Romani: 6,[16] Non sapete voi che, se vi
mettete a servizio di qualcuno come schiavi per obbedirgli, siete schiavi di
colui al quale servite: sia del peccato che porta alla morte, sia
dell'obbedienza che conduce alla giustizia? [17] Rendiamo grazie a Dio, perché
voi eravate schiavi del peccato, ma avete obbedito di cuore a
quell'insegnamento che vi è stato trasmesso [18] e così, liberati dal peccato,
siete diventati servi della giustizia. [19] Parlo con esempi umani, a causa
della debolezza della vostra carne. Come avete messo le vostre membra a
servizio dell'impurità e dell'iniquità a pro dell'iniquità, così ora mettete le
vostre membra a servizio della giustizia per la vostra santificazione. [20]
Quando infatti eravate sotto la schiavitù del peccato, eravate liberi nei
riguardi della giustizia. [21] Ma quale frutto raccoglievate allora da cose di
cui ora vi vergognate? Infatti il loro destino è la morte. [22] Ora invece, liberati
dal peccato e fatti servi di Dio, voi raccogliete il frutto che vi porta alla
santificazione e come destino avete la vita eterna. [23] Perché il salario del
peccato è la morte; ma il dono di Dio è la vita eterna in Cristo Gesù nostro
Signore.
Ø
Possiamo scegliere il
nostro padrone, ma, che si tratti di Dio o di Mammona, qualcuno dobbiamo
servire. Non possiamo assolutamente restare in posizione neutrale o intermedia.
Una tale posizione, infatti non è ammissibile perché, se non vogliamo servire
il primo, diventiamo immediatamente schiavi del secondo, e poi perché Cristo ci
ha liberati da Satana solo rendendoci suoi servi. (Card. Newman, Al
servizio di Cristo).
v
CHIAMATI A SERVIRE: “Dio ci
ha creati per conoscerlo, amarlo, servirlo in questa vita …” (Catechismo)
ð
Il servizio è l’essenza e
lo scopo dell’esistenza del popolo di Dio: “lascia partire il mio popolo perché
mi serva” (Es 7): cfr. in principio c’è la richiesta di andare nel
deserto per fare un sacrificio a Dio.
ð
Liberazione dall’Egitto
come passaggio dalla schiavitù verso il Faraone che si fa dio, al servizio
verso Dio che restituisce all’uomo la sua dignità.
ð
In Egitto non si può
servire Dio perché si è obbligati all’idolatria.
ð
Solo chi è libero può
scegliere di servire Dio: cfr. l’alleanza al Sinai e la sua ripresa a Sichem
con Giosuè.
ð
L’alternativa fondamentale:
o il servizio a Dio o l’idolatria.
IL SERVIZIO DI DIO
ð
“lascia partire il mio
popolo perché mi renda culto” (Es 7): cfr. in principio c’è la richiesta
di andare nel deserto per fare un sacrificio a Dio.
ð IL SERVIZIO LITURGICO: avodà / opus Dei
ð QUALE SACRIFICIO?
ð LA LOGHIKE’ LATREIA
ð UN SERVIZIO DELLA GIUSTIZIA PER LA SANTIFICAZIONE
v
“… e goderlo pienamente
nella vita eterna” (catechismo)
PER RIFLETTERE:
Ø
Liberi da (= premessa):
l’Egitto da cui devo sempre uscire
Ø Liberi di (= la scelta): una decisione da rinnovare ogni giorno
Ø Liberi per (= scopo): il servizio a cui sono chiamato
Ø La terra della mia libertà: la Chiesa come terra promessa
Ø
Il mio “culto”: cioè la mia
vita
Da «La Città di Dio»
di sant'Agostino, vescovo (Lib. 10, 6; CCL 47, 278-279)
<<Il
vero sacrificio consiste in ogni azione con cui miriamo a unirci con Dio in un
santo rapporto, rivolgendoci a quel sommo. Bene che ci può rendere veramente
beati. Perciò anche le stesse opere di misericordia, con cui si viene in
soccorso dell'uomo, se non si fanno per Dio, non possono dirsi vero sacrificio.
