“Man – hu?” “Cosa è ciò?”
Così si chiesero l’un l’altro gli ebrei nel deserto quando un mattino
scoprirono la manna depositata sulle tende dei loro accampamenti.
Era il modo con cui Dio si prendeva cura del suo popolo, della fame del
suo popolo.
Un pane nuovo, disceso dal cielo: “aveva il sapore di una schiacciata di
pane caldo, diranno poi alcuni rabbini”; “è il cibo con cui si nutrono gli
angeli – diranno altri rabbini – è fatto di materia celeste e ha il sapore e la
trasparenza del miele”.
Per secoli il popolo ebraico ha riflettuto su questo miracolo, per
comprendere non solo che tipo di cibo era questa manna ma anche sugli effetti che
aveva su chi la mangiava.
Certo, in quanto pane doveva essere fatto di farina, ma da quale
frumento? Da quali campi? Da quale agricoltore?
“Ti ha nutrito di manna, che tu non conoscevi e che i tuoi padri non
avevano mai conosciuto, per farti capire che l’uomo non vive soltanto di pane,
ma che l’uomo vive di quanto esce dalla bocca del Signore”.
Ecco l’approdo della riflessione rabbinica: la manna niente altro è che
il cibo fatto con la parola di Dio, che scendendo dal cielo come chicchi di
frumento è macinata nei mulini delle nuvole e scende come rugiada sulla terra,
affinché ogni uomo impari a nutrirsi della parola del Signore e a saper dire
“mio cibo è fare la volontà del Padre”.
E giacché viene da Dio è farina di luce, frumento di luce: luce da luce.
E come luce rende luminosi, trasparenti, luce essi stessi, quanti di essa
si nutrono.
La manna infatti viene subito assimilata in bocca: e ciò fa dire ai
rabbini che la manna non viene assimilata dall’apparato digerente, ma che –
penetrando immediatamente in tutte le membra del corpo – è essa che assimila a
sé e trasfigura man mano in luce chi la mangia.
E così pian piano nutrendosi di manna l’uomo diventa sempre più diafano,
trasparente, la sua umanità viene trasfigurata dalla luce divina in modo che
alla fine l’Adamo peccatore rivestito di pelle ritorni alla sua primigenia
esperienza di creatura plasmata ad immagine e somiglianza di Dio in cui
risplende la stessa luce divina.
Nutrendosi di manna, cioè della parola di Dio, l’uomo così vive sotto
l’azione della grazia che permeandolo dal di dentro lo riconduce all’esperienza
di Dio, della vita eterna, persa a causa del peccato.
Certo questo è l’approdo finale della riflessione rabbinica
sull’esperienza del dono della manna ai padri nel deserto che, pur nutrendosi
di questa, morirono tutti lungo il cammino verso la terra promessa.
“I vostri padri mangiarono la manna eppure morirono” dirà infatti Gesù.
Ma nella loro riflessione i sapienti di Israele avevano già intuito che
quella manna ha un significato esemplare, è simbolo, tipo, di un’altra manna,
quella vera, in cui davvero il frumento della parola di Dio, macinato e
impastato dalla rugiada della grazia divina diventi pane di vita.
La manna del deserto è il segno di una attesa e del suo compimento.
Della fame e del giorno in cui questa sarebbe stata saziata.
E noi oggi celebriamo proprio colui che “Con i simboli è annunziato,
in Isacco dato a morte, nell'agnello della Pasqua, nella manna data ai padri” –
come ci fa dire la bellissima sequenza di San Tommaso D’Aquino.
Noi celebriamo oggi colui che di sé può dire “Io sono il pane vivo,
disceso dal cielo”.
Gesù si presenta come la vera manna, il vero pane del cielo.
Come prima, nel dialogo con la Samaritana, Gesù si presenta come “l’acqua
viva” capace di dare lo Spirito che disseta ogni sete, così ora lui si presenta
come “il pane vivo” capace di saziare ogni fame: “Se uno mangia di questo pane
vivrà in eterno”.
E davvero lui può dirlo di se stesso: egli è la vera manna celeste,
Parola pronunciata dal Padre prima di tutti i secoli, “che per noi uomini e per
la nostra salvezza discese dal cielo”;
Egli è il Verbo stesso di Dio, fattosi carne per darsi in cibo.
“Verbo di Dio impastato di sangue e latte di Maria”, come ci fa pregare
una antica antifona in dialetto prima di ricevere la comunione.
Ecco perché egli può dire che, essendo ormai lui il vero pane/manna sceso
dal cielo, l’unico modo possibile di farsi alimentare da lui è il cibarsi del
suo corpo e del suo sangue, cioè della sua carne:
“il pane che io darò è la mia carne per la vita del mondo”.
Una proposta che ancora oggi giunge a noi scandalosa e inaudita: “Come
può costui darci la sua carne da mangiare?”.
Ma Gesù, più che dare spiegazioni, oggi non fa altro che rincalzarci col
suo invito: “In verità, in verità io vi
dico: se non mangiate la carne del Figlio dell’uomo e non bevete il suo sangue,
non avete in voi la vita. Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue ha la
vita eterna e io lo risusciterò nell’ultimo giorno.”
Oggi, credo, sia il tempo di riscoprire questa affermazione di Gesù in tutta
la sua pretesa salvifica unica e
irriducibile.
