Caro don Ignazio,
ti confido innanzi tutto la trepidazione, unita alla gioia, con la quale ho
accolto fin da subito la richiesta fattami appena due giorni dopo la mia
ordinazione sacerdotale del 30 Giugno scorso, di offrire una parola di
riflessione che aiutasse a vivere con intensità di fede questa celebrazione
anniversaria nel ricordo del tuo XXV di sacerdozio. Saluto con affetto i
confratelli sacerdoti qui presenti, con i quali da appena due mesi
condividiamo lo stesso ministero sacerdotale, i diaconi, i carissimi
seminaristi presenti e tutti voi fratelli e sorelle nel Signore Gesù,
specialmente voi carissimi fedeli della Parrocchia di San Giuseppe, che fate
corona alla gioia e alla gratitudine del vostro parroco.
Un saluto colmo di stima e di gratitudine va innanzi tutto a te carissimo
Don Ignazio per l’affetto, la cura e l’attenzione che mi hai mostrato in
questi anni della mia formazione dove la nostra amicizia si è consolidata ed
ha assunto ora i tratti di un’autentica comunione sacerdotale.
Oggi celebri una tappa importante del tuo ministero sacerdotale, per la
quale tutti non possiamo non rendere grazie al Signore della vita. La
memoria eucaristica a cui partecipiamo in questo giorno a te caro, dove
ricordi il tuo “eccomi”, la tua risposta alla chiamata del Signore, “Eccomi
Signore disponi di me”, la scelta della vita, una vita che dentro la strada del
Signore si mette a sua disposizione, è per noi innanzi tutto memoria di un
incontro, quello decisivo per te, per l’orientamento dato alla tua esistenza,
nella fedeltà al ministero ricevuto venticinque anni orsono, ministero così
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ricco di frutti spirituali, risultato della tua fine intelligenza, del tuo spiccato
interesse per la cultura, per l’arte, per la storia, l’ecumenismo e il dialogo
interreligioso. Vogliamo essere noi, famiglia, amici e quanti hanno potuto
accostarsi a te condividendo un tratto del cammino, a voler ricordare e
celebrare non solo questa tua fedeltà al Signore e alla sua Chiesa, che sai
bene è puro dono e grazia speciale, quanto semmai, magnificare e benedire
un’altra fedeltà, quella misericordiosa e preveniente da parte di chi ti ha
chiamato a suo servizio come ministro del Vangelo e che tiene al sicuro,
nelle sue mani, il dono della tua vita e del tuo sacerdozio.
Deve condensarsi in noi la consapevolezza che la vocazione, secondo una
celebre frase del teologo Von Balthasar, non significa che noi diamo tutto a
Dio, ma che Dio si prende poco a poco tutto di noi!
Alla tua proposta mi sono subito chiesto che cosa poteva offrirti in questa
occasione così solenne un novello sacerdote, sprovvisto di esperienza e di
quella “sapienza” che qualifica il “presbitero”, secondo il senso proprio
della parola stessa: ossia l’anziano, il saggio. Certamente, qualcuno con più
anni di sacerdozio, con l’esperienza di un ministero piuttosto vissuto e
navigato alle spalle - come alcuni dei confratelli più anziani qui presenti -
avrebbe potuto in tal senso offrirti di più. Ma, riflettendo, ho pensato di
comunicarti ciò che di più singolare riscontro nella mia vita di novello
sacerdote: la gioia, l’entusiasmo e l’immensa gratitudine nella risposta alla
chiamata a seguire il Signore Gesù nella via del sacerdozio. L’essere
affascinati da Lui, innamorati del suo sacerdozio!!! Le prime esperienze nel
ministero che di giorno in giorno ravvivano l’adesione al Signore!
Me lo dicevi tu qualche giorno fa che questa Parola della liturgia odierna
non poteva essere più puntuale ed eloquente. Il Vangelo che abbiamo
appena ascoltato ha in sé qualcosa del primo mattino, della speranza, della
gioia e dell’inizio di un cammino, quello stesso cammino che a distanza di
venticinque anni abbiamo deciso di intraprendere, pronti a metterci al
servizio dell’annuncio del Vangelo e a fare della nostra vita un’esistenza
donata!
Il Signore oggi come allora continua a salire sul monte e chiamare
a sé quelli che Egli vuole. Potremmo dire che il monte è il luogo dove Gesù
medita la chiamata, la partorisce e quindi rappresenta l’esperienza della
nostra infanzia, della nostra famiglia, delle nostre parrocchie d’origine, del
Seminario, l’esperienza della tua famiglia, della tua parrocchia, dello stesso
Seminario in cui ci siamo formati, carissimo Don Ignazio. Luoghi e tempi
vitali a noi cari, che continuano a significare l’inizio del giorno della
Chiesa, il giorno di Gesù Cristo, il giorno dell’amore del Dio trino ed unico
che continua a manifestarsi nella vita di tanti giovani che intraprendono
questo cammino, è il monte sul quale Gesù sale per chiamare. Sale allora il
rendimento di grazie a Dio per la presenza nella tua vita di persone che ti
hanno accompagnato, che ti hanno forgiato, che hanno immesso nel tuo
cuore il desiderio di rispondere alla chiamata del Signore, strumenti di Dio
che ti hanno aiutato a comprendere il progetto di Dio sulla tua umile
esistenza.
Il monte è il luogo della preghiera di Gesù. E’ il luogo della sua
solitudine, del suo rivolgersi al Padre. È espressione dell’altezza,
dell’interiore elevarsi sopra le cose di tutti i giorni. La vocazione dei
discepoli scaturisce dal colloquio di Gesù con il Padre. Noi la possiamo
accogliere solo se condividiamo con Gesù questa elevazione interiore. Se
vogliamo scoprire la vocazione, accoglierla e portarla a maturazione, se
vogliamo rimanere fedeli in essa, dobbiamo scoprire il monte di Gesù
ovvero il distacco dalle cose di ogni giorno, e vivere la quiete, il
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raccoglimento, il contatto con il Dio vivente. Dobbiamo giungere a quella
apertura e a quell’altezza in cui si sente la voce di Gesù. Carissimo Don
Ignazio, questo è ciò che ti ha permesso di ritrovare linfa sempre nuova da
offrire al tuo ministero, e ciò che ti permetterà di ritrovarne, fonte di
entusiasmo (essere in Dio), fonte di gioia, che ti permette di proseguire
quella donazione totale di te stesso che è il fine ultimo della chiamata!
Significa entrare in contatto con il “mistero” che è Cristo stesso nel quale e
per il quale tutto è stato creato, riconoscere la sua sovranità. Sì, riconoscere
la sovranità di Cristo, la sua signoria, e lasciarsi edificare come tempio
della sua presenza. Così ci dice l’apostolo Paolo nella lettera ai Colossesi
appena ascoltata nella seconda lettura: “In Lui camminate, radicati e
costruiti su di Lui, saldi nella fede come vi è stato insegnato …”
Prosegue il Vangelo “chiamò a sé i suoi discepoli”. Il sacerdozio
diventa possibile solo se si è imparato ad ascoltare la sua voce. Dipende da
un rapporto dialogico. Ma soprattutto dipende dalla sua iniziativa. Gesù
non chiama quelli che lo desideravano. Non chiama rifacendosi ad onori o
capacità intellettuali ben assodate. Non c’è nessun diritto al sacerdozio.
Nessuno può sceglierselo, come ci si sceglie un impegno qualsiasi. Si può
solo essere scelti per esso: è Lui che sceglie. È il Signore che vuole! Non
c’è un diritto umano, ma un diritto divino. Egli mi vuole! Egli ci vuole
carissimo Don Ignazio! C’è una volontà di Gesù nei nostri riguardi! Ed è in
questa volontà che ti auguriamo sempre di immergerti ed in essa maturare.
