Qualche anno fa feci un viaggio di studio in Germania, in tutti i luoghi che avevano visto l’operare di Martin Lutero e la nascita del Protestantesimo. E fu lì, lo confesso, che mi vennero i dubbi sul mio cattolicesimo. Qualcuno si sorprenderà: come, un prete cattolico ha dubbi sulla sua appartenenza religiosa? Certo i dubbi non riguardavano la mia sincera appartenenza alla Chiesa Cattolica, quanto il fatto se fossi stato formato secondo categorie cattoliche nella catechesi e nella formazione seminariale. Mi spiego. Anche per aiutare a comprendere cosa sta avvenendo realmente all’interno della Chiesa Cattolica (quella cioè a cui un tempo si aggiungeva con orgoglio la qualifica di “romana”) in una disputa sul modo di interpretare il Concilio Vaticano II che non è, come potrebbe sembrare, una esercitazione accademica riguardante solo quattro teologi professionisti, ma di fatto incide, e a mio parere inciderà sempre di più, nella vita pratica dei fedeli. La mia generazione è stata allevata e cresciuta nell’idea che il Concilio Vaticano II avesse proceduto ad un aggiornamento della Chiesa e che le riforme volute da questo fossero state tutte migliorative della esperienza ecclesiale e perciò la Chiesa del Vaticano II fosse la miglior Chiesa possibile al mondo. A riprova di questo fatto veniva indicata la riforma liturgica, la cui punta più appariscente è stata la riforma della Messa, voluta -si diceva- dal Concilio ed elaborata, mi hanno detto a scuola, con una continua attenzione ecumenica, cioè di rispetto verso la tradizione Ortodossa e la sensibilità delle comunità protestanti: anzi, mi si disse, tutte le fasi della riforma del rito della Messa sono state supportate sempre dal confronto con un gruppo di delegati ecumenici protestanti ed ortodossi, per tenere in conto le loro osservazioni. Così mi venne detto e così per anni ho creduto. Fin quando non arrivai in Germania. Qui i primi dubbi: mi avevano insegnato che i protestanti avevano abolito Santi e statue, eppure entrando nelle chiese tu facevi fatica a capire se erano luterane o cattoliche, stessi altari, pale d’altare, quadri, statue, candele accese dovunque (anzi, credo che dopo le chiese ortodosse, sia la Germania dove si fa più uso di candele!). Inoltre dappertutto gli altari erano rimasti quelli barocchi in fondo all’abside e non ho visto nessun altare “coram populo” come da noi dopo il Concilio: e qui mi venne un altro dubbio su dove allora celebrassero le loro Messe. La domenica il mio dubbio fu sciolto. A Weimar non riuscimmo a rintracciare il parroco cattolico per poter celebrare, e quindi chiedemmo al gestore dell’albergo di poter celebrare in un salone dell’Hotel: la gioia di quel signore fu immensa perché prese il fatto come una benedizione del Cielo e diede ordine ai camerieri di prepararmi un altare. Quando scesi dalla mia camera, trovai un bellissimo altare…addossato alla parete, con crocifisso, fiori, immagini sacre, tovaglie e tappeti, da far ricordare uno di quegli altari che si facevano da noi per le strade per il Corpus Domini! Parlando in un inglese stentato cercai di capire di che confessione fosse l’albergatore (non è che per caso fosse un cattolico tradizionalista?) e lui con orgoglio ribadì di essere luterano praticante, anzi chiamò la sua famiglia e i camerieri a partecipare alla Messa. E così celebrai “coram Domino” con i complimenti del pastore luterano venuto a farci da guida e che non comprendeva perché un gruppetto bolognese (poi comprenderete perché Bologna fa la sua parte in questa storia) di miei compagni di viaggio si lamentasse del fatto che io avessi celebrato dando loro le spalle: avrebbero preteso che io ordinassi ai camerieri di smontare tutto per celebrare secondo la nostra moda! E quando risposi che l’avevo fatto per rispetto ed educazione, oltre che per motivi ecumenici, mi fu risposto che non era questo l’ecumenismo, anzi, rincarando la dose, alcuni si dimostrarono offesi perché non avevo permesso loro di prendere la comunione direttamente dalla patena (come pare facessero in certe chiese di Bologna) ma di essere stato io a darla a loro dicendosi umiliati perché li avevo imboccato come bambini! E loro