Infatti, benché il sacrificio venga compiuto e offerto dall'uomo, tuttavia è
cosa divina, tanto che gli antichi latini l'hanno designato anche con
quest'ultimo nome. Perciò un uomo consacrato a Dio e votato a lui, in quanto
muore al mondo per vivere a Dio, è un sacrificio. E' anche un'opera di
misericordia che ciascuno fa verso se stesso, come sta scritto: «Abbi
misericordia della tua anima, rendendoti gradito a Dio» (Sir 30, 24 volg.).
Dunque
veri sacrifici sono le opere di misericordia sia verso se stessi, sia verso il
prossimo in riferimento a Dio. D'altra parte le opere di misericordia non si
compiono per altro motivo, se non per essere liberi dalla miseria e rendersi
così beati di quella beatitudine che non si consegue se non per mezzo di quel
bene di cui fu detto: «Il mio bene è stare vicino a Dio» (Sal 72, 28).
L'Apostolo ci esorta ad offrire i nostri corpi come sacrificio vivente, santo e
gradito a Dio, come nostro atto di culto spirituale (cfr. Rm 12, 1). Ci
raccomanda di non conformarci al mondo presente, ma a trasformarci rinnovando
la nostra mente per poter discernere qual è la volontà di Dio, per capire qual
è il vero bene a lui gradito e perfetto, per comprendere che noi stessi
costituiamo tutto intero il sacrificio. Per questo soggiunse: «Per la grazia
che mi è stata concessa, io dico a ciascuno di voi: Non valutatevi più di
quanto è conveniente, ma valutatevi in maniera da avere di voi un giusto
concetto, ciascuno secondo la misura di fede che Dio gli ha dato. Poiché, come
in un solo corpo abbiamo molte membra e queste membra non hanno tutte la
medesima funzione, così anche noi pur essendo molti, siamo un solo corpo in
Cristo e ciascuno per la sua parte siamo membra gli uni degli altri. Abbiamo
pertanto doni diversi secondo la grazia data a ciascuno di noi» (Rm 12, 3-6).
Questo è
il sacrificio dei cristiani: «Pur essendo molti siamo un corpo solo in Cristo»
(1 Cor 10, 17). E questo sacrificio la Chiesa lo celebra anche con il
sacramento dell'altare ben noto ai fedeli, in cui le viene mostrato che, in ciò
che essa offre, essa stessa è offerta nella cosa che offre.>>
<<Ne
consegue senza dubbio che tutta la città redenta, cioè la comunità e la società
dei fedeli, viene offerta a Dio quale sacrificio universale, per mezzo del
grande Sacerdote, che ha offerto anche se stesso per noi nella sua passione,
sotto le sembianze di servo, perché divenissimo corpo di così grande capo. Ha
offerto, infatti, questa natura umana e in essa venne offerto perché proprio
per essa è mediatore, sacerdote, sacrificio. >>
<<Oggi abbiamo sentito un testo – lo sentiamo e lo meditiamo
– della Lettera ai Romani:
Paolo parla ai Romani e quindi parla a noi, perché parla ai Romani di tutti i
tempi. Questa Lettera non solo è la più grande di san Paolo, ma è anche
straordinaria per il peso dottrinale e spirituale. E’ straordinaria anche
perché è una lettera scritta a una comunità che non aveva fondato e neppure
aveva visitato. Egli scrive per annunciare la sua visita ed esprimere il
desiderio di visitare Roma, e preannuncia i contenuti essenziali del suo Kerygma;
così prepara la Città alla sua visita. Scrive a questa comunità che non conosce
personalmente, perché è l’Apostolo dei Pagani - del passaggio del Vangelo dagli
Ebrei ai Pagani - e Roma è la capitale dei Pagani e quindi il centro, alla
fine, anche del suo messaggio. Qui deve giungere il suo Vangelo, perché sia
realmente arrivato nel mondo pagano. Giungerà, ma in modo diverso da come lo
aveva pensato. Paolo arriverà incatenato per Cristo e proprio in catene si
sentirà libero di annunciare il Vangelo.
Nel primo capitolo della Lettera
ai Romani, egli dice anche: della vostra fede, della fede della Chiesa di
Roma si parla in tutto il mondo (cfr 1,8). La cosa memorabile della fede di
questa Chiesa è che se ne parla nel mondo intero, e possiamo riflettere come
stia oggi. Anche oggi si parla molto della Chiesa di Roma, di tante cose, ma
speriamo che si parli anche della nostra fede, della fede esemplare di questa
Chiesa, e preghiamo il Signore perché possiamo far sì che si parli non di tante
cose, ma della fede della Chiesa di Roma.