Questo è lo spazio della tua vita, lo spazio che dà valore e significato ad
essa. La nostra vita, il nostro ministero carissimo Don Ignazio sarà tanto
più pieno, tanto più libero, quanto più ci uniformeremo a questa volontà,
nella quale è racchiusa la più profonda verità di noi stessi. Sto facendo la
sua volontà! Questo è ciò che deve animare il nostro ministero!
“Ne scelse dodici”. Il sacerdozio è fatto da Gesù. Nessuno può
pronunciare da sé quelle parole che appartengono propriamente solo a Lui:
“questo è il mio corpo” “questo è il mio sangue” “io ti assolvo dai tuoi
peccati”. Questo è il fatto in assoluto più grande e consolante: entra nella
nostra storia qualcosa che va oltre tutte le nostre capacità. Agisci in
persona Christi! È sempre fonte di rinnovato entusiasmo e di immensa
riconoscenza al Signore! C’è da rimanere veramente stupiti! Parlare con
l’io di Gesù Cristo, rappresentare l’io di Gesù Cristo! Essere sacerdoti non
significa raggiungere una posizione per se stessi ma fare ciò che ha fatto
Cristo, che per poter raggiungere tutti noi, proprio Lui, l’autentico Primo, il
Dio vivente è divenuto l’ultimo tra gli uomini. Essere sacerdoti significa
introdursi sempre di nuovo in questo gesto di Gesù Cristo, starci per tutti,
con tutti, desiderare anche di essere ultimi affinché ovunque penetri la luce
del Dio vivente! Noi partecipiamo di questa “pienezza” di divinità direbbe
l’apostolo Paolo!
È significativo che il testo evangelico che abbiamo letto ci presenta gli
apostoli a condividere ciò che Gesù ha da offrire a “una grande folla di
suoi discepoli” e “ad una moltitudine di gente da tutta la Giudea, da
Gerusalemme e dal litorale di Tiro e di Sìdone che erano venuti per
ascoltarlo, ed essere guariti dalle loro malattie”. Gli apostoli vengono
chiamati per annunciare e per guarire, per scacciare gli spiriti cattivi.
Annuncio e potere, Parola e Sacramento sono le due colonne fondamentali
del ministero sacerdotale. L’uomo ha bisogno di questo! L’anima è
affamata del Signore! Ed è questo carissimo Don Ignazio che volevo
confidarti alla luce delle mie primissime esperienze nel ministero della
riconciliazione! L’uomo non può vivere senza Dio! L’uomo ha bisogno di
rinascere. Ha bisogno continuamente di fare esperienza come dice
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l’apostolo Paolo nella pericope che abbiamo pocanzi ascoltato, di
riacquistare la vita che Dio ha dato a noi mediante il Cristo! Fare
l’esperienza del perdono e noi diventiamo davvero tramite e canali di
grazia! Oggi carissimo don Ignazio la Chiesa tutta ti dice grazie per essere
stato strumento della misericordia di Dio nell’amministrazione del
sacramento della riconciliazione, per aver aperto una vita nuova, quella vita
con Lui, la vita vera, la vita felice che solo la riconciliazione del cuore,
dell’intimo di ciascuno può assicurare. Se riflettiamo bene in fondo, da
dove viene oggi tanta violenza che degenera nel conflitto, tanto malessere
che attanaglia il nostro mondo? Domenica il papa parlava proprio di questo
all’Angelus “una guerra profonda contro il male”, quel male che seduce,
che oscura il cuore umano ed ammutolisce le coscienze!
Donare il nome di Gesù: questo è il contenuto del ministero
sacerdotale! Nessuno può parlare di sua iniziativa nel nome di Gesù. Solo
Lui può autorizzarci a farlo! “Ti metto le mie parole sulla bocca! Così dice
il Signore a Geremia! Lui, il profeta che aveva detto: “Ahimè, io non so
parlare, perché sono troppo giovane!” Quante volte carissimo Don Ignazio
abbiamo discusso così con il Signore, e la sua risposta rimarrà: Ma non
dipende da te! Io metto le mie parole sulla tua bocca! Per questo siamo
liberi e tranquilli di parlare, annunciare il nome di Gesù. Parlare in suo
nome dona grande tranquillità interiore, quella pace e quella libertà senza le
quali non sarebbe possibile svolgere questo ministero. Ti ringraziamo
carissimo Don Ignazio per quanto hai seminato in questi anni, per il tuo
annuncio sempre libero, coerente ed illuminante nei vari ambiti che ti
hanno visto in azione: la predicazione, l’insegnamento, il giornalismo e il
dibattito pubblico in ambito culturale soprattutto riguardo agli interessi
della comunità sciclitana Quanto mai significativa si rivela qui la tua scelta di mettere nella tua
immaginetta ricordo di questo anniversario la rappresentazione di un asino
che trasporta Dio. L’asino è simbolo di umiltà, di servizio mansueto e mite.
Ricordo una frase del Santo Curato d’Ars che dice così: Se Sansone con
una mascella d’asino ha potuto sterminare un esercito di Filistei, cosa farà
mai Dio con un asino intero! Il Santo sacerdote aveva coscienza della
propria pochezza ma confidava nella potenza di Dio, che attraverso la
disponibilità delle persone aveva fatto grandi cose. Oggi ci viene più volte
ripetuto che bisogna essere testimoni! Potremmo dire che la testimonianza
è divenuta quasi una categoria chiave della Teologia Fondamentale
contemporanea. “E’ più facile insegnare che educare, perché per insegnare
bisogna sapere, mentre per educare è necessario essere!” La “lezione” della
vita, dell’esser – ci, della nostra testimonianza è molto più eloquente di
tutte le lezioni che possiamo impartire. E’ con la vita che apriamo una
breccia tra le esistenze. Solo così segniamo dentro! (Per usare un’analogia
calcistica), in – segniamo!
“Ai quali diede il nome di apostoli”: Solo chi è scelto a stare con
Lui può essere mandato. Solo chi si lascia scegliere, inviare, cioè solo chi
sta con Lui, chi lo ha praticato nelle convivenze di lunghi giorni e notti,
solo costui può portarlo agli altri. Stare con Lui, questa è la prima e
fondamentale componente della vocazione sacerdotale. Chi sono del resto
gli apostoli? Sono coloro che l’hanno visto ed ascoltato. Testimoni oculari
ed auricolari. E questo “stare con Lui” non è necessario solo per un certo
periodo all’inizio, così da attingerne in seguito, ma esso deve essere sempre
al cuore del ministero sacerdotale. Lo si deve sempre esercitare, imparare!
Stare con Lui: imparare a tenere lo sguardo su di Lui, abituarsi e non finire
mai di ascoltarlo. La “crescita dell’uomo interiore” merita il nostro
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impegno. Il mondo ha bisogno di uomini che siano interiormente maturi e
ricchi! Ti ringraziamo carissimo Don Ignazio per quanto ci hai donato in
questi anni, per l’interiorità che hai nutrito nel tuo “stare con Lui” e per
quanta ricchezza hai seminato nei nostri cuori desiderosi di ricevere quella
linfa vitale che è la grazia del Cristo!
Gesù ne chiamò dodici. Dodici è il numero delle tribù di Israele,
ma è anche il numero delle costellazioni che scandiscono il ritmo
dell’anno. Conciliare il cielo e la terra “Sia fatta la tua volontà come in
cielo, così in terra” diciamo nel Padre Nostro. Questo è ciò che è chiamato
a fare il sacerdote: essere nuova costellazione nella storia, indicare il
cammino attraverso i secoli. Indicare la via di Gesù, il suo Amore, la sua
salvezza. E il Signore si serve proprio di uomini per fare ciò. Tutti noi
abbiamo provato come in fondo non vi sia lavoro più bello che essere
accanto alle persone in quel che è più essenzialmente legato alla loro
umanità. Essere esperti in umanità! Si tratta di esserci per la vita umana
stessa, essere vicino alle persone! E non in modo specialistico! Non siamo
specialisti e funzionari! No! Noi non siamo psicologi! Ma stiamo accanto
con tutta l’ampiezza della vita umana! Poter incontrare la vita umana in
tutta la sua ricchezza e poter strare accanto alle persone nei momenti
cruciali della loro vita, poter dare loro più di quello che potremmo dare da
noi stessi! Questo è il miracolo se così possiamo dire del nostro essere
“sacramento tra gli uomini”. Del nostro essere ministri della sua grazia, del
nostro essere unti di Lui per il mondo! Dare ciò che conta, servire in ciò
che conta, poter essere accanto alle persone a partire da Dio! Questa è la
cosa che deve commuoverci!