si definivano ormai “cattolici adulti” (per chi non lo ricordasse, questa dei cattolici adulti che richiedono autonomia a 360° da ogni vincolo magisteriale è l’espressione tanto cara ad un certo bolognese che fu pure capo del Governo qualche legislatura fa!). Anche stavolta il pastore luterano non riusciva a capire le lamentele: mi chiese il perché del problema, dato che loro la comunione la danno sulla lingua e in ginocchio secondo la tradizione, e mi domandò perché noi avevamo cambiato prassi. E così scoprii, anche girando per le altre chiese in quella domenica e nell’altra seguente, che luterani, protestanti di altre denominazioni, i seguaci di Hus (molti di questi li trovai poi a Praga) e tanti altri, continuano a celebrare con un altare a parete, con uno schema che tutto sommato ricalca la Messa di Pio V (concilio di Trento) o anche schemi più antichi, che tutti danno la comunione ai fedeli in ginocchio davanti alla balaustra! La cosa mi sconvolse a tal punto che, ritornato a casa, feci un giro su Internet e scoprii che anche anglicani, episcopaliani, presbiteriani celebrano tutti allo stesso modo: chi se ne vuole accertare può farlo di persona navigando per i vari siti di queste chiese e scoprirà che è difficile capire se si sta vedendo una celebrazione cattolica secondo il rito antico o una celebrazione protestante. Ora è qui la domanda: se è vero che la riforma della Messa cattolica è stata fatta con un’attenzione ecumenica verso i protestanti, guardando al loro modo di celebrare, non dovevamo mantenere anche noi il loro uso di celebrare (altare a muro, rivolti alla croce, comunione in ginocchio)? Che poi era anche quello anche nostro? E allora da dove la voglia di cambiare? Perché? In verità solo parte del calvinismo e forse metodismo ha propugnato una Santa Cena con il celebrante rivolto ai fedeli, ma non la stragrande maggioranza del protestantesimo: e qui il paradosso, e cioè che quelle cose che, pur nella critica alla chiesa cattolica, neanche i protestanti osarono toccare, siamo stati noi stessi cattolici a demolire! Non vi sembra un po’ strano? Ma per ora andiamo avanti.
Parlando con quel pastore, nella torre dove Lutero tradusse la Bibbia in tedesco, compresi come certamente la scelta di far proclamare la Parola di Dio nella lingua del popolo nella Liturgia fu una delle caratteristiche del Protestantesimo insieme alla traduzione da parte di Lutero degli inni dal latino, ma scoprii che, se le Messe “basse” sono in lingua volgare, le Messe solenni o “alte” ricorrono a tutto il patrimonio di canti ed inni in latino, (d’altronde è innegabile che la patria del latino studiato e parlato sia la Germania e non l’Italia!) e così avviene nelle chiese anglicane: chi ha seguito in televisione la recente visita di papa Benedetto ha potuto ascoltare i canti del coro di Canterbury veramente celestali e che supera di mille miglia gli sbraitamenti ed ululati vari dell’attuale coro della Sistina. E anche qui mi chiedo perché dalla proclamazione nella lingua del popolo della Scrittura (cosa che è più che accettabile e comprensibile) nella prima parte della Messa (giustamente detta Liturgia della Parola) si sia passati alla sparizione del latino nella seconda parte della Messa! Ma di questo riparleremo. E ancora avanti. Parlando parlando con quel pastore, scopro pure che la struttura dell’anno liturgico nelle chiese protestanti (comprese le anglicane)non è stata neanche cambiata e così è rimasto il ciclo antico strutturatosi ancor prima del Concilio di Trento e completo ancor prima del Mille: nessuno tra i protestanti ha mai pensato a cambiarlo, e invece la nostra riforma che fa? Per rispetto, si dice, dei protestanti, riforma l’anno liturgico e mentre loro continuano, ad esempi, a celebrare le domeniche di Settuagesima, Sessuagesima, Quinquagesima, prima della Quaresima, noi invece le abbiamo abolite! Tanto per far capire, è come se due che parlano lingue diverse scoprissero di aver mantenuto però alcune parole e frasi comuni dell’unico ceppo originario: e così uno dei due decide che per favorire il dialogo è meglio abolire le parole comuni che si hanno, ma non vi sembra un controsenso? E questo proprio