venerdì 1 maggio 2015

SONO SOLO CANZONETTE?


Il nostro caro direttore mi ha scritto: "con riferimento ai fatti che hanno fatto assurgere il nostro Vescovo agli onori delle cronache, ti prego di preparare un articolo su come accompagnare i giovani oggi nella crescita verso la maturità cristiana".
Inutile ripetere qui che ciò che "ha fatto assurgere il nostro Vescovo agli onori delle cronache" è stata la notizia dell'aver cantato in una predica per una cresima, a Scicli, alcuni brani di autori contemporanei, per aiutarsi a tradurre il suo messaggio in un linguaggio creduto più comprensibile per i ragazzi di oggi.
I media ne hanno fatto un caso, ma noi sappiamo che non è la prima volta, e che ciò rientra in una scelta ben precisa di predicazione del nostro vescovo di usare un approccio vicino al parlato e all'immaginario della gente.
Nessuna meraviglia in ciò. Nonostante lo scalpore.
In fondo, se si pensa alla stessa legge dell'incarnazione, come la chiamano i teologi per spiegare la modalità della kenosis del Verbo nella natura umana, lo sforzo di Dio di parlare al suo popolo, quello del Cristo che usa le parabole, l'impegno dei grandi predicatori (si pensi ad un Sant'Antonio di Padova o a un san Bernardino da Siena) vanno tutti in questa direzione.
Ciò spiega anche le opposte reazioni, di plauso o di sconcerto, perché in verità questo ci riporta al problema più grande non solo delle modalità dell'evangelizzazione, ma allo stesso modo con cui il cristianesimo pensa la sua collocazione nel mondo.
Il cattolicesimo occidentale ha spinto, ad esempio, tale linea dell'incarnazione nella cultura e nell'arte da darci, da un lato, splendidi capolavori  (basti pensare all'esplorazione di tutti i linguaggi filosofici, musicali ed estetici) ma, dall'altro, correndo il rischio di ridurre il "divino" a "umano". Faccio un esempio: si pensi alle rappresentazioni della natività medievali che, passando per le rappresentazioni dei secoli successivi, in cui i protagonisti sono rivestiti degli abiti della loro epoca, arrivano alle rappresentazioni di un bimbo che nasce in una famiglia qualsiasi; così come tante Madonne con Bambino si sono ridotte ad anonime mamme con figlio; così come si è arrivati alla rappresentazione del Cristo come un bel giovanotto in jeans e t-shirt in una copertina di Jesus di qualche anno fa.
Debbo confessare che questo tentativo ha un suo fascino, specie quando si tratta di tradurlo in scelte pastorali. E anche un suo valore intrinseco. Perché mostra la spinta genuina di una “fede che ama la terra” come direbbe Karl Rahner. E la necessità di rimanere legati al “patois de Canaan”, al linguaggio del popolo,  come direbbe Pino Ruggieri. E in questo dobbiamo atto al nostro vescovo di aver coraggio, nell’inoltrarsi cantando “in partibus infidelium”! lo ha ben compreso la giornalista Pinella Drago che in un suo commento (su Il Giornale di Sicilia) ha paragonato l’omelia “cantata” del vescovo alla pala d'altare che si trova nella stessa chiesa di Jungi a Scicli, dell'artista Angelo Buscema, raffigurante la Passione di Cristo, iniziando da Cristo davanti a Pilato, con la successione della salita al Calvario, della Crocifissione per concludersi con la Resurrezione in una sequenza in cui si intessono i fatti della vita di Cristo e le tragedie del mondo contemporaneo, in particolare della seconda metà del Novecento, dai fatti d’Ungheria, al muro di Berlino, dalla guerra in Vietnam ai carri armati di Piazza Tienanmen: <<Un modo artistico – ha scritto -, quello del pittore Buscema, di attualizzare il racconto della passione rendendolo contemporaneo. E lo stesso ha fatto il vescovo Staglianò nell'omelia>>.
Più che nel primo annuncio, la difficoltà credo invece nasca dal riuscire a conciliare questo linguaggio “di approccio” con altri linguaggi pur necessari per un itinerario di fede conseguente al primo annuncio, cioè per una pedagogia di fede atta ad “accompagnare i giovani oggi nella crescita verso la maturità cristiana”.
Non credo ci siano ricette e soluzioni valide per sempre e poi un pastore deve costruirsi la sua pastorale spesso a partire dai tentativi falliti e dai propri errori.
Io qui posso solo portare la mia esperienza, a proposito di educazione alla fede dei giovani. Senza che ciò comporti disistima per altre esperienze e modalità di annuncio e di accompagnamento.