Ripensando concretamente a questo tuo servizio nella Chiesa carissimo
Don Ignazio, mi vengono in mente le parole pronunciate da Papa Francesco
nell’omelia della Messa Crismale, il 28 marzo scorso:
Così bisogna uscire a sperimentare la nostra unzione, il suo potere e la sua
efficacia redentrice: nelle “periferie” dove c’è sofferenza, c’è sangue
versato, c’è cecità che desidera vedere, ci sono prigionieri di tanti cattivi
padroni … Il sacerdote che esce poco da sé, che unge poco - non dico
“niente” perché, grazie a Dio, la gente ci ruba l’unzione - si perde il
meglio del nostro popolo, quello che è capace di attivare la parte più
profonda del suo cuore presbiterale. Chi non esce da sé, invece di essere
mediatore, diventa a poco a poco un intermediario, un gestore. Tutti
conosciamo la differenza: l’intermediario e il gestore “hanno già la loro
paga” e siccome non mettono in gioco la propria pelle e il proprio cuore,
non ricevono un ringraziamento affettuoso, che nasce dal cuore. Da qui
deriva precisamente l’insoddisfazione di alcuni, che finiscono per essere
tristi, preti tristi, e trasformati in una sorta di collezionisti di antichità
oppure di novità, invece di essere pastori con “l’odore delle pecore” -
questo io vi chiedo: siate pastori con “l’odore delle pecore”, che si senta
quello -; invece di essere pastori in mezzo al proprio gregge e pescatori di
uomini … È bene che la realtà stessa ci porti ad andare là dove ciò che
siamo per grazia appare chiaramente come pura grazia, in questo mare del
mondo attuale dove vale solo l’unzione - e non la funzione -, e risultano
feconde le reti gettate unicamente nel nome di Colui del quale noi ci siamo
fidati: Gesù.
Gesù raccolse un primo gruppo, quello dei Dodici, chiamandoli a formare
un’unità nel mutuo amore. Ogni sacerdozio nella Chiesa ha origine da una
vocazione. Questa è rivolta a una persona particolare, ma è legata alle
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chiamate che sono rivolte agli altri, nel contesto di un medesimo disegno di
evangelizzazione e di santificazione del mondo. Come gli Apostoli, anche i
Vescovi e i Sacerdoti sono chiamati insieme, pur nella molteplicità delle
vocazioni personali, da Colui che vuole impegnarli tutti a fondo nel mistero
della Redenzione. Carissimo Don Ignazio, come confratelli ti ringraziamo
per il desiderio di comunione e cooperazione che sempre ti ha
contraddistinto e ti chiediamo – e permettimi in modo particolare – ti
chiedo da novello sacerdote - di anelare a che si realizzi sempre più una
comunione sacerdotale e non ci manchi mai da parte tua il sostegno nel
ministero.
“Ti rendiamo grazie per averci ammesso alla tua presenza a compiere il
servizio sacerdotale”, dicono i sacerdoti nella preghiera eucaristica II. Ti
rendiamo grazie per averci ammesso alla tua presenza. È il ringraziamento
di tutti noi ed è il ringraziamento per il sacerdozio che Cristo ha donato alla
sua Chiesa. Infatti cosa ci può essere di più bello che stare alla presenza del
Dio vivente, servirlo e così servire il mondo? In questo rendimento di
grazie è espresso nel modo più misterioso e umile anche il nocciolo più
profondo del sacerdozio. Rendiamo grazie perché possiamo celebrare
l’Eucaristia, rendiamo grazie perché possiamo dire con l’io proprio di
Cristo: “questo è il mio corpo – questo è il mio sangue”. Rendiamo grazie
perché attraverso il ministero sacerdotale Lui viene in mezzo a noi, si da a
noi e in modo sempre nuovo ci eleva.
Oggi in modo particolare ringraziamo Dio per i venticinque anni di
sacerdozio che ha donato a Don Ignazio, perché ha potuto essere al servizio
del Signore in tutto il mondo con cuore lieto e con generosità. Ti
ringraziamo caro Don Ignazio per tutto quello che in questi venticinque
anni hai donato a noi e preghiamo il Dio vivente che ti conceda di continuare a camminare nella strada del sacerdozio col cuore contento e
con il coraggio di servire.
Ti affidiamo a Maria. Sappiamo quanto ti sta a cuore. Sappiamo la
tua forte devozione alla Madonna, da buon sciclitano, qualcosa che
accomuna tutti noi sciclitani carissimo Don Ignazio! L’immacolata,
l’Addolorata, la Madonna delle Milizie. Scicli, città mariana, da sempre.
Chi va da Maria è sempre sulla buona strada. E dove troviamo Maria siamo
sempre a casa nostra, soprattutto in quei momenti dove abbiamo bisogno di
porre in Lei Addolorata i nostri dolori, le sofferenze che ci affliggono.
Quando siamo in sua compagnia sappiamo di essere al sicuro. Lei è Madre
nostra, e pieni di fiducia possiamo sempre rivenire con semplicità da nostra
Madre. Maria, che è passata attraverso la morte senza esserne corrotta, ci
mostra la vita nella sua totalità. La vita da risorti! Discepoli del Signore
risorto! Sappiamo anche carissimo Don Ignazio il tuo legame e la tua
devozione al Cristo Risorto di Scicli, al “Gioia” come è a noi familiare!
Non importa se siamo aldilà o aldiquà della morte. Ciò che importa dice
Paolo è che siamo con Gesù. E’ allora che viviamo. E’ allora che gustiamo
già fin d’ora, nell’attesa di gustarla in pienezza nella nostra vera patria, il
Paradiso, la gioia del Cristo Risorto! Carissimo Don Ignazio ti auguriamo
sempre questo. Vivi da risorto! Vivi di gioia! Il tuo servizio sacerdotale sia
sempre circondato dalla luce trasfigurante della resurrezione così da
immettere orientamento, luce, conforto, speranza e gioia nella vita di molte
persone. Testimonia sempre che “la gioia del Signore è la nostra forza”. Sii
sempre servitore della nostra gioia! Così sia!
Don Manlio
CATHOLICA FORMA : Non basta dirsi cristiani. Il credere deve avere una forma. La forma cattolica è il modo in cui la sostanza della fede cristiana prende corpo nel cuore dei credenti. Questo spazio vuole essere un luogo per mostrare la bellezza della fede cattolica.
lunedì 16 dicembre 2013
sabato 14 dicembre 2013
La lezione evangelica del Piccolo Principe: "Se non diventerete come bambini..."
Mt 18,3 : Se non diventerete come bambini, non
coglierete mai la potenza di Dio nella vostra vita.
La
caratteristica del “piccolo” nel senso biblico del termine è l’atteggiamento di
fiducia e di fedeltà. Fiducia nella bontà paterna di Dio che dà senso e
fondamento al mondo e che lo libera dall’angoscia della pretesa autosuffcienza
dei “grandi” che è aperta solo al fallimento. I piccoli della Bibbia non si
lasciano abbagliare dal potere, dalla brama di notorietà, dalla carriera e dal
danaro delle persone “grandi”, perché sanno che tutto ciò che è umanamente vero
e serve alla pace non risiede in tutte queste cose ma può essere accessibile
solo ai piccoli che non lo rubano ma lo ricevono in dono dal Padre: Mt 11,25
Ti benedico o Padre Signore del cielo e
della terra perché ai piccoli hai rivelato i misteri del Regno dei Cieli e le
hai tenute nascoste ai sapienti e agli intelligenti.