quando lo slogan del tempo del Concilio Vaticano II erano le parole di Giovanni XXIII di guardare più a quello che ci unisce che a quello che ci divide: ma in ossequio a questo principio, se proprio l’orientamento della Messa e l’anno liturgico ci univano ai protestanti, non si dovevano lasciare immutate queste realtà o quanto meno toccarle il meno possibile per lasciare intatte le forme che si scoprivano avere ancora in comune le diverse chiese, nonostante la separazione secolare? E non vi sembra un controsenso l’affermare che quegli osservatori protestanti diedero il loro assenso alla nostra riforma liturgica? Non è stato come se loro sconfessassero le loro stesse tradizioni? Questo fatto mi fa nascere un dubbio: vuoi vedere che invece quel gruppo di osservatori ecumenici sia stato scelto, più che per esprimere la fedeltà ad una tradizione ecclesiale, quanto per assonanza con gli stessi nostri “riformatori”? In realtà, i fatti mostrano come ciò sia più che un dubbio e come forse appartenessero più o meno tutti alla stessa conventicola ideologica che fra l’altro soffriva di strabismo, perché almeno teoricamente, si disse di guardare al mondo protestante, e però non si guardò affatto nella direzione dell’Ortodossia e delle liturgie di tutte le chiese orientali (che pure furono tanto celebrate e incensate nel Concilio)! Infatti, come si fa a dire che si vuole fare una riforma per riportare la liturgia allo splendore dei tempi dei padri e della chiesa indivisa del primo millennio e poi negarlo coi fatti? Guardare all’Oriente, oltre che all’Occidente, avrebbe significato scoprire, ad esempio, che tutte le famiglie liturgiche di queste chiese (bizantini, slavi, armeni, maroniti, copti, siri, etiopi ecc.) celebrano la Messa rivolti ad Oriente, all’altare ed alla croce. Ora da noi le chiese furono rivolte con l’abside ad oriente per più di millecinqecento anni, e, anche dopo rimase, nell’impossibilità di avere chiese con l’abside ad oriente, l’uso della preghiera rivolti all’altare, alla croce, al tabernacolo. E anche qui che si fa? Dall’indicazione che l’altare sia staccato dal muro per potervi girare intorno (come in tutte le chiese orientali: e questo sì che andava fatto perché nell’altare a muro i fedeli non capivano più quale fosse la mensa dell’altare e quale la parete a supporto di tabernacolo croce e candelieri) si passa invece al celebrante che celebra guardando non più alla croce o al tabernacolo, ma che passa il tempo a guardare i fedeli che chiaccherano e chi entra ed esce dalla chiesa… Come si è fatto col protestantesimo, anche con l’Oriente cristiano, invece di cogliere l’occasione di un segno che ci poteva unire, si inneggia alla rottura e si perde l’occasione di ribadire il forte legame che lega cattolicesimo ed ortodossia! Anzi, la tradizione liturgica che poteva unire i tre rami della cristianità (cattolici, ortodossi, protestanti) e cioè l’anno liturgico e la preghiera rivolta ad oriente coram Deo, è in un batter d’occhio svenduta, misconosciuta per non dire rinnegata. Si comprende come i fratelli ortodossi e i fratelli protestanti seri (e mi riferisco al protestantesimo classico, ad una parte del luteranesimo classico e dell’anglicanesimo e non certo a tutte le sette fondamentaliste di origine americana) siano rimasti sospettosi verso un ecumenismo cattolico che da una parte propugnava alti principi di recupero delle tradizioni genuine della chiesa primitiva e del primo millennio della chiesa indivisa, e poi nei fatti negava concretamente questi principi: perché a rigor di logica proprio attenendosi a quei principi la riforma liturgica, così come è stata attuata, non andava certo fatta, perché come ho dimostrato in pratica non ha aperto ma chiuso il dialogo, o quanto meno fatto nascere la domanda su quale strada la chiesa cattolica volesse realmente percorrere.
Questi interrogativi su una certa prassi ecclesiale, specie liturgica, guardati dal punto di visto ecumenico veramente fanno sorgere il dubbio se alcune scelte abbiano favorito il vero dialogo oppure abbiano portato a esiti spesso in contraddizione con le intenzioni dichiarate e i buoni propositi sbandierati ai quattro venti.
