Il nostro caro direttore mi ha
scritto: "con riferimento ai fatti che hanno fatto assurgere il nostro
Vescovo agli onori delle cronache, ti prego di preparare un articolo su come
accompagnare i giovani oggi nella crescita verso la maturità cristiana".
Inutile ripetere qui che ciò che "ha
fatto assurgere il nostro Vescovo agli onori delle cronache" è stata
la notizia dell'aver cantato in una predica per una cresima, a Scicli, alcuni
brani di autori contemporanei, per aiutarsi a tradurre il suo messaggio in un
linguaggio creduto più comprensibile per i ragazzi di oggi.
I media ne hanno fatto un caso,
ma noi sappiamo che non è la prima volta, e che ciò rientra in una scelta ben
precisa di predicazione del nostro vescovo di usare un approccio vicino al
parlato e all'immaginario della gente.
Nessuna meraviglia in ciò.
Nonostante lo scalpore.
In fondo, se si pensa alla stessa
legge dell'incarnazione, come la chiamano i teologi per spiegare la modalità
della kenosis del Verbo nella natura umana, lo sforzo di Dio di parlare
al suo popolo, quello del Cristo che usa le parabole, l'impegno dei grandi
predicatori (si pensi ad un Sant'Antonio di Padova o a un san Bernardino da
Siena) vanno tutti in questa direzione.
Ciò spiega anche le opposte
reazioni, di plauso o di sconcerto, perché in verità questo ci riporta al
problema più grande non solo delle modalità dell'evangelizzazione, ma allo
stesso modo con cui il cristianesimo pensa la sua collocazione nel mondo.
Il cattolicesimo occidentale ha
spinto, ad esempio, tale linea dell'incarnazione nella cultura e nell'arte da
darci, da un lato, splendidi capolavori
(basti pensare all'esplorazione di tutti i linguaggi filosofici,
musicali ed estetici) ma, dall'altro, correndo il rischio di ridurre il
"divino" a "umano". Faccio un esempio: si pensi alle
rappresentazioni della natività medievali che, passando per le rappresentazioni
dei secoli successivi, in cui i protagonisti sono rivestiti degli abiti della
loro epoca, arrivano alle rappresentazioni di un bimbo che nasce in una
famiglia qualsiasi; così come tante Madonne con Bambino si sono ridotte ad
anonime mamme con figlio; così come si è arrivati alla rappresentazione del
Cristo come un bel giovanotto in jeans e t-shirt in una copertina di Jesus di
qualche anno fa.
Debbo confessare che questo
tentativo ha un suo fascino, specie quando si tratta di tradurlo in scelte
pastorali. E anche un suo valore intrinseco. Perché mostra la spinta genuina di
una “fede che ama la terra” come direbbe Karl Rahner. E la necessità di
rimanere legati al “patois de Canaan”, al linguaggio del popolo, come direbbe Pino Ruggieri. E in questo dobbiamo
atto al nostro vescovo di aver coraggio, nell’inoltrarsi cantando “in partibus
infidelium”! lo ha ben compreso la giornalista Pinella Drago che in un suo
commento (su Il Giornale di Sicilia) ha paragonato l’omelia “cantata” del
vescovo alla pala d'altare che si trova nella stessa chiesa di Jungi a Scicli,
dell'artista Angelo Buscema, raffigurante la Passione di Cristo, iniziando da
Cristo davanti a Pilato, con la successione della salita al Calvario, della
Crocifissione per concludersi con la Resurrezione in una sequenza in cui si
intessono i fatti della vita di Cristo e le tragedie del mondo contemporaneo,
in particolare della seconda metà del Novecento, dai fatti d’Ungheria, al muro
di Berlino, dalla guerra in Vietnam ai carri armati di Piazza Tienanmen:
<<Un modo artistico – ha scritto -, quello del pittore Buscema, di
attualizzare il racconto della passione rendendolo contemporaneo. E lo stesso
ha fatto il vescovo Staglianò nell'omelia>>.
Più che nel primo annuncio, la
difficoltà credo invece nasca dal riuscire a conciliare questo linguaggio “di
approccio” con altri linguaggi pur necessari per un itinerario di fede
conseguente al primo annuncio, cioè per una pedagogia di fede atta ad “accompagnare
i giovani oggi nella crescita verso la maturità cristiana”.
Non credo ci siano ricette e
soluzioni valide per sempre e poi un pastore deve costruirsi la sua pastorale
spesso a partire dai tentativi falliti e dai propri errori.
Io qui posso solo portare la mia
esperienza, a proposito di educazione alla fede dei giovani. Senza che ciò
comporti disistima per altre esperienze e modalità di annuncio e di
accompagnamento.
