze, frutto dell’amore creatore di Dio.
Si può concludere quindi che la radice di un dialogo
autentico è il riconoscimento dell’inevitabile diversità dell’umanità.
L’identità è plurale: non c’è una umanità in astratto, c’è l’umanità dei popoli
e delle culture. L’interrogativo sul possibile superamento della violenza
rimane affidato a una moralità che riguarda tutti: «giustizia, correttezza e l’evitare di recare offesa sono quello che
dobbiamo a chiunque, ebreo o gentile, credente o ateo, amico o estraneo,
connazionale o straniero» .
Sacks qui riprende la distinzione ebraica tra il patto con
Noè e il patto con Abramo. Lo stesso Dio vuole giustizia tra tutti i popoli, al
di là se poi lui stesso instauri un rapporto privilegiato con un popolo in
particolare. Ma il privilegio non esime lo stesso Israele dal rispettare gli
obblighi di giustizia fondamentali e non viene imposto lo stesso culto a tutti
i popoli. La permanenza nell’alleanza abramitica è data, al di là dei vincoli
di sangue, dal cammino di obbedienza della fede e, in caso di disobbedienza,
dal cammino di ritorno o teshuvà, conversione.
Testi difficili della Bibbia
Sacks ricorda la necessità di un cammino di comprensione e
di purificazione da fare per evitare le secche del fondamentalismo e
dell’integralismo nella lettura della Scrittura. È l’interpretazione in chiave
spirituale che il giudaismo ha compiuto nella rilettura di alcuni testi che
oggi potrebbero generare equivoci e inganni: ad esempio, con la considerazione
di Amalek come la personificazione del male e del Nemico che tenta sempre il
popolo di Dio, provocandone la disobbedienza. Una lettura nata anche dalla
costatazione che la realizzazione storica di una ierocrazia non appartiene alla
identità di Israele e della sua missione fra le genti. È quanto si auspica che
venga compiuto anche nella lettura del Corano.
Rinunciare al potere: contro la teocrazia
Dunque si ricorda il rifiuto necessario a ogni aspirazione
teocratica e quindi di esercizio del potere politico. Sacks sottolinea come
l’Islam debba sviluppare una comprensione maggiore della rinuncia alla
teocrazia. È un cammino di purificazione delineato nella Bibbia: basti pensare
all’episodio di Elia che pensa di imporre la fede in Dio con la forza e con
l’uccisione dei profeti di Baal. Ma alla radice di questa volontà di potere c’è
l’odio per il diverso: il frutto estremo dell’egoismo narcisista.
Liberarsi dall’odio
Così si riafferma la necessaria purificazione dalla volontà
di dominio.
Ora è giunto il tempo per gli ebrei, i cristiani e i
musulmani di dire ciò che non hanno detto nel passato: Siamo tutti figli di
Abramo. E sia che siamo Isacco o Ismaele, Giacobbe o Esaù, Lea o Rachele,
Giuseppe o i suoi fratelli siamo tutti preziosi agli occhi di Dio. Siamo
benedetti. E per essere benedetti non è necessario che qualcuno sia maledetto…
Oggi Dio ci chiama, ebrei, cristiani e musulmani, a liberarci dall’odio e dalla
sua predicazione, e a vivere, finalmente, come fratelli e sorelle, fedeli alla
nostra fede e ad essere una benedizione per gli altri a prescindere dalla loro
fede, rendendo onore al nome di Dio onorando la sua immagine, l’umanità .
La domanda: e l’islam?
Al di là della diversità di genere e perciò di linguaggio, questa
analisi del rabbino concorda in tutto con i contenuti presentati nel documento
della CTI esaminato in precedenza: si vedano le consclusioni simili sull’uscire
dalla tentazione del dominio, della rinuncia alla logica del potere, al
liberarsi dall’odio.
L’augurio è che anche le altre religioni, in particolare
quelle monoteiste, riescano ad argomentare con altrettanta verità il ripudio di
ogni violenza, nella riflessione sulla loro esperienza religiosa: specie quelle
maggiormente esposte alla tentazione della «chiusura su se stesse e persino
attraversate da orribili presagi di guerra» .
E ciò tramite autocritica: l’esercizio corretto della
“ragione” e il discernimento di fede sui testi scritturistici, contro ogni
letteralismo e fondamentalismo: cfr. la richiesta di papa Benedetto XVI al
mondo islamico nel suo discorso a Ratisbona.
La constatazione: il silenzio dell’Islam sul tema della
violenza, il rifiuto della secolarizzazione, il rifiuto del riconoscimento del
pluralismo religioso (quanto meno monoteista) e quindi del dialogo.
La domanda:
quando l’Islam sentirà il bisogno di rispondere seriamente alla provocazione
della secolarizzazione?