Ma alcune considerazioni valgono non solo in ambito ecumenico ma anche nel rapporto con le altre religioni!
Siamo partiti infatti anche da alcune considerazioni sulla direzione della preghiera. Ammiriamo tutti i musulmani che in qualsiasi luogo si trovino al momento della preghiera si dirigono verso la Mecca (e all’interno di ogni moschea questa direzione è indicata da una nicchia in una parete), così come gli ebrei nel momento della preghiera in sinagoga si orientano verso la parete con l’armadio a muro, l’Aron, dove è custodito il rotolo della Legge (e anzi lo stesso lettore, per non voltare le spalle alla Torà, legge verso l’Aron e non verso l’assemblea, per non parlare poi delle stesse sinagoghe orientate verso Gerusalemme). Noi invece quando preghiamo ormai abbiamo scelto la formula del girotondo (fino a prenderci massonicamente per mano al momento del Padre nostro: orribile solo a dirsi) che ci rende autoreferenziali, senza avere più lo sguardo rivolto insieme verso un punto che ci inviti a trascendere da noi stessi per aprirci all’Assoluto. Anzi nelle nuove chiese abbiamo messo la sede del celebrante davanti al tabernacolo con il Santissimo Sacramento e così quello gli da le spalle quando celebra, e poi ci meravigliamo che la gente non creda più alla presenza reale di Cristo nell’Eucaristia! Lo stesso dicasi per la lingua. Il cinese e il giapponese del confucianesimo e schintoismo non è certo la lingua parlata, anzi di alcuni ideogrammi si è perso pure il significato, eppure si usano nei riti e nessuno si sogna di modificarli; nell’induismo regna il sanscrito; nell’islam tutti sanno che l’unica lingua sacra del Corano con cui si studia e si prega è l’arabo(anche nei paesi che non sono arabi); così è per l’ebraismo dove né in passato (quando l’ebraico già duemila anni fa era incompreso dai fedeli e la lettura in sinagoga era seguita dalla traduzione in aramaico) né al presente (quando le nuove generazioni disperse nel mondo spesso comprendono solo le lingue volgari) è stato mai messo in dubbio che la lingua della preghiera sia l’ebraico: ancora nel numero di gennaio nella rivista delle comunità ebraiche italiane veniva ribadito l’ebraico come lingua del culto indicando poi per la comprensione i libretti bilingui in cui si può trovare la traduzione accanto al testo originale. E anche chi dice che gli Ordotossi celebrano nella lingua del popolo erra, perché il paleoslavo della celebrazione russa non è il russo parlato, e così il greco delle celebrazioni bizantine non è il moderno greco parlato: chi fa una capatina su youtube se ne può sincerare da se stesso e magari vedere come in una parrocchia un vescovo greco che voleva introdurre la celebrazione dei vespri in greco moderno è stato fischiato e lo schiamazzo non è finito finchè non è passato al greco classico! Anche noi di rito romano ufficialmente abbiamo un’unica lingua per i riti sacri, il latino, ma ci hanno fatto credere che il Concilio l’abbia abolito, così può succedere che se io vado a Lourdes o sono poliglotta o non potrò pregare il rosario della processione aux flambeau, come è successo a me che dopo cinque ave maria in italiano ho dovuto sorbirmene altre quarantacinque nelle più svariate lingue comprese bengali e swuaili! Bello, se non fosse che lo stesso brano evangelico era ripetuto pure in altre nove lingue(e così un rosario di venti minuti ti dura tre ore)! E questo pur di non pregare in latino! Non sarebbe più bello, più pratico ma anche vero segno di unità se tutti avessimo detto i millenari Pater Ave e Gloria in latino? Non ci saremmo sentiti veramente appartenenti tutti ad un’unica chiesa senza barriera di razza e di lingua? Adesso se io vado all’estero o porto il messale italiano con me, oppure dovrò celebrare in francese, inglese… ungherese, perché un messale in latino non lo trovi manco a pagarlo! Eppure a Praga le messe celebrate in latino erano colme all’inverosimile anche con tutti i turisti! Oppure pensate alle povere badanti straniere (filippine, polacche) costrette a partecipare a messe in cui comprendono solo i gesti! Ma il Vaticano II non ha abolito il latino! Recita infatti il numero 54 della Costituzione Conciliare Sacrosanctum Concilium: "Nelle messe celebrate con partecipazione di popolo si possa concedere una congrua parte alla lingua nazionale...". Non dice: "in tutte le messe si sostituisca il latino", ma solo che nelle messe "cum