Per
i “grandi” sono importanti le distinzioni morali (quest’uomo è buono, quell’altro
è un peccatore...), le differenze sociali (che tipo di casa ha, che automobile,
quanti soldi ha in banca...) e formali (sapere quali sono le posate per il
pesce, lavarsi le mani prima dei pasti...): a Gesù invece, il “piccolo” di Dio
per eccellenza importa ciò che passa nel cuore di un uomo, quali pensieri e
sentimenti porta in sé : Mc 7, 1-13
I
“grandi” sono allora quelli che si sono adattati alla normalità della loro
freddezza, del loro cinismo, della loro perdita di speranza, che si sono
attaccati alle cose e al potere delle cose perché hanno perso ogni ideale,
perché non attendono più nulla, che sono morti nel mezzo della vita, che sono
letteralmente finiti e provocano la fine di quanto non è “adulto” come loro.
“Bambino,
piccolo” nell’esperienza di fede è colui che sperimenta Dio come un Padre, e
vincendo le paure degli uomini (Mt 6,27 ) ha aperto lo spazio del cuore
illimitatamente a Dio.
Così
mentre i “grandi” cercano di diventare adulti affrancandosi da Dio per legare
la propria esistenza alle realtà mondane di cui presto o tardi si diventa
schiavi, i “piccoli” della fede diventano adulti proprio perché restano
bambini, in atteggiamento filiale nei confronti del Padre. E proprio la via
dell’umanizzazione, fallita dai primi, è aperta ai secondi in tutta la sua
pienezza: affidarsi nella fedeltà e nell’obbedienza al Padre è un’esperienza
liberante, poiché è un collocarsi nella verità di Dio e della propria
esistenza ed è proprio la verità a fare liberi (cfr. Gv): servire Dio è
regnare, cioè possibilità di potersi realizzare compiutamente. Per questo un
vero fedele è sempre “un piccolo principe”, perché è diventata pienamente
padrone della propria vita e che si può incontrare come un fratello e amico per
quella bontà disinteressata che non asserve e non mortifica.
lunedì 9 dicembre 2013
Settanta anni fa Antoine de Saint Exupery pubblicava Il Piccolo Principe
“Mi sarebbe piaciuto cominciare questo
racconto come una storia di fate. Mi sarebbe piaciuto dire :
<< C’era una volta un piccolo
principe che viveva su di un pianeta poco più grande di lui e aveva bisogno di
un amico...>>
Per coloro che comprendono la vita,
sarebbe stato molto più vero. Perché non mi piace che si legga il mio libro
alla leggera.”
Settanta anni fa, esattamente il
6 aprile 1943, Antoine de Saint-Exupery pubblicava Il piccolo principe, il libro per cui la sua fama si estese e
perdura tuttora in tutto il mondo. Dopo la Bibbia e altri capolavori è il libro
che conosce più edizioni e traduzioni nelle più diverse lingue mondiali.
Perché un volumetto di poche
pagine ha avuto tanta fortuna?
Il piccolo principe non è un libro che si può prendere alla leggera: lo
esige l’autore stesso, nei panni dell’aviatore protagonista del racconto.
E
questo anzitutto perché è un libro che comunica una esperienza personale che
esige rispetto : “E’ un grande
dispiacere per me confidare questi ricordi. Sono già sei anni che il mio amico
se ne è andato con la sua pecora e io cerco di descriverlo per non
dimenticarlo. E’ triste dimenticare un amico.”
Un’esperienza
che, nel confronto col piccolo principe e con la sua avventura, ha aiutato il
narratore aviatore/autore a riscoprire il fondamento della propria vita, nel
recuperare il “bambino” che alberga nel cuore di ogni uomo e che il disincanto
di una crescita sbagliata, “l’invecchiamento” come lo chiamerà Saint Exupery,
fa correre il rischio di dimenticare : “Tutti
i grandi sono stati bambini una volta. (Ma pochi se ne ricordano).”
Un’esperienza,
nell’incontro col piccolo principe, che ha aiutato l’aviatore a rileggere e
comprendere finalmente la sua vita e il rapporto con il mondo, con gli altri.
E’
– detto in parole povere – il momento della maturità. A cui non si arriva se
non dopo un cammino spesso accidentato!
C’è
infatti un momento nella vita in cui si è invitati a prendere quelle decisioni
da cui dipenderà tutto il nostro futuro. E’ il momento della crescita, il
momento in cui siamo chiamati a formarci un’identità definita. E’ il momento in
cui siamo chiamati a diventare non solo “grandi”
di età ma anche adulti.
Ma
non è un momento senza pericoli. Diventare adulti non è facile: c’è un modo
giusto e c’è un modo sbagliato. L’aviatore/autore già da piccolo aveva intuito
che il mondo dei grandi è strano, che spesso i grandi rinnegano la loro
infanzia, che le valutazioni dei grandi non si accordano con quelle dei
piccoli. Non era però riuscito a darsene una ragione e per questo si era
rifugiato nella sua solitudine silenziosa :
“Un tempo lontano, quando avevo sei
anni, in un libro sulle foreste primordiali, intitolato <<Storie vissute
della natura>>, vidi un magnifico disegno. Rappresentava un serpente boa
nell’atto di inghiottire un animale... Meditai a lungo sulle avventure della
jungla. E a mia volta riuscii a tracciare il mio disegno. Il mio disegno numero
uno... Mostrai il mio capolavoro alle persone grandi, domandando se il disegno
li spaventava. Ma mi risposero : <<Spaventare ? Perché mai uno
dovrebbe essere spaventato da un cappello ?>> Il mio disegno non era
il disegno di un cappello. Era il disegno di un boa che digeriva un elefante.
Affinché vedessero chiaramente che cos’era, disegnai l’interno del boa. Bisogna
sempre spiegargliele le cose, ai grandi... Questa volta mi risposero di
lasciare da parte i boa, sia di fuori che di dentro, e di applicarmi invece
alla geografia, alla storia, all’aritmetica e alla grammatica. Fu così che a
sei anni io rinunziai a quella che avrebbe potuto essere la mia gloriosa
carriera di pittore. Il fallimento del mio disegno numero uno e del mio disegno
numero due mi aveva disanimato. I grandi non capiscono mai niente da soli e i
bambini si stancano di spiegargli tutto ogni volta.”
Il
problema che l’autore pone è allora questo: cosa significa essere adulti,
accettare il “realismo” della gente comune (di chi è grande ma che non sa più vedere
un boa che inghiotte un elefante) o starsene alla larga creandosi a propria
volta un mondo dove poter spaziare nella propria solitudine?
“Allora scelsi un’altra professione e
imparai a pilotare gli aeroplani. Ho volato un po’ sopra tutto il mondo: e veramente
la geografia mi è stata molto utile. A colpo d’occhio posso distinguere la Cina
dall’Arizona, e se uno si perde nella notte, questa sapienza è di grande aiuto.
Ho incontrato molte persone importanti nella mia vita, ho vissuto a lungo in
mezzo ai grandi. Li ho conosciuti intimamente, li ho osservati proprio da
vicino. Ma l’opinione che avevo di loro non è molto migliorata.
Quando ne incontravo uno che mi sembrava
di mente aperta, ripetevo l’esperimento del mio disegno numero uno, che ho
sempre conservato. Cercavo di capire così se era veramente una persona
comprensiva. Ma, chiunque fosse, uomo o donna, mi rispondeva : <<E’
un cappello>>.
E allora non parlavo di boa, di foreste
primitive, di stelle. Mi abbassavo al suo livello. Gli parlavo di bridge, di
golf, di politica, di cravatte. E lui era tutto soddisfatto di avere incontrato
un uomo tanto sensibile.”
Ma
davvero bisogna rinunciare a quello che
si sente pur di “integrarsi” nel mondo dei “grandi”? E’ questo il prezzo da
pagare per non sentirsi emarginati? Per sentirsi “integrati” con gli altri
“grandi”?
