Forse solo in un futuro riusciremo a comprendere
pienamente la grandezza e la profondità del magistero di Papa Benedetto XVI.
Perché se prima la sua teologia era dotta e illuminante,
da Papa ha assunto l’autorevolezza, come qualcuno ha detto, di un Padre della
Chiesa.
Certo il suo magistero è stato
ordinario (nel senso canonico di non irreformabile) ma non per questo ha
assunto meno valore: anzi, sono sicuro che da alcune acquisizioni a cui si è
arrivati per suo merito la Chiesa non potrà più recedere.
Vorrei provare ad indicarne
qualcuna, ad esempio la ricomprensione della carità non come una attività della
Chiesa (in questo ha stigmatizzato con forza il “fare la carità” riducendo la
Chiesa ad una istituzione di beneficenza fra tante) ma quanto nel suo aspetto
teologale di esperienza stessa del Dio Unitrino che nella sua essenza è carità.
Pochissimi commentatori hanno
colto la rivoluzione a partire dalla sua prima enciclica: Deus charitas est, in
cui (e lo sapeva bene lui che veniva dalla terra protestante) ha invitato a
superare la separazione tutta luterana di eros e agape, riprendendo l’affermazione
(dall’esatta etimologia di eros: ricerca) che il Cristo esprime l’eros di Dio
nei riguardi dell’uomo (e perciò simmetricamente anche l’eros/ricerca dell’uomo
nei riguardi di Dio). E’ in questa ricerca dell’uomo da parte di Dio che Dio
rivela il suo amore gratuito e sovrabbondante che è agape e charis/grazia, e
cioè charitas. Un amore che rende possibile la risposta altrettanto amorosa
dell’uomo verso Dio. In questo senso l’esperienza di fede si rivela per quello
che è e deve essere nella sua pienezza esistenziale: l’esperienza mistica di un
incontro erotico e agapico insieme tra Dio e l’uomo. Quell’esperienza del “gioco
d’amore” cantato nel Cantico dei cantici e mirabilmente compreso dai mistici,
appunto, quali ad esempio San Giovanni della Croce. Qui, solo qui, nella
ricerca del volto dell’Amato è possibile l’esperienza della charitas che ti fa
scorgere nel volto sfigurato del fratello il volto del Dio che in Cristo ha
assunto il dolore del mondo nel suo annichilirsi in forma di servo.
A quanti pensavano ancora che
Dio è Dogma, nel senso che la rivelazione di Dio è la rivelazione di un sapere
di/su Dio, Papa Benedetto ha ricordato l’assunto giovanneo che Dio è amore e
che la rivelazione del Figlio niente altro è che questo disvelamento dell’amore
di Dio per gli uomini: una “passio” che trova il suo culmine proprio nella
croce come rivelazione ultima del “Deus pro nobis”. Se Dio è amore/charitas
allora la Chiesa non può non essere altrimenti. La Chiesa è carità. Perché solo
la carità è capace di dare senso e carne e sangue ai vincoli della communio
ecclesiale. Perché solo ponendosi come carità può presentarsi al mondo come
serva della fraternità umana e della dignità di ogni singolo uomo immagine del
volto di Dio.
Solo così si comprendono le
altre encicliche del papa e tutto il suo successivo magistero. Fino ad un Motu
proprio passato quasi inosservato: quello sulla ridefinizione proprio del ruolo
del servizio di carità nella Chiesa.
Significativamente il papa
parte dalla considerazione che nel Codice di diritto Canonico, nella parte che
riguarda il vescovo diocesano, il legislatore è stato attento al suo ruolo di
maestro della dottrina e di liturgo, ma ha tralasciato di indicare il vescovo
come colui che presiede nella chiesa a lui affidata anche al servizio della
carità, perché la fede annunciata e celebrata non può non essere vissuta e
testimoniata come carità.
E questo non è un problema
canonico. E’ ecclesiologico. Oserei dire che qui Papa Benedetto è stato
profetico, nello spingere la Chiesa ad un rinnovamento non delle strutture e
istituzioni (di cui ha sempre diffidato) ma della sua essenza stessa. La Chiesa
del futuro non è chiamata a fare carità, ma ad essere carità: o sarà carità o
non sarà affatto.
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