populo" si può - per motivi pastorali - usare la lingua parlata. Di fatti poi Paolo Vi aveva consesso solo l’uso della lingua del popolo per la comprensione delle Letture, nella prima parte della Messa, mentre la seconda, la Liturgia eucaristica doveva restare in latino. E anche se si fosse concessa la lingua parlata per le acclamazioni dei fedeli, in ogni caso la preghiera eucaristica (dove è contenuta la formula della consacrazione) per Paolo VI doveva restare in latino! Anzi, il prete che celebra l'Ufficio divino e la santa Messa "sine populo" (e per i religiosi la messa conventuale, così come anche nei seminari), secondo il Concilio Vaticano II (e Paolo VI) sarebbe ancor oggi tenuto a celebrare in latino, non in lingua vernacola, non essendoci motivi pastorali per sostituire, in quei casi, la lingua ufficiale con un'altra. Per questo Paolo VI ordinò che i nuovi messali fossero bilingui nel 1964, nel 1966 e nel 1969. Ma le cose andarono poi in modo diverso: un colpo di mano del Consilium per la riforma liturgica fece sì che l'edizione del Nuovo Messale del 1970 perdesse in un attimo il testo originale. In Italiano è proprio scomparso, in altre lingue - con un po' di fortuna - è finito nascosto in appendice. Quando Paolo VI se ne accorse ordinò che si stampasse almeno un Messale “parvum” in latino e la CEI ordinò che si dovesse trovare in ogni sacrestia, al posto del messale grande : ma di questi, piccolo e grande, non se ne vede nemmeno l’ombra nella quasi totalità delle chiese! Così non solo non si può celebrare di fatto in latino, ma chi volesse almeno confrontare le traduzioni italiane col testo originale non può nemmeno farlo! Risultato: con l'originale latino scomparso, si impedisce così a sacerdoti e studiosi d'intendere l'autentico significato del testo tradotto. E, come dice un esperto, “l'elenco dei fraintendimenti commessi per malizia e, o, ignoranza comprenderebbe molti tomi"! E dunque?
Come detto prima, il presente della Chiesa Cattolica si sta giocando sulla recezione del Concilio Vaticano II. Alla base sta il problema della sua ermeneutica cioè della comprensione, interpretazione, attuazione. C'è chi pretende che sia stato un Concilio di rottura con la Tradizione precedente e per alcuni ciò significa un danno (basti pensare a tutta l’ala tradizionalista ecclesiale fino a quella scismatica lefebvriana); mentre per altri ciò significa finalmente una apertura della chiesa alla modernità (basti pensare a tutta l’ala progressista che vede ad esempio in Hans Kung il suo “antipapa”, formata in Italia in parte dai cosiddetti cattocomunisti e nutrita col catechismo dei giornali “riformatori” più che con quello della Chiesa cattolica). Invece papa Benedetto XVI sottolinea la necessità di una ermeneutica della continuità, cioè la lettura dei documenti del Vaticano II nel solco della Tradizione cattolica e delle dichiarazioni dei precedenti Concili: e questo comporterebbe una lettura senza teologie della rottura in un senso o in un altro! Il fatto poi che il Concilio non abbia prodotto nuove definizioni dogmatiche o emesso condanne dottrinali, o che abbia definito se stesso come "pastorale" dall'una e dall'altra parte è usato come pretesto per asserire come non vincolanti le sue deliberazioni: e quindi se non sono vincolanti ognuno può esimersi –pensano da entrambe le parti - dalla loro osservanza come e quando crede! Come pure, per superare la lettera della stesse deliberazioni, si è invocato lo "spirito" del Concilio, cioè il supposto pensiero dei padri conciliari. Perché è vero che il Concilio diede alcune indicazioni, però queste (quando c’erano) oppure nel silenzio del Concilio, vennero lette non secondo la lettera ma secondo lo “spirito del Concilio”, e questo “spirito” divenne la chiave per spiegare il detto e il non detto del Concilio! Di ciò nel post concilio si è fatto portabandiera una scuola di storici e teologi (che ha sede guarda caso a Bologna, il che spiega l’atteggiamento di alcuni bolognesi da me richiamati prima) che hanno prodotto una storia del Concilio secondo questi criteri ermeneutici, per cui non è tanto il documento prodotto dal Concilio che conta quanto l'evento stesso del Concilio, cioè il fatto del semplice stare insieme, dello stare a discutere, del rimettere tutto in discussione, del confronto. Certo queste cose andavano di moda nel ’68, in un assemblearismo ad oltranza ad ogni