Il testo letto (Rm 12,
1-2) è l’inizio della quarta ed ultima parte della Lettera ai Romani e comincia con le parole “Vi
esorto” (v. 1). Normalmente si dice che si tratti della parte morale che segue
alla parte dogmatica, ma nel pensiero di san Paolo, e anche nel suo linguaggio,
non si possono dividere così le cose: questa parola “esorto”, in greco parakalo, porta in sé la parola paraklesis –parakletos, ha una profondità
che va molto oltre la moralità; è una parola che certamente implica
ammonizione, ma anche consolazione, cura per l’altro, tenerezza paterna, anzi
materna; questa parola “misericordia” – in greco oiktirmon e in ebraico rachamim, grembo
materno - esprime la misericordia, la bontà, la tenerezza di una madre. E se
Paolo esorta, tutto questo è implicito: parla col cuore, parla con la tenerezza
dell’amore di un padre e parla non solo lui. Paolo dice “per la misericordia di
Dio” (v. 1): si fa strumento del parlare di Dio, si fa strumento del parlare di
Cristo; Cristo parla a noi con questa tenerezza, con questo amore paterno, con
questa cura per noi. E così anche non fa appello soltanto alla nostra moralità
e alla nostra volontà, ma anche alla Grazia che è in noi, che lasciamo operare
la Grazia. E’ quasi un atto nel quale la Grazia data nel Battesimo diventa
operante in noi, dovrebbe essere operante in noi; così la Grazia, il dono di
Dio, e il nostro cooperare vanno insieme.
A che cosa esorta, in questo senso, Paolo? “Offrire i vostri corpi
come sacrificio vivente, santo e gradito a Dio” (v. 1). “Offrire i vostri
corpi”: parla della liturgia, parla di Dio, della priorità di Dio, ma non parla
di liturgia come cerimonia, parla di liturgia come vita. Noi stessi, il nostro
corpo; noi nel nostro corpo e come corpo dobbiamo essere liturgia. Questa è la
novità del Nuovo Testamento, e lo vedremo ancora dopo: Cristo offre se stesso e
sostituisce così tutti gli altri sacrifici. E vuole “tirare” noi stessi nella
comunione del suo Corpo: il nostro corpo insieme con il suo diventa gloria di
Dio, diventa liturgia. Così questa parola “offrire” – in greco parastesai – non è solo un’allegoria;
allegoricamente anche la nostra vita sarebbe una liturgia, ma, al contrario, la
vera liturgia è quella del nostro corpo, del nostro essere nel Corpo di Cristo,
come Cristo stesso ha fatto la liturgia del mondo, la liturgia cosmica, che
tende ad attirare a sé tutti.
“Nel vostro corpo, offrire il corpo”: questa parola indica l’uomo
nella sua totalità, indivisibile - alla fine - tra anima e corpo, spirito e
corpo; nel corpo siamo noi stessi e il corpo animato dall’anima, il corpo
stesso, deve essere la realizzazione della nostra adorazione. E pensiamo -
forse direi che ognuno di noi poi rifletta su questa parola - che il nostro
vivere quotidiano nel nostro corpo, nelle piccole cose, dovrebbe essere
ispirato, profuso, immerso nella realtà divina, dovrebbe divenire azione
insieme con Dio. Questo non vuol dire che dobbiamo sempre pensare a Dio, ma che
dobbiamo essere realmente penetrati dalla realtà di Dio, così che tutta la
nostra vita – e non solo alcuni pensieri – siano liturgia, siano adorazione.
Paolo poi dice: “Offrire i vostri corpi come sacrifico vivente” (v. 1): la
parola greca è logike latreia e appare poi nel Canone Romano, nella
Prima Preghiera Eucaristica, “rationabile obsequium”. E’ una definizione nuova del culto,
ma preparata sia nell’Antico Testamento, sia nella filosofia greca: sono due
fiumi – per così dire – che guidano verso questo punto e si uniscono nella
nuova liturgia dei cristiani e di Cristo. Antico Testamento: dall’inizio hanno
capito che Dio non ha bisogno di tori, di arieti, di queste cose. Nel Salmo 50
[49], Dio dice: Pensate che io mangi dei tori, che io beva sangue di arieti? Io
non ho bisogno di queste cose, non mi piacciono. Io non bevo e non mangio
queste cose. Non sono sacrificio per me. Sacrificio è la lode di Dio, se voi
venite a me è lode di Dio (cfr vv. 13-15.23). Così la strada dell’Antico
Testamento va verso un punto in cui queste cose esteriori, simboli,
sostituzioni, scompaiono e l’uomo stesso diventa lode di Dio.
