giovedì 27 giugno 2013

Ranjith ha ragione e fa riflettere

LATINO E LITURGIA
Riguardo all’uso del latino nella Liturgia occorre sottolineare quanto il Concilio decretava: “L’uso della lingua latina, salvo diritti particolari, sia conservato nei riti latini” (Sacrosanctum Concilium, n. 36), e consentiva l’uso del vernacolare nelle letture, nelle monizioni e in alcune preghiere e canti. Naturalmente, affidava alla competente autorità ecclesiastica territoriale decidere se e in quale misura il vernacolare fosse da usare nella Liturgia, sempre tuttavia con l’approvazione della Santa Sede. Anche riguardo al canto gregoriano il Concilio è prudente in quanto, mentre apre ad altri generi di musica sacra, soprattutto la polifonia, afferma che la Chiesa “riconosce il canto gregoriano come proprio della Liturgia romana”, per cui “gli va riservato il posto principale” (Sacrosanctum Concilium, n. 116). Tale concessione limitata del Concilio per l’uso della lingua vernacolare nella Liturgia è stata avventurosamente estesa dai riformatori; essendo il latino quasi totalmente scomparso dalla scena, esso è rimasto l’orfano più amato nella Chiesa. Dico questo non perché io sia un fanatico del latino; provengo da una terra di missione nella quale il latino non è compreso da quasi tutta la mia comunità. Ma è un errore credere che una lingua debba essere sempre compresa da tutti. La lingua, come sappiamo, è un mezzo di comunicazione di un’esperienza che, il più delle volte, e più ampia della stessa parola. Lingua e parole sono perciò secondarie e, in ordine d’importanza, vengono dopo l’esperienza e la persona. La lingua porta sempre con sé una kenosis – cioè un impoverimento nella sua espressione. Più tale esperienza passa per la comunicazione in altre lingue, più tende a divenire sempre meno espressiva della originalità dell’avvenimento. Ad esempio, il termine “OM” nella liturgia induista è intraducibile; inoltre le religioni orientali usano una lingua che è strettamente limitata alle loro forme di preghiere e di culto: l’induismo usa il sanscrito, il buddismo il pali e l’Islam l’arabo coranico. Nessuna di queste lingue è parlata oggi, e esse vengono usate solo nella loro forma cultuale; ognuna di queste lingue è rispettata e riservata, fin dall’inizio, per l’espressione di “qualcosa che va al di là dei suoni e delle lettere”. Il giudaismo, per esempio, usa il tetragramma JHWH per indicare l’impronunciabile nome di Dio. Di per sé, le quattro lettere del sacro tetragramma non hanno sfumature linguistiche, ma costituiscono il nome santissimo di Dio nella tradizione scritta della Masora.
L’uso liturgico del latino nella Chiesa, anche se inizia attorno al IV sec., dà origine a una serie di espressioni che sono uniche e costituiscono la fede stessa della Chiesa. Il vocabolario del Credo è chiaramente pieno di espressioni in latino che sono intraducibili. Il ruolo della lex orandi nel determinare la lex credendi della Chiesa è validissimo nel caso dell’uso del latino nella Liturgia, perché la dottrina evolve spesso nell’esperienza di preghiera. Per tale ragione, un sano equilibrio tra l’uso del latino e quello del vernacolare dovrebbe essere, a mio avviso, mantenuto. La reintroduzione dell’usus antiquior fatta da Papa Benedetto XVI non era quindi un passo all’indietro, come qualcuno lo definì, ma un’iniziativa per ridare alla sacra Liturgia un senso di stupore mistico e una maniera per tentare di impedire una palese banalizzazione di ciò che è fondamentale per la vita della Chiesa. Si deve dare onore e sostegno a tale iniziativa del Pontefice, che può condurre anche all’evoluzione di un nuovo movimento liturgico che potrebbe sfociare nella “riforma della riforma”, ardente desiderio di Papa Ratzinger. Di fatto, alcuni elementi dell’usus antiquior riflettono meglio il senso di stupore e devozione con il quale noi siamo chiamati a ri-presentare gli eventi del Calvario nelle nostre celebrazioni eucaristiche. E poiché noi accettiamo i molti sviluppi positivi del novus ordo come, per esempio, il più ampio uso del testo biblico e un maggiore spazio di partecipazione della comunità nei vari momenti della Messa, dobbiamo anche assicurare che ciò che accade sui nostri altari non perda la propria capacità di operare una vera trasformazione spirituale della comunità. Ed è per questo che si rende necessario un avvicendamento degli elementi più positivi delle due forme: cioè la “riforma della riforma”. La stessa definizione delle due forme come usus antiquior e novus ordo è per me erronea, poiché il sacrificio del Calvario non è mai antico, ma è sempre nuovo e attuale.

Nessun commento:

Posta un commento

IO ACCUSO…

Tra epidemia e calura estiva è passato sotto silenzio un importante responso della Congregazione della Dottrina della fede e approvato in pr...