E’ come se oggi Gesù dicesse ad ognuno di noi: “davvero tu vuoi la vita
eterna? Davvero tu hai fame di un cibo che non perisce? Davvero vuoi vivere una
vita che ti sazi nella tua vera umanità, nella tua dignità di creatura in cui
Dio rispecchia la sua immagine? Allora non farti ingannare da altri cibi, da
altre bevande: Perché la mia carne è vero
cibo e il mio sangue vera bevanda”.
In Gesù il donante e il dono si fanno uno, coincidono: il pane che lui dà
è il suo stesso corpo.
Il pane e il vino presentati nel segno anticipatore della Cena sono il
Corpo e il Sangue offerti sulla mensa della croce come dono di se stesso, della
propria vita.
Da allora il banchetto e il sacrificio sono le due facce di una stessa
realtà: siamo invitati a cibarci di Colui che per noi si è sacrificato sulla
croce.
“In lui era la vita”: la comunione al sacramento del suo corpo e del suo
sangue ci comunica la sua stessa vita.
“il calice della benedizione che noi benediciamo, non è forse comunione
con il sangue di Cristo? E il pane che noi spezziamo, non è forse comunione con
il corpo di Cristo?”
La festa di oggi ci ricorda che è l’eucaristia che verifica la nostra
esperienza di fede: non c’è vera fede cristiana che non sia eucaristica: che
cioè non abbia fonte e culmine nella celebrazione del’eucaristia.
Domandiamoci allora, ognuno di noi: come vivo il mio rapporto con
l’eucaristia?
Oggi si pretende di vivere la fede ma senza eucaristia, tanti si dicono
cristiani ma non partecipano all’eucaristia, mentre paradossalmente, pretende
l’eucaristia ci ha fatto scelte di vita lontane dalla logica cristiana.
La chiesa invece oggi ci ricorda che l’eucaristia è, come la manna di allora,
il frutto, il dono dopo la prova:
“Ricòrdati di tutto il cammino che
il Signore, tuo Dio, ti ha fatto percorrere in questi quarant’anni nel deserto,
per umiliarti e metterti alla prova, per sapere quello che avevi nel cuore, se
tu avresti osservato o no i suoi comandi.
Egli dunque ti ha umiliato, ti ha
fatto provare la fame, poi ti ha nutrito di manna, che tu non conoscevi …, per
farti capire che l’uomo non vive soltanto di pane, ma che l’uomo vive di quanto
esce dalla bocca del Signore”.
L’eucaristia ci insegna dunque anzitutto come guardare al mondo e alla
storia: come al tempo e al luogo in cui il Signore ci mette alla prova per
saggiare la nostra fedeltà.
Non dimentichiamo che Gesù è venuto, secondo la profezia di Simeone,
perché siano svelati i pensieri di molti cuori.
Nella tradizione rabbinica la manna non è solo il pane degli angeli, ma
anche il pane dei forti: cioè di chi sa resistere alle tentazioni del cammino,
ai miraggi del deserto. E dei deboli che vogliono rivestirsi del vigore della
grazia.
Non è il cibo degli imbelli, dei pavidi, di chi mette mano all’aratro e
poi si volge indietro, non è il cibo di chi mormora, degli ipocriti, degli
ingrati.
E allora chiediamoci: Davvero l’eucaristia ci trasforma? Davvero
permettiamo che il Cristo ci assuma in sé? Davvero permettiamo di coinvolgerci
nella sua vita nuova?
“Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue rimane in me e io in lui.
Come il Padre, che ha la vita, ha mandato me e io vivo per il Padre, così anche
colui che mangia me vivrà per me.”
E la prova che lasciamo che il Cristo ci assuma nella sua vita e nel suo
corpo è data dal fatto che il lasciarci incorporare in lui diventa anche un
lasciarci edificare nella sua Chiesa:
“Poiché vi è un solo pane, noi siamo, benché molti, un solo
corpo: tutti infatti partecipiamo all’unico pane”.
Il sentire cum Christo è sempre un sentire cum ecclesia.
Il vivere in Cristo è anche un vivere nella Chiesa.
Dobbiamo constatare invece che tanti ancora oggi vorrebbero vivere un
Cristo, separandolo dalla appartenenza ecclesiale.
Ma non ci può essere comunione con Cristo senza comunione con i fratelli.
Chi accetta di vivere in Cristo deve accettare anche che Cristo tramite
l’eucaristia lo coinvolga nel sacrificio della propria vita per la salvezza dei
fratelli.
Tanti che vivono la loro devozione eucaristica in modo solitario ed
egoistico, rinchiusi in una dimensione privatistica della loro religiosità
senza nessuna attenzione ai fratelli, specie quelli che soffrono e hanno
bisogno di essere accolti e curati, non si rendono conto di stare vivendo una
fede falsa e alienante che tradisce la stessa eucaristia cui partecipano.
E dunque bisogna stare attenti a come accedere all’eucaristia.
San Tommaso, con le parole di San
Paolo ammonisce:
Vanno i buoni, vanno gli empi;
ma diversa ne è la sorte:
vita o morte provoca.
Vita ai buoni, morte agli empi:
nella stessa comunione
ben diverso è l'esito!
Ecco il pane degli angeli,
pane dei pellegrini,
vero pane dei figli:
non dev'essere gettato ai cani.
Vogliamo pregare dunque Maria, primo tabernacolo della storia, che aiuti
ognuno di noi a diventare tabernacoli viventi sulle vie del mondo e della
storia.
Per portare e far cibare del Cristo pane del Cielo ogni fratello che
incontreremo sulle nostre strade.