Lo stesso avviene nel mondo della filosofia greca. Anche qui si
capisce sempre più che non si può glorificare Dio con queste cose – con animali
od offerte –, ma che solo il “logos” dell’uomo, la sua ragione divenuta
gloria di Dio, è realmente adorazione, e l’idea è che l’uomo dovrebbe uscire da
se stesso e unirsi con il “Logos”, con la grande Ragione del mondo e
così essere veramente adorazione. Ma qui manca qualcosa: l’uomo, secondo questa
filosofia, dovrebbe lasciare – per così dire – il corpo, spiritualizzarsi; solo
lo spirito sarebbe adorazione. Il Cristianesimo, invece, non è semplicemente
spiritualizzazione o moralizzazione: è incarnazione, cioè Cristo è il “Logos”,
è la Parola incarnata, e Lui ci raccoglie tutti, cosicché in Lui e con Lui, nel
suo Corpo, come membri di questo Corpo diventiamo realmente glorificazione di
Dio. Teniamo presente questo: da una parte certamente uscire da queste cose
materiali per un concetto più spirituale dell’adorazione di Dio, ma arrivare
all’incarnazione dello spirito, arrivare al punto in cui il nostro corpo sia
riassunto nel Corpo di Cristo e la nostra lode di Dio non sia pura parola, pura
attività, ma sia realtà di tutta la nostra vita. Penso che dobbiamo riflettere
su questo e pregare Dio, perché ci aiuti affinché lo spirito diventi carne
anche in noi, e la carne diventi piena dello Spirito di Dio.
La stessa realtà la troviamo anche nel capitolo quarto del Vangelo di San Giovanni, dove
il Signore dice alla samaritana: Non si adorerà in futuro su quel colle o sul
quell’altro, con questi o altri riti; si adorerà in spirito e in verità (cfr Gv 4,21-23). Certamente è
spiritualizzazione, uscire da questi riti carnali, ma questo spirito, questa
verità non è un qualunque spirito astratto: lo spirito è lo Spirito Santo, e la
verità è Cristo. Adorare in spirito e verità vuol dire realmente entrare
attraverso lo Spirito Santo nel Corpo di Cristo, nella verità dell’essere. E
così noi diventiamo verità e diventiamo glorificazione di Dio. Divenire verità
in Cristo esige il nostro coinvolgimento totale.
E poi continuiamo: “Santo e gradito a Dio: è questo il vostro
culto spirituale” (Rm 12,1).
Secondo versetto: dopo questa definizione fondamentale della nostra vita come
liturgia di Dio, incarnazione della Parola in noi, ogni giorno, con Cristo - la
Parola incarnata -, san Paolo continua: “Non conformatevi a questo mondo, ma
lasciatevi trasformare, rinnovando il vostro modo di pensare” (v. 2). “Non
conformatevi a questo mondo”. C’è un non conformismo del cristiano, che non si
fa conformare. Questo non vuol dire che noi vogliamo fuggire dal mondo, che a
noi non interessa il mondo; al contrario vogliamo trasformare noi stessi e
lasciarci trasformare, trasformando così il mondo. E dobbiamo tenere presente
che nel Nuovo Testamento, soprattutto nel Vangelo
di San Giovanni, la parola “mondo” ha due significati e indica quindi il
problema e la realtà della quale si tratta. Da una parte il “mondo” creato da
Dio, amato da Dio, fino al punto di dare se stesso e il suo Figlio per questo
mondo; il mondo è creatura di Dio, Dio lo ama e vuol dare se stesso affinché
esso sia realmente creazione e risposta al suo amore. Ma c’è anche l’altro
concetto del “mondo”, kosmos
houtos: il mondo che sta nel male, che sta nel potere del male, che
riflette il peccato originale. Vediamo questo potere del male oggi, per
esempio, in due grandi poteri, che di per sé stessi sono utili e buoni, ma che
sono facilmente abusabili: il potere della finanza e il potere dei media. Ambedue necessari,
perché possono essere utili, ma talmente abusabili che spesso diventano il
contrario delle loro vere intenzioni.