Il
tema che affronta il nostro racconto è a mio parere quanto mai attuale, in un
tempo in cui anche gli stessi “adulti” spesso vivono con perplessità la loro
crescita e rimandano ad un tempo indeterminato il loro addio alla adolescenza.
Il
nostro autore ci testimonia infatti come si può correre il rischio di arrivare
a essere “grandi” di età ma senza essere adulti, senza aver compreso niente
della vita e di se stessi: rimanendo così in una specie di infantilismo in cui
ci si rifiuta di crescere, di assumersi le proprie responsabilità, ci si ferma
all’adolescenza (sul ponte, fra le due sponde, senza avere il coraggio di
attraversarlo pienamente).
Per
alcuni crescere è solo invecchiare, e per paura di invecchiare si finisce col
rifiutarsi di crescere.
In
psicologia viene definita la sindrome di Peter Pan! E quanti oggi se ne
ammalano!
Ma
ci può essere un modo per crescere mantenendo giovane lo spirito dentro di noi?
Come
fare per mantenere anche da adulti uno sguardo da “infanzia
spirituale” che ci permetta però il coraggio di assumere nelle proprie
mani la propria crescita?
Qual è il segreto di una crescita nella giusta
direzione ?
Il segreto sarà proprio il piccolo principe a
svelarlo al nostro aviatore: in questo cammino di crescita, non si può fare
tutto da soli, c’è bisogno di aiuto, c’è
bisogno sempre di un incontro con un altro che ti aiuti in questo lavoro di autocomprensione
attraverso la comprensione dell’altro.
Nel cammino di crescita non si può essere
autodidatti.
Non si cresce da soli. A crescere si impara da chi,
prima di noi ha compiuto lo stesso cammino: in fondo anche il piccolo principe
i segreti che rivela all’aviatore li ha appresi dall’amica volpe!
Questo è importante non solo per chi vuole crescere,
ma anche per chi, come i genitori, saranno poi a loro volta i responsabili
della crescita dei loro figli: non è facile accompagnare in questo cammino i
piccoli che sono loro affidati.
Il rischio è quello di “navigare a vista”, alla giornata,
prendendo decisioni spesso contraddittorie: per fare i genitori non ci si può
abbandonare all’inventiva del momento.
Il rischio dei grandi è quello di rinchiudersi nei propri sogni, rischiando di
ingabbiare in questi sogni anche i propri figli.
L’intuizione di Saint Exupery sta proprio qua (e sta
qui la fortuna del Piccolo Principe): nell’indicare un progetto educativo per
se stessi e per chi è chiamato a fare il pedagogo, alla lettera,
l’accompagnatore dei piccoli nella loro crescita. Educare non è facile, giacché
per educare gli altri bisogna prima educare se stessi.
Non si può educare a crescere se prima a nostra
volta non ci siamo fatti educare.
Non si può essere genitori se non si vive prima la
figliolanza.
Per questo sono convinto che il Piccolo Principe possa rivelare ancora dopo settanta anni qualche
suo segreto anche oggi a genitori e
figli il segreto della maturità umana.
Perché, come disse il suo autore, questa è una
favola per adulti, non per bambini.
Ignazio La China
giovedì 28 novembre 2013
E finalmente Francesco uscì allo scoperto!
L'esortazione apostolica EVANGELII GAUDIUM ci mostra il cuore di Francesco, la sua fede, il suo modo di sognare una Chiesa che intraprende il suo exodus verso il mondo e i poveri: per fare cosa? Solo il suo dovere: evangelizzare, portare cioè la gioia di un annuncio lieto, bello agli uomini: che Dio li ama.
Essere cristiani che significherà così dunque? Essere i "cooperatori della vostra gioia" come era il motto di Benedetto XVI e della sua ansia di evangelizzare presentando il messaggio cristiano, prima che una dottrina o un'etica, un gioioso incontro con Cristo che salva. Una esortazione dunque in cui c'è tutta la testa di Benedetto e tutto il cuore di Francesco, da leggere, anzi da bere tutta in un sorso, come acqua fresca per l'anima pur sgorgante da un'antica sorgente!
E la Chiesa si rinnoverà ritornando a se stessa.
Grazie, papa Francesco!
Essere cristiani che significherà così dunque? Essere i "cooperatori della vostra gioia" come era il motto di Benedetto XVI e della sua ansia di evangelizzare presentando il messaggio cristiano, prima che una dottrina o un'etica, un gioioso incontro con Cristo che salva. Una esortazione dunque in cui c'è tutta la testa di Benedetto e tutto il cuore di Francesco, da leggere, anzi da bere tutta in un sorso, come acqua fresca per l'anima pur sgorgante da un'antica sorgente!
E la Chiesa si rinnoverà ritornando a se stessa.
Grazie, papa Francesco!
domenica 24 novembre 2013
Ecco cosa è la forma cattolica del credere!!!
Niente di più eloquente di questa immagine:
il Papa che tiene in mano le reliquie di san Pietro mentre si canta il credo.
Pietro e la fede.
Pietro e la sua fede.
Pietro la roccia della fede.
Pietro a fondamento della fede della Chiesa.
Pietro "Pastor et nauta".
Pietro clavigero del regno.
Per Petrum, cum Petro, in Petro, sub Petro.
Questa è la nostra fede.
Questa è la fede della Chiesa.
E noi ci gloriamo di professarla, in Cristo Gesù nostro Signore.
il Papa che tiene in mano le reliquie di san Pietro mentre si canta il credo.
Pietro e la fede.
Pietro e la sua fede.
Pietro la roccia della fede.
Pietro a fondamento della fede della Chiesa.
Pietro "Pastor et nauta".
Pietro clavigero del regno.
Per Petrum, cum Petro, in Petro, sub Petro.
Questa è la nostra fede.
Questa è la fede della Chiesa.
E noi ci gloriamo di professarla, in Cristo Gesù nostro Signore.
mercoledì 13 novembre 2013
Saluto del vicario foraneo di Scicli per l'apertura della visita pastorale del vescovo
Eccellenza Reverendissima,
è con gioia e con affetto che oggi la accogliamo fra di noi per l’inizio
ufficiale della visita pastorale nella nostra città. Lei già conosce la nostra
città per la sua ripetuta presenza nelle nostre chiese in occasione delle cresime
e di tante altre celebrazioni che lei ha voluto presiedere nelle varie
parrocchie del nostro vicariato e in altri eventi in cui ha potuto incontrare
non solo la comunità cristiana ma anche la comunità civile di Scicli.
Ma oggi si può dire che il nostro incontro assume i crismi della
ufficialità nel senso più bello del termine: ufficialità da officium – dovere /
responsabilità: lei è infatti qui a svolgere il suo ufficio di Pastore proprio
della chiesa locale che è stata affidata alle sue cure, la visita al gregge che
lei è chiamato a pascere con la parola, i sacramenti, il suo stesso buon
esempio.
Ed è un officium anche per tutti i fedeli di Scicli che si riconoscono
guidati dal suo ministero pastorale e nel quale e dal quale, ognuno per il modo
suo peculiare, tutti sono coinvolti e stimolati. Poiché per noi accoglierla non
è un mero atto di cortesia ma un vero evento di Chiesa e quindi direi quasi
un’esperienza teologale.
La accogliamo anzitutto noi parroci che condividiamo con lei il munus
pastorale del gregge di Dio in quelle porzioni della chiesa locale che sono le
parrocchie, e che, insieme con gli altri presbiteri e diaconi ci sforziamo di
servire per la formazione e la crescita di comunità cristiane autentiche che
credano in ciò che celebrano, che annuncino ciò che credono e vivano ciò che
annunciano.
La accolgono le comunità religiose, i membri delle Associazioni, dei
Movimenti e dei Gruppi ecclesiali che sono impegnati tutti nell’essere anticipo
e realizzazione fattiva dell’avvento del Regno, specie nell’esercizio della
carità e nel servizio ai poveri e ai bisognosi.