livello, ma comprendete bene che se nel cristianesimo tutto deve essere sottoposto a discussione e revisione, non rimangono più idee e certezze assolute, né di dogma né di morale! E difatti siamo ridotti ad un cristianesimo a la carte, o da supermercato, in cui ognuno sceglie ciò che più gli aggrada! Oggi celebriamo la beatificazione di Giovanni Paolo II, un papa che dicono sia stato il grande vincitore dell’ultimo secolo: in realtà è stato il grande sconfitto, perché tanto applaudito quanto inascoltato! Chi ricorda le sue encicliche? Le sue omelie? Chi ricorda che è stato il grande e strenuo difensore del matrimonio, della vita, contro l’aborto e l’eutanasia? Chi ricorda il suo attaccamento alla Humanae vitae di Paolo VI o la sua indisponibilità a riaprire il tema del celibato dei preti (sì da centellinare le dispense ai preti sposati o restringere le maglie della Rota romana)? Chi ricorda che è stato il papa della fermezza della disciplina e dei dogmi? Chi ricorda il suo dolore per il travisamento di alcune sue parole e gesti di dialogo, letti come apertura ad un relativismo religioso per cui dovette ordinare al card. Ratzinger di scrivere la Dominus Iesus (contro il parere di cardinali e prelati che oggi lo osannano) per ribadire che per la Chiesa l’unico Dio e Signore è Gesù Cristo? Cosa così ovvia che in duemila anni di storia nessuno nella Chiesa aveva mai messo in dubbio! Un papa grande e santo ma quasi ostaggio di una opinione pubblica ecclesiale formata da questo grande travisamento del Vaticano II per cui tutti i suoi richiami sono stati semplicemente elusi, basti pensare, un esempio fra tutti, alla sua Lettera per salvaguardare il valore della messa domenicale: quanti fra quelli che oggi lo applaudono (e lo applaudivano ieri) hanno ripreso la frequenza domenicale? Nessuno, al dire delle statistiche sempre in calo! E tutti i documenti e gli interventi di Giovanni Paolo II per correggere gli abusi commessi da vescovi e sacerdoti nel celebrare la messa? Nessuno li mai presi sul serio: ci sono alcuni – e mi consta di persona – che non li hanno mai neppure letti! E chi ricorda che il primo a liberalizzare la celebrazione della Messa col rito di Pio V fu proprio lui? Nessuno! La battaglia per tenere la chiesa unita e al centro degli opposti estremismi lo ha visto sconfitto: no, Giovanni Paolo II non è un trionfatore, è uno sconfitto, la cui vera icona è la sua immagine di crocifisso alla sua sedia, nella impossibilità finanche di gridare il suo dolore. E ciò che rimaneva nascosto dietro le immagini del trionfalismo mediatico adesso sta venendo allo scoperto in tutta la sua virulenza. La grandezza del nuovo papa, di Papa Benedetto XVI, sta nell’accettazione della gravosa eredità di papa Woitla e, da grande cultore di quella verità che sola libera, nell’accettazione che la querelle sul Vaticano II acquisti la valenza di un sereno dibattito intraecclesiale senza opposti ostracismi. Questo ha comportato la caduta della egemonia di un pensiero a senso unico in cui il Vaticano II più che conosciuto era idolatrato, e come ogni idolo non poteva essere messo in discussione! Prova ne sia l’uscita di un testo di De Mattei (il vicepresidente del CNR) che ci aiuta invece a comprendere il Concilio nella formazione dei testi prodotti, seguendone la genesi sessione per sessione e cogliendo i filoni teologici (e spesso anche ideologici) che affondano le loro radici in correnti di pensiero (a volte ai limiti dell'ortodossia dottrinale) che diedero vita alle accese discussioni (talune ancora non sopite) da cui scaturirono i documenti approvati nell'aula conciliare. E' uno studio di cui si sentiva la necessità perché finalmente si comincia a sentire anche "l'altra campana" sul Concilio, anche nel farci toccare con mano i trucchetti usati da una minoranza durante, e dopo il Concilio, che con tattiche parlamentari e politiche (e c’erano bolognesi che se ne intendevano quali Giuseppe Dossetti che travasò la sua “esperienza” della Costituente nelle sessioni conciliari) sono riusciti a portare la maggioranza dei Vescovi prima, e Paolo VI dopo, dove volevano loro. Al di là della condivisione o meno delle tesi proposte (ma che comunque sono da considerare seriamente, perché ci aiutano a comprendere la crisi del cattolicesimo postconciliare) il testo di De Mattei è un prezioso studio per comprendere i complessi meccanismi dell'attualità ecclesiale.