Giovane prete anch'io provai un
approccio per lo più "mondano" col mondo giovanile, fatto di
condivisione di birre al pub, schitarrate in spiaggia et similia. Fino a
costruire intere veglie e celebrazioni tutte con pezzi di canzoni di autore: ai
miei tempi si andava dai Beatles a Dylan, da De Andrè ai Nomadi... E magari
alla fine ci scappava pure l'applauso! E sempre pronto a rispondere a chi
criticava che anche Cristo era stato preso per mangione e beone e passava le
notti con Nicodemo.
Però. Però pian piano ho scoperto
sempre più che i giovani, oltre l'amicone non riuscivano ad andare. E per chi
vuole annunciare il Signore questo è un fallimento. Trovai una lettera di don
Milani che mi illuminò: egli scriveva ad un giovane prete che gli chiedeva
consigli. E lui gli rispose che non deve mascherare il prete da giocoliere né
riporre le sue speranze nei ping-pong (di cui ai suoi tempi erano piene le
sacrestie): "Ecco dunque l'unica cosa decente da fare che ci resta:
stare in alto (cioè in grazia di Dio), mirare in alto ( per noi è per gli
altri) e sfottere crudelmente non chi è in basso, ma chi mira in basso.
Rinceffargli ogni giorno la sua vuotezza, la sua miseria, la sua inutilità, la
sua incoerenza. Star sui coglioni a tutti come sono stati i profeti innanzi e
dopo Cristo. Rendersi antipatici noiosi odiosi insopportabili a tutti quelli
che non vogliono aprire gli occhi sulla luce. E splendenti e attraenti solo per
quelli che hanno grazia sufficiente da gustare altri valori che non siano
quelli del mondo. La gente viene a Dio solo se Dio ce la chiama. E se invece
che Dio la chiama il prete (cioè l'uomo,
il simpatico, il ping-pong) allora la gente viene all'uomo e non trova
Dio."
Appesi questo brano in un
foglietto in sacrestia e la mia meraviglia fu grande nel vedere che i giovani
lo condividevano. Allora proposi una cosa impensabile: leggere la Bibbia
insieme. Ci abbiamo messo tredici anni, tutti i sabati, feste e vacanze ed
estati comprese. Tutta, da Genesi ad Apocalisse. Non si creò un gruppo
giovanile parrocchiale, neanche un'ora persa in chiacchiere al limite
dell'autoerotismo mentale. Ma ognuno cominciò un suo cammino di accompagnamento
spirituale. Personale. Chi doveva andarsene se ne andò ma chi rimase oggi
magari è papà e mamma e ho avuto la gioia di accompagnarli al matrimonio e di
battezzare i figli. Ora siamo ad una nuova lettura della Bibbia. E scopro
sempre di più che i giovani hanno bisogno di Parola e non di parole. Il mondo
offre già loro pizze e balli e canzonette e tutto il variegato divertissement
possibile e immaginabile. Se non diamo noi loro la Parola altra, chi gliela
darà? Così come ho scoperto, anche per la mia esperienza di assistente scout,
che i giovani vogliono esperienze forti di preghiera (la scommessa vinta di
Papa Benedetto sull'adorazione eucaristica alle GMG insegna) e di servizio (nel
far loro toccare con mano le tante piaghe del corpo di Cristo). Alla mia
domanda ad un giovane di ritorno da una GMG nostrana se si fosse divertito, mi
rispose che forse si erano divertiti più i giovani preti che ballavano sul
palco. Ecco perché mi sono convinto anche - e non me ne vogliano i miei
carissimi amici preti giovani che stimo e apprezzo per i loro sforzi di
pastorale giovanile - che una pastorale giovanile seria non può essere fatta
solo da giovani né solo da preti giovani: il giovane, oggi più che mai oggi
cerca il padre e non il coetaneo, e nemmeno l'amico, cerca chi gli possa aprire
nuovi orizzonti di senso, testimoniando con la sua esperienza la sua personale
ricerca di fede nel contesto ecclesiale.
Per chiudere, ritornando
all'immagine dell'arte sacra occidentale, forse oggi questa non riesce più a
comunicare il sacro perché ha talmente assunto l'Urlo di Munch che non riesce
più a comunicare il volto trasfigurato del Verbo incarnato, così come ancora
un'icona bizantina riesce a fare. Così credo sia l'attuale impasse della nostra
pastorale giovanile. Partire dall'umano, certo, ma ricordando che l'umano
ferito dal peccato ha bisogno della grazia per recuperare tutta la sua
autenticità. Per non cadere in una sorta di monofisismo alla rovescia: cioè che, nel tentativo di usare
nell’evangelizzazione, e finanche in teologia, il linguaggio del mondo, si
possa cadere nel rischio che lo stesso linguaggio “teologico”, fattosi esso
stesso mondano, non riesca più a comunicare la radicale alterità di Dio
rispetto all'uomo e al mondo.
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