La accolgono i fedeli tutti delle parrocchie che vivendo nella
quotidianità del lavoro e della vita familiare si sforzano di vivere la loro
fedeltà al vangelo nella trama delle opere e dei giorni che richiedono di
essere fecondati dalla forza rinnovatrice dello Spirito.
Ma oggi la accoglie anche la comunità civile di Scicli, non connotata da
coloriture religiose o ideologiche, ma forte di quella sana laicità che vede
nella collaborazione tra le istituzioni civili e quelle religiose il terreno
propizio per la costruzione del bene comune a servizio della persona nella
integralità della sua persona.
E ciò che dico non vuol essere solo un riconoscimento formale ma è frutto
di una vera e leale collaborazione sperimentata negli anni passati e che
proprio nell’ultima tragedia dello sbarco degli immigrati eritrei a Sampieri e
della morte per tredici di loro, che ha scosso profondamente la nostra città,
ha visto fianco a fianco le nostre autorità in testa e poi tutti i
rappresentanti delle istituzioni, dei presidii militari e sanitari, insieme a
noi sacerdoti e fedeli e a tutti gli uomini di buona volontà nella prima
accoglienza sulla spiaggia dei sopravvissuti, nella composizione dei cadaveri,
nel supporto dato ai parenti venuti per il riconoscimento delle vittime e per
il funerale, che non è stato il funerale – e la riprova è stata la celebrazione
ieri del trigesimo – di forestieri sconosciuti ma il saluto commosso a tredici
giovani che la città – se così si può dire – ha adottato e sentito come figli:
lo abbiamo espresso in quel drappo cremisi, il colore della nostra città, che
ha stretto in un abbraccio commosso quelle tredici bare. Una commozione sentita
ancora da tanti che recandosi al cimitero dai loro cari non hanno mancato in
questi giorni di porre un fiore anche sulle loro tombe.
Perché Scicli è stata e vuole continuare ad essere la città della
accoglienza e della solidarietà verso tutti. Ha ben ragione lei nel dire che
prima ancora di aprire spazi per l’accoglienza, bisogna aprire i cuori: perché
l’accoglienza prima che essere un problema logistico è un problema di affetto e
di cuore. Ebbene eccellenza, le posso assicurare che tanti cuori di cristiani e
non cristiani a Scicli sono già aperti e che da questi cuori scorrono fiumi
sotterranei di quella carità che magari non fa notizia e che pure si fa
vicinanza concreta e solidale col fratello che
soffre. E tanti altri sono i cuori in attesa di un evento che li faccia
aprire, che li faccia sbocciare come fiori al sole della fraternità.
Ecco, eccellenza, mi piace immaginare la sua visita – come fra l’altro
lei l’ha voluta scegliendo di dare la priorità delle visite agli ammalati e
dell’ascolto dei poveri e delle loro vicissitudini ed attese – come a
quell’evento di grazia che tocchi ogni sciclitano nel profondo e lo interpelli
e lo spinga a interrogarsi sul senso reale della propria esistenza, e lo spinga
soprattutto a decidersi per una vita vissuta nella fraternità: una vita
autenticamente umana e dunque veramente cristiana.
Questo auguro a lei come frutto del
suo ministero, questo auguro ad ognuno di noi sciclitani.
Dunque Eccellenza, benvenuto fra noi, cammini con noi, si senta uno di
noi.
venerdì 1 novembre 2013
Actus credendi non terminat ad enuntiabile sed ad rem ipsam.
C'è un principio in teologia che
è anche principio per la spiritualità e per la catechesi:
Come dire: l'atto del credere
non finisce nella enunciazione di cosa o in chi si crede, ma nella esperienza
stessa dell'oggetto del credere.
Cioè che il credere non è
semplicemente un fatto di "enunciazione" di dogmi di fede (un tempo
si parlava di fides quae creditur, cioè di contenuti di fede che sono
creduti appunto dal "credente") anche se questo aspetto, che comporta
l'impegno a rendere intelligibile la stessa fede, a mostrane le ragioni e
perciò la sua razionalità, è certamente importante e necessario, giacchè - e ce
lo ricorda continuamente papa Benedetto - la fides non può mai essere
separata o prescindere dalla ratio.
Ma l'atto del credere non può mai essere ricondotto ad un puro atto - illuministicamente - di comprensione intellettuale: il comprendere razionalmente, ad esempio, come il dogma fondi ed esprima la coesistenza in Gesù Cristo della divinità con l'umanità, è certamente fondamentale ed importante, ma questo non significa ipso facto che questo sia automaticamente un atto di fede, un actus credendi. Anzitutto perchè a questa comprensione può addivenire anche un ateo, senza implicare alcunchè di fede. Ma poi, soprattutto, perchè l'esperienza della salvezza (cioè il perdono dei peccati e il dono della vita eterna) non è il frutto della comprensione intellettuale del fedele: se così fosse saremmo in presenza non più della fede cristiana ma di una pura e semplice esperienza di gnosi (che in greco significa conoscenza), cioè appunto di conoscenza intellettuale, in cui si crede che per il semplice fatto che io ho compreso una verità di vita (ho cioè avuto - come si dice in gergo - una "illuminazione" intellettuale) io sia automaticamente già salvo!
Ma l'atto del credere non può mai essere ricondotto ad un puro atto - illuministicamente - di comprensione intellettuale: il comprendere razionalmente, ad esempio, come il dogma fondi ed esprima la coesistenza in Gesù Cristo della divinità con l'umanità, è certamente fondamentale ed importante, ma questo non significa ipso facto che questo sia automaticamente un atto di fede, un actus credendi. Anzitutto perchè a questa comprensione può addivenire anche un ateo, senza implicare alcunchè di fede. Ma poi, soprattutto, perchè l'esperienza della salvezza (cioè il perdono dei peccati e il dono della vita eterna) non è il frutto della comprensione intellettuale del fedele: se così fosse saremmo in presenza non più della fede cristiana ma di una pura e semplice esperienza di gnosi (che in greco significa conoscenza), cioè appunto di conoscenza intellettuale, in cui si crede che per il semplice fatto che io ho compreso una verità di vita (ho cioè avuto - come si dice in gergo - una "illuminazione" intellettuale) io sia automaticamente già salvo!
La gnosi è stato il pericolo più
sottile e insidioso del cristianesimo, nei suoi duemila anni di storia, e anche
oggi si ricicla nella teoria dei "valori" o dei "pricipii"
del cristianesimo.
Ma ridurre la fede ad alcune enunciazioni di alti ideali (più o meno condivisibili anche da chi vive in altre fedi o non è animato da nessuna fede), quali quelle oggi di moda: la pace, la giustizia, i diritti, la natura, e via di seguito, significa snaturare l'essenza stessa del cristianesimo.
Il cristiano non è colui chiamato a vivere di belle idee! E' colui che è chiamato a vivere l'incontro con una persona, Gesù Cristo, capace di cambiarti la vita.
Ma ridurre la fede ad alcune enunciazioni di alti ideali (più o meno condivisibili anche da chi vive in altre fedi o non è animato da nessuna fede), quali quelle oggi di moda: la pace, la giustizia, i diritti, la natura, e via di seguito, significa snaturare l'essenza stessa del cristianesimo.
Il cristiano non è colui chiamato a vivere di belle idee! E' colui che è chiamato a vivere l'incontro con una persona, Gesù Cristo, capace di cambiarti la vita.
Per questo noi parliamo di
"esperienza di fede": cioè di un atto del credere che coinvolge non
solo l'intelletto ma tutte le dimensioni dell'esistenza (e perciò oltre alla fides
quae creditur
occorre sempre anche la fides qua creditur cioè la fede per mezzo della quale si crede, in pratica quell'atteggiamento fondamentale di affidamento della propria persona nelle mani di colui che si riconosce come il proprio Signore e Salvatore).
occorre sempre anche la fides qua creditur cioè la fede per mezzo della quale si crede, in pratica quell'atteggiamento fondamentale di affidamento della propria persona nelle mani di colui che si riconosce come il proprio Signore e Salvatore).