E ci avviamo dunque a concludere il nostro discorso. Per essere più chiari andremo per tesi.
Prima tesi: qui non è in discussione assolutamente il Vaticano II. In tutti i Concili, anche in quelli più antichi, le diatribe, le correnti teologiche, le trame e i sotterfugi hanno giocato il loro ruolo: ma è l’aspetto umano della Chiesa, che non fa scandalo, ma che fa comprendere ancora di più come alla fine chi guida la sua Chiesa è solo il Signore per vie note a lui solo! Per questo mi interessa che si riapra il dibattito storiografico sul Concilio e che non sia ingabbiato da opposti riduzionismi in parametri stretti e pregiudiziali: non mi riconosco infatti né nella scuola di Bologna né in quella di De Mattei, per me quindi è anzitutto importante ribadire, con il papa Benedetto, che tutti i Documenti del Concilio Vaticano II sono espressione del Magistero ordinario della Chiesa e come tali vanno accolti e compresi.
Seconda tesi: la mia critica perciò non va ai Documenti conciliari, ma al modo con cui sono stati interpretati, spesso fraintesi ed attuati in modo equivoco e parziale. Qui mi sembra di aver dimostrato come in vari ambiti un certo “spirito” del Concilio sia andato al di la del dettato conciliare stesso. Abbiamo riportato esempi tratti dalla liturgia, ma avremmo potuto parlare anche di come intendere il dialogo interreligioso. Non è forse vero che tutti oggi, da tanti catechisti e laici e finanche a certi preti e vescovi, affermano che dal Concilio in poi la Chiesa considera tutte le religioni come vie di salvezza per cui ognuno si salva rimanendo nella propria credenza? E allora che bisogno ci sarebbe oggi di andare in missione per annunciare il vangelo? Ma il Concilio non ha affermato tutto questo! Anzi ha detto l’esatto contrario: che cioè dato il contesto multiculturale e multireligioso in cui i cristiani si trovano a vivere, comporta di necessità l’instaurazione di rapporti pacifici e l’avvio di un dialogo sereno e fecondo, ma senza mai dimenticare di annunciare che per noi al di fuori di Cristo e della Chiesa non c’è salvezza, per cui tutti gli uomini sono chiamati a far parte della Chiesa! La stessa idea riguardo all’ecumenismo: si dice che tutte le confessioni cristiane siano uguali e perciò non si devono fare più appelli a che protestanti e ortodossi rientrino nell’unico ovile della Chiesa Cattolica, immaginando invece l’ecumenismo come il confluire di cattolici, protestanti ed ortodossi in un’unica super-chiesa che dovrebbe inglobare tutti mantenendo ognuno le proprie caratteristiche. Ma anche qui, tutto ciò il Concilio non l’ha mai detto, anzi al contrario il Concilio stesso fu voluto da Giovanni XXIII proprio per riportare i fratelli separati nella Chiesa Cattolica! Un conto dunque è il Concilio, un conto sono le ambiguità postconciliari.