Vediamo come il mondo della finanza possa dominare
sull’uomo, che l’avere e l’apparire dominano il mondo e lo schiavizzano. Il
mondo della finanza non rappresenta più uno strumento per favorire il
benessere, per favorire la vita dell’uomo, ma diventa un potere che lo opprime,
che deve essere quasi adorato: “Mammona”, la vera divinità falsa che domina
il mondo. Contro questo conformismo della sottomissione a questo potere,
dobbiamo essere non conformisti: non conta l’avere, ma conta l’essere! Non
sottomettiamoci a questo, usiamolo come mezzo, ma con la libertà dei figli di
Dio.
Poi l’altro, il potere dell’opinione pubblica. Certamente
abbiamo bisogno di informazioni, di conoscenza delle realtà del mondo, ma può
essere poi un potere dell’apparenza; alla fine, quanto è detto conta di più che
la realtà stessa. Un’apparenza si sovrappone alla realtà, diventa più
importante, e l’uomo non segue più la verità del suo essere, ma vuole
soprattutto apparire, essere conforme a queste realtà. E anche contro questo
c’è il non conformismo cristiano: non vogliamo sempre “essere conformati”,
lodati, vogliamo non l’apparenza, ma la verità e questo ci dà libertà e la
libertà vera cristiana: il liberarsi da questa necessità di piacere, di parlare
come la massa pensa che dovrebbe essere, e avere la libertà della verità, e
così ricreare il mondo in modo che non sia oppresso dall’opinione,
dall’apparenza che non lascia più emergere la realtà stessa; il mondo virtuale
diventa più vero, più forte e non si vede più il mondo reale della creazione di
Dio. Il non conformismo del cristiano ci redime, ci restituisce alla verità. Preghiamo
il Signore perché ci aiuti ad essere uomini liberi in questo non conformismo
che non è contro il mondo, ma è il vero amore del mondo.
E san Paolo continua: “Trasformare, rinnovando il vostro modo di
pensare” (v. 2). Due parole molto importanti: “trasformare”, dal greco metamorphon, e “rinnovare”, in
greco anakainosis.
Trasformare noi stessi, lasciarsi trasformare dal Signore nella forma
dell’immagine di Dio, trasformarci ogni giorno di nuovo, attraverso la sua
realtà, nella verità del nostro essere. E “rinnovamento”; questa è la vera
novità: che non ci sottoponiamo alle opinioni, alle apparenze, ma alla Grazia
di Dio, alla sua rivelazione. Lasciamoci formare, plasmare perché appaia
realmente nell’uomo l’immagine di Dio.
“Rinnovando - dice Paolo in modo sorprendente per me - il vostro
modo di pensare”. Quindi questo rinnovamento, questa trasformazione comincia
con il rinnovamento del pensare. San Paolo dice “o nous”: tutto il modo
del nostro ragionare, la ragione stessa deve essere rinnovata. Rinnovata non
secondo le categorie del consueto, ma rinnovare vuol dire realmente lasciarci
illuminare dalla Verità che ci parla nella Parola di Dio. E così, finalmente,
imparare il nuovo modo di pensare, che è il modo che non obbedisce al potere e
all’avere, all’apparire eccetera, ma obbedisce alla verità del nostro essere
che abita profondamente in noi e ci è ridonata nel Battesimo.
“Rinnovare il modo di pensare”: ogni giorno è un compito proprio
nel cammino dello studio della Teologia, della preparazione per il sacerdozio.
Studiare bene la Teologia, spiritualmente, pensarla fino in fondo, meditare la
Scrittura ogni giorno; questo modo di studiare la Teologia con l’ascolto di Dio
stesso che ci parla è il cammino di rinnovamento del pensare, di trasformazione
del nostro essere e del mondo.
E, infine, “Facciamo tutto - secondo Paolo - per poter discernere
la volontà di Dio, ciò che è buono, a Lui gradito e perfetto” (cfr v. 2).
Discernere la volontà di Dio: possiamo imparare questo soltanto in un cammino
obbediente, umile, con la Parola di Dio, con la Chiesa, con i Sacramenti, con
la meditazione della Sacra Scrittura. Conoscere e discernere la volontà di Dio,
quanto è buono. Questo è fondamentale nella nostra vita. (Benedetto XVI, Lectio
al Seminario romano).
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