Allora si capisce meglio il
principio enunciato all'inizio.
L'atto del credere, cioè il mio cammino di fede, non finisce quando io
comprendo che Gesù è il Signore e il Salvatore, ma quando io di questa stessa
salvezza concessami in Cristo e per Cristo ne faccio una esperienza
piena,completa, personale.
Che questo sia un principio
fondamentale per la teologia dovrebbe essere evidente di per sè: perchè la vera
teologia non è mai riconducibile solamente ad una dotta discussione "su
Dio" (questa la può fare anche un ateo, abbiamo detto) ma è sempre anche
intelligenza piena e quindi esperienza vitale di Dio! Cosicchè non ci può
essere vero credente che non sia anche "teologo" e non ci può essere
teologo senza che sia anche un vero credente.
E' la lezione di San Tommaso
d'Aquino, capace di innalzare la mente nelle esplorazione delle alte vette di
Dio, ma poi anche di saper piegare le ginocchia davanti al Santissimo
Sacramento e di saper dire che davanti al mistero della transustanziazione dove
falliscono la vista, il tatto e il gusto,
solo la fede è capace di fondare l'atto del credente: e forse il dramma di
oggi è quello di avere tanti sedicenti teologi ma pochi veri credenti!
Se questo è dunque un principio
teologico non astratto ma esistenziale, allora è anche il fondamento della vita
spirituale: non si comprende come si possa avere vita spirituale (che poi
significa vita di grazia, nello Spirito Santo, cioè esperienza della presenza
salvifica di Dio in Cristo nella nostra persona) senza che questa sia per
l'appunto esperienza, e non solo precomprensione razionalista di tecniche e
metodi mentali di "accaparramento del sacro" che si fermano al
chiacchiericcio senza attingere alla rem ipsam cioè alla stessa
esperienza della grazia e della salvezza, riducendosi a forme di
autogratificazione personale, al limite dell'autoerotismo psicologico.
E la garanzia che si arriva a vivere, a sperimentare il dono della grazia, cosa in cui consiste di fatto l'esperienza della salvezza, è data dall'inveramento del principio nell'esperienza liturgico-sacramentale. Giacchè l'esperienza della salvezza di Cristo è possibile oggi solo attraverso i sacramenti e nella liturgia della Chiesa, dire oggi che l'atto del credere non si conclude con l'enunciazione del dogma ma deve arrivare alla ipsam rem della salvezza, vuol dire concretamente che la confessione della fede deve terminare nell'esperienza sacramentale. Non c'è fede senza Sacramento. Non c'è proclamazione di fede che non nasca dunque dalla Parola e dal suo accoglimento, ma che non si concluda nel Sacramento.
E la garanzia che si arriva a vivere, a sperimentare il dono della grazia, cosa in cui consiste di fatto l'esperienza della salvezza, è data dall'inveramento del principio nell'esperienza liturgico-sacramentale. Giacchè l'esperienza della salvezza di Cristo è possibile oggi solo attraverso i sacramenti e nella liturgia della Chiesa, dire oggi che l'atto del credere non si conclude con l'enunciazione del dogma ma deve arrivare alla ipsam rem della salvezza, vuol dire concretamente che la confessione della fede deve terminare nell'esperienza sacramentale. Non c'è fede senza Sacramento. Non c'è proclamazione di fede che non nasca dunque dalla Parola e dal suo accoglimento, ma che non si concluda nel Sacramento.
Nel Battesimo-Confermazione
anzitutto come a conclusione del cammino di conversione (e nei sacramenti
collegati del perdono che sono la Confessione e l'Unzione dei malati); e poi
nei sacramenti della vita nuova del servizio ecclesiale (Ordine e Matrimonio)
ma soprattutto nel Sacramento dell'Eucaristia che della vita nuova in Cristo
è centro.
Ciò vuol dire allora che questo
principio teologico è anche il principio che sottostà a tutto l'impegno
catechistico. A cosa deve tendere infatti la catechesi se non ad una pedagogia
della fede che accompagni il cristiano non solo a saper confessare la sua
fede e a renderne ragione, cioè a saper interiorizzare ed esprimere i contenuti
del suo credere perchè ne risulti tutta la sua razionalità e credibilità e il
credere non sia ridotto a miti e favole per bimbi, ma che arrivi anche e
soprattutto a far fare di quella fede confessata una esperienza celebrata nei
sacramenti e vissuta nelle varie dimensioni dell'esistenza personale del
credente?
Una catechesi che non sbocchi nella celebrazione sacramentale dà solo
l'illusione di un cammino compiuto, che si arresta invece proprio davanti alla
porta dell'esperienza della salvezza che pur vorrebbe favorire! Non
solo: staccando poi l'esperienza di fede dal percorso dell' intellectus la
stessa esperienza sacramentale viene ridotta ad una esperienza o magica o
puramente estetica o ad una pura esperienza celebrativa ridotta ad una
cerimonia avulsa dalla realtà del credente, incapace di produrre frutti di
grazia (cioè di attingere alla pienezza dell'esperienza di salvezza se non per
il minimo vitale dell' ex opere operato) e quindi anche
di sostenere l'impegno del credente in una coerente testimonianza di
vita.
Così abbiamo percorsi
catechistici che si riducono solo all' enuntiabile (quasi percorsi
scolastici paralleli incapaci di toccare il cuore dei credenti) oppure ispirati
solo ad una esperienza di fraternità cristiana ridotta però al solo humanum
del "vogliamoci bene, come è bello stare insieme!".
Questo spiega perchè tanti bambini e ragazzi, pur frequentando il catechismo il sabato non riescano poi a comprendere le ragioni della partecipazione alla Messa domenicale; o perchè tanti ragazzi e giovani abbandonino la vita sacramentale al culmine della iniziazione cristiana, quando questa vita dovrebbe prendere le mosse proprio dalla pienezza della iniziazione che dovrebbe vedere nell'Eucaristia (e non nella Cresima) la fonte ed il culmine di tutta la vita cristiana, come insegna il Concilio Vaticano II.
Questo spiega perchè tanti bambini e ragazzi, pur frequentando il catechismo il sabato non riescano poi a comprendere le ragioni della partecipazione alla Messa domenicale; o perchè tanti ragazzi e giovani abbandonino la vita sacramentale al culmine della iniziazione cristiana, quando questa vita dovrebbe prendere le mosse proprio dalla pienezza della iniziazione che dovrebbe vedere nell'Eucaristia (e non nella Cresima) la fonte ed il culmine di tutta la vita cristiana, come insegna il Concilio Vaticano II.
Riscoprire l'impegno educativo
della Chiesa - come è detto nel progetto delle Chiese in Italia per questo
decennio - significa a mio avviso ripartire anzitutto da una comprensione della
catechesi come accompagnamento pedagogico che aiuti ad entrare pienamente nel
mistero della salvezza, che niente altro è che la stessa esperienza della
misericordia divina rivelata a noi nel Cristo e diffusa nel nostri cuori dallo
Spirito Santo. E' per questa misericordia che noi siamo salvi e ci è data in
dono la vita nuova. E perciò una catechesi vera conduce a sperimentare la
misericordia divina nei sacramenti della Chiesa. E solo una sapiente
mistagogia (cioè di introduzione ai sacramenti per ritus et preces) saprà rendere l'esperienza sacramentale della
misericordia la base per una coerente testimonianza di vita. Se vogliamo
cristiani capaci di essere annunciatori dell'amore di Dio, dobbiamo avere
prima cristiani che di questo amore ne facciano esperienza vera e sincera.
L'impegno è dunque quello di non
essere solo enunciatori, quanto sperimentatori della salvezza.