Terza tesi: occore dunque un ritorno al vero Magistero Conciliare che ci faccia comprendere come la Tradizione della Chiesa si evolve nella continuità e non nella rottura col passato, come sta tentando di insegnarci Benedetto XVI. Prova ne sia, che, dopo gli anni dei sorrisi e delle cortesie belle e ammalianti, ma inconcludenti, del movimento ecumenico preso poi in ostaggio da minoranze in cui l’importante è il “volemose bene”, una stretta di mano, qualche gesto di carità, e poi ognuno se ne ritorna a casa sua, e nonostante gli sforzi di Giovanni Paolo II, pieni di buona volontà ma minati alla base da questa filosofia, sia il mondo anglicano e luterano, sia soprattutto l’ortodossia stanno superando la fase del sospetto nel vedere Benedetto XVI ribadire la continuità della Tradizione, stigmatizzando ogni lettura del Concilio Vaticano II come concilio di rottura con tutto il passato. E perciò dandoci l’esempio di come una lettura corretta dei documenti conciliari non porta necessariamente agli esiti devastanti di alcune realizzazioni postconciliari. Lo ha fatto lui stesso ritornando a celebrare orientato verso la croce, riportata al centro dell’altare (fatto prima diventare una semplice tavola imbandita: e a chi non crede alle aberrazioni avvenute riguardo a ciò basta andare sui youtube per rendersene conto); ridonando sacralità ai riti; facendo attuare l’indicazione del messale per cui la comunione si riceve sulla lingua ed in ginocchio; revocando l’indulto per la comunione sulle mani a San Pietro (come altri vescovi illuminati hanno già fatto perché fonte di irriverenze e sacrilegi); ritornando alla centralità del latino come lingua liturgica propria del rito latino; concedendo di poter celebrare con l’antico rito tridentino. La scelta di ripartire dalla liturgia di Benedetto ad esempio ha sciolto il ghiaccio col Patriarca di Mosca e sta portando al ritorno a casa di tanta parte del mondo anglicano.
Quarta tesi: dobbiamo dunque smetterla con le semplificazioni. Chi ha avuto la pazienza di seguirmi fin qua ha potuto vedere come la realtà ecclesiale odierna sia più complessa di quanto si immagini, e che spesso le riduzioni semplicistiche dei giornali e della televisione non rendano conto di questa realtà complessa. Ma spesso le semplificazioni devianti sono quelle fatte anche nelle nostre chiese e nelle nostre sacrestie: si veda appunto tante semplicistiche affermazioni riferite al Concilio, come quelle della riforma della Messa, della celebrazione “coram populo”, dell’abolizione del latino e altre cose simili. Cose che io, come ingenuamente tanti fedeli immagino, appunto abbiamo creduto per anni, salvo poi scoprire che in realtà nel Concilio non ci sono!
Quinta tesi: avere il coraggio della verità e perciò il coraggio di osare, di andare oltre le mode e le apparenze. Perché se fosse solo un problema di lingua o di cerimonie liturgiche non sarei stato qui a parlarne per mesi. Il problema vero è che ha ragione chi ha detto che il terzo millennio o sarà mistico o non sarà affatto. Qui è il recupero del senso del sacro perché è la via per il recupero del senso di Dio stesso. E’ il grido di allarme di papa Benedetto XVI: oggi Dio sta scomparendo dall’orizzonte della storia. Ma senza Dio tutto è permesso. E ciò che l’uomo è capace di fare senza Dio è sotto gli occhi di tutti. E se per recuperare il senso di Dio occorre recuperare il latino e la celebrazione coram Deo si abbia il coraggio di farlo! Un musulmano ha detto ad un cardinale: “in verità voi, sotto sotto, non credete che nell’ostia consacrata ci sia Dio, altrimenti vi prostrereste davanti ad essa come facciamo noi!” Quella che può sembrare una battuta ha la sua verità. E’ l’espressione di quella parte di islam genuino che teme davvero che l’occidente laico e ateo possa influire con la sua secolarizzazione anche sui paesi musulmani: in fondo è la difesa di una vita (comunque la si voglia interpretare) ancora fondata in Dio. E paradossalmente questa difesa di Dio e della sua presenza nel mondo è più sentita nell’slam che in certa parte del cristianesimo. Parlando con un imam, questi mi disse che non ha nessun interesse a dialogare con chi si dice cristiano ma non praticante! Non c’è vero dialogo senza partire da un’identità forte e chiara. E perciò la Chiesa deve ritornare a parlare di Dio. Nella chiesa si deve ritornare a parlare di Dio. Nelle chiese si deve di nuovo poter incontrare Dio. Perciò si deve ripartire dalla Liturgia, dalla Messa. Altrimenti continueremo a far la morale alle persone, le nostre prediche si ridurranno sempre più a comizi, le nostre celebrazioni saranno sempre più autoreferenziali al limite dell’autoerotismo intellettuale. Ma Dio non ci sarà più.
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