Giovane prete anch'io provai un approccio per lo più "mondano" col mondo giovanile, fatto di condivisione di birre al pub, schitarrate in spiaggia et similia. Fino a costruire intere veglie e celebrazioni tutte con pezzi di canzoni di autore: ai miei tempi si andava dai Beatles a Dylan, da De Andrè ai Nomadi... E magari alla fine ci scappava pure l'applauso! E sempre pronto a rispondere a chi criticava che anche Cristo era stato preso per mangione e beone e passava le notti con Nicodemo.
Però. Però pian piano ho scoperto sempre più che i giovani, oltre l'amicone non riuscivano ad andare. E per chi vuole annunciare il Signore questo è un fallimento. Trovai una lettera di don Milani che mi illuminò: egli scriveva ad un giovane prete che gli chiedeva consigli. E lui gli rispose che non deve mascherare il prete da giocoliere né riporre le sue speranze nei ping-pong (di cui ai suoi tempi erano piene le sacrestie): "Ecco dunque l'unica cosa decente da fare che ci resta: stare in alto (cioè in grazia di Dio), mirare in alto ( per noi è per gli altri) e sfottere crudelmente non chi è in basso, ma chi mira in basso. Rinceffargli ogni giorno la sua vuotezza, la sua miseria, la sua inutilità, la sua incoerenza. Star sui coglioni a tutti come sono stati i profeti innanzi e dopo Cristo. Rendersi antipatici noiosi odiosi insopportabili a tutti quelli che non vogliono aprire gli occhi sulla luce. E splendenti e attraenti solo per quelli che hanno grazia sufficiente da gustare altri valori che non siano quelli del mondo. La gente viene a Dio solo se Dio ce la chiama. E se invece che Dio la chiama il prete  (cioè l'uomo, il simpatico, il ping-pong) allora la gente viene all'uomo e non trova Dio."
Appesi questo brano in un foglietto in sacrestia e la mia meraviglia fu grande nel vedere che i giovani lo condividevano. Allora proposi una cosa impensabile: leggere la Bibbia insieme. Ci abbiamo messo tredici anni, tutti i sabati, feste e vacanze ed estati comprese. Tutta, da Genesi ad Apocalisse. Non si creò un gruppo giovanile parrocchiale, neanche un'ora persa in chiacchiere al limite dell'autoerotismo mentale. Ma ognuno cominciò un suo cammino di accompagnamento spirituale. Personale. Chi doveva andarsene se ne andò ma chi rimase oggi magari è papà e mamma e ho avuto la gioia di accompagnarli al matrimonio e di battezzare i figli. Ora siamo ad una nuova lettura della Bibbia. E scopro sempre di più che i giovani hanno bisogno di Parola e non di parole. Il mondo offre già loro pizze e balli e canzonette e tutto il variegato divertissement possibile e immaginabile. Se non diamo noi loro la Parola altra, chi gliela darà? Così come ho scoperto, anche per la mia esperienza di assistente scout, che i giovani vogliono esperienze forti di preghiera (la scommessa vinta di Papa Benedetto sull'adorazione eucaristica alle GMG insegna) e di servizio (nel far loro toccare con mano le tante piaghe del corpo di Cristo). Alla mia domanda ad un giovane di ritorno da una GMG nostrana se si fosse divertito, mi rispose che forse si erano divertiti più i giovani preti che ballavano sul palco. Ecco perché mi sono convinto anche - e non me ne vogliano i miei carissimi amici preti giovani che stimo e apprezzo per i loro sforzi di pastorale giovanile - che una pastorale giovanile seria non può essere fatta solo da giovani né solo da preti giovani: il giovane, oggi più che mai oggi cerca il padre e non il coetaneo, e nemmeno l'amico, cerca chi gli possa aprire nuovi orizzonti di senso, testimoniando con la sua esperienza la sua personale ricerca di fede nel contesto ecclesiale.

Per chiudere, ritornando all'immagine dell'arte sacra occidentale, forse oggi questa non riesce più a comunicare il sacro perché ha talmente assunto l'Urlo di Munch che non riesce più a comunicare il volto trasfigurato del Verbo incarnato, così come ancora un'icona bizantina riesce a fare. Così credo sia l'attuale impasse della nostra pastorale giovanile. Partire dall'umano, certo, ma ricordando che l'umano ferito dal peccato ha bisogno della grazia per recuperare tutta la sua autenticità. Per non cadere in una sorta di monofisismo alla rovescia:  cioè che, nel tentativo di usare nell’evangelizzazione, e finanche in teologia, il linguaggio del mondo, si possa cadere nel rischio che lo stesso linguaggio “teologico”, fattosi esso stesso mondano, non riesca più a comunicare la radicale alterità di Dio rispetto all'uomo e al mondo.

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