Per poi vivere l’impegno della vita nuova.
mercoledì 30 ottobre 2013
Ad un mese dalla tragedia
Se c’è una immagine che mi rimarrà impressa nella memoria
sarà quella delle tredici salme degli eritrei annegati nel loro tragico sbarco
sulla spiaggia di Sampieri composti nel semplice feretro di legno rivestiti da
un lenzuolo bianco offerto da altrettante mamme di Scicli. Non lenzuola usate,
da scarto, ma lenzuola nuova, ricamate, del corredo buono di famiglia: una
signora mi ha detto “questo lenzuolo l’ho usato solo per la nascita di mio
figlio, all’ospedale; ora voglio che ricopra un altro figlio di mamma morto
lontano dai suoi genitori”. Tredici lenzuola di mamme per tredici figli di
mamma: non extracomunitari, non forestieri, non sconosciuti, tredici figli con
nome e cognome, nel fiore della giovinezza, morti sulla nostra spiaggia in
cerca di una sorte migliore. In quei tredici lenzuoli vedo espresso l’abbraccio
di dolore, di affetto, di solidarietà che si è stretto non solo intorno alle
tredici vittime, ma anche a tutti gli altri fratelli eritrei che sono sbarcati
con loro e ai parenti e agli amici che sono in seguito venuti a Scicli per
riconoscere e piangere i loro morti.
So che parlando di queste cose c’è il rischio di accentuare
i toni del sentimento o di cadere in una sorta di autocelebrazione, però è
anche vero che il bene va narrato perché fecondi e generi altre storie di bene.
Non finiranno forse sulle prime pagine dei giornali, non
riceveranno medaglie o elogi ufficiali, però è giusto dire di quanti in quella
spiaggia di Sampieri – prima ancora che arrivassero gli aiuti ufficiali – si
sono prodigati davvero nella prima accoglienza (quanti altri ne sarebbero morti
se non ci fosse stato chi dalla spiaggia si fosse buttato subito in acqua, che
oltre a dare acqua e cibo ed abiti asciutti, è stata prodiga di affetto e
sorrisi, di braccia spalancate ad abbracciare e rincuorare; è giusto dire del
parroco di Sampieri che oltre a benedire le tredici salme è stato lì a
vegliarle tutto il giorno, finché non sono state trasferite al cimitero; è
giusto dire della cura con cui le salme sono state accudite e curate al
cimitero di Scicli da operatori che sono andati al di là di quanto richiesto
dalla loro mansione; è giusto dire di quanti hanno offerto la colazione e il
pranzo ai parenti delle vittime, li hanno accolto gratis nei loro B&B,
hanno pagato loro il biglietto dell’autobus, di chi è andato a portare fiori e
lumini al cimitero, di chi ha partecipato al loro funerale come se si trattasse
di persone di famiglia.
Ma io
potrei parlare delle lacrime raccolte nelle confidenze personali dei
sopravvissuti, dei loro sguardi e delle loro emozioni: potrei dire che sono
stato io ad accogliere loro, ma in realtà sono stato io ad essere stato accolto
nei loro cuori. E confesso che per me è stato una grazia
martedì 22 ottobre 2013
Credere: cioè pensare la fede
1.L’atto di fede
Credo Deum= “io credo (= io so) che Dio c’è” => non è ancora un atto pieno di fede
Credo in Deum = “io conosco Dio (= ho un rapporto di amicizia con Lui) => la fede “fiduciale”: fides qua creditur
Credo Deo= “io credo a Dio” (= io ho fiducia in lui e credo a quanto lui mi dice) => la fede nella verità che Dio mi rivela => le “verità di fede” della rivelazione: fides quae creditur
1. “al Dio che si rivela va dovuta l’obbedienza della fede” : Deus semper prior: primato/precedenza di Dio nella vita del credente: => la fede è grazia => Per uscire dal soggettivismo moderno: il recupero della coscienza come “luogo” in cui Dio parla al cuore dell’uomo
2. “piacque a Dio rivelare se stesso”: La fede come incontro personale tra Dio e l’uomo: esperienza di Dio, non conoscenza delle “cose di Dio”
3. “io so a chi ho creduto”: la fede come risposta dell’uomo a Dio: l’atto libero della fede che coinvolge tutto l’uomo, intelligenza e cuore
4. “l’uomo giusto vivrà per la suo fede”: la necessità della fede per la salvezza
5. “questa è la nostra fede, questa è la fede della Chiesa”: io credo => noi crediamo: noi crediamo => la dimensione ecclesiale della fede => la fede ci è consegnata dalla Chiesa e nella Chiesa (battesimo: la chiesa ti accoglie…)
1. In chi e che cosa crede la Chiesa?
· In Dio, Padre-Figlio-Spirito Santo,
· e le verità contenute nella Scrittura e trasmesse a noi dalla Tradizione della Chiesa
· il “depositum fidei”
· la sacra Scrittura
· la Tradizione
2. Il Simbolo della fede: come esprimere con un linguaggio comune ciò che crede tutta la Chiesa
Le “formule” di fede
I simboli e la professione di fede battesimale
Il simbolo apostolico
Il simbolo niceno-costantinopolitano
2. Lex credendi – lex orandi
1. si celebra ciò che si crede
2. si crede ciò che si celebra
“actus credendi non terminat ad enuntiabile sed ad ipsa rem”
la chiesa come luogo e strumento di salvezza
l’economia sacramentale come esperienza di Dio e della sua salvezza
la liturgia come momento comunitario e personale della storia della salvezza: “Oggi…”
3. Lumen fidei – lux vitae
“dilectio caritatis est fidei forma” : la vita nuova in Cristo
PER APPROFONDIRE
· Benedetto XVI Porta Fidei
· Lettera enciclica Lumen Fidei
· Cfr. Catechismo della Chiesa Cattolica, nn. 142 – 197
· Youcat, catechismo dei giovani, nn. 1-29
· Ricerca nei Catechismi CEI per i fanciulli e i ragazzi i capitoli che parlano della fede in Dio
· Sei catechista scout? Ispira le attività delle 3 branche alle schede “Dio”, “fede”, “Chiesa” del “Sentiero fede”.
· Sei dell’Azione Cattolica? O di altri gruppi? Certo avrete sussidi sulla fede e il Credo.
· Le tre virtù teologali: fede – speranza – carità = non ci può essere l’una senza l’altra: CCC nn. 1812 – 1829
· La fede e il primo comandamento: CCC nn. 2083 - 2141
PER RIFLETTERE
· La mia fede: tra grazia e ascolto = rendo grazie a Dio per il dono della fede?
· La mia fede è veramente cristiana, cioè trinitaria?
· Qual è il rapporto tra la “mia” fede e la “fede” della Chiesa?
· La mia famiglia come luogo di “trasmissione” ed “educazione” alla fede
· Le nostre catechesi trasmettono la fede? Conducono a celebrare e vivere la fede?
PER CELEBRARE LA FEDE
· Le nostre celebrazioni sono sempre un atto di lode a Dio? Esprimono la fede della Chiesa? O sono una autocelebrazione delle nostre comunità?
· Come far sì che i sacramenti e sacramentali siano espressione ed esperienza di fede? (specie battesimo/cresima; matrimoni, funerali…) come evitare che siano “privatizzati”?
PER VIVERE LA FEDE
· La carità: la fede che si fa vita
· Amare Dio che non si vede nei fratelli che si vedono: il precetto dell’amore oggi?
· Ripartiamo dalle opere di misericordia corporali e spirituali?
PER LA CONVERSIONE:
1. I DOVERI DELLA FEDE:
· Adorazione
· Preghiera
· sacrificio
2. I PECCATI CONTRO LA FEDE
· Dubbio volontario
· Incredulità
· Disperazione
· Presunzione
· Indifferenza
· Ingratitudine
· Tiepidezza: accidia
· L’odio di Dio frutto dell’orgoglio
· Superstizione
· Idolatria
· Divinazione e magia
· Stregoneria
· L’irreligione: tentare Dio, il sacrilegio
· Agnosticismo e ateismo
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