Un mio amico mi ha riportato il
commento di un conoscente che, tra le altre cose, credeva di aver scoperto il
perché il bilancio dello Stato italiano è in deficit: “troppi preti in Italia:
non solo non fanno niente per tutta la vita e poi pretendono pure la pensione!
Qual è la loro utilità? Nessuna! E lo stato li deve pure pagare!”
Premesso che non è lo Stato che
ci paga e che non toglie di tasca un centesimo ai cittadini, perché i miei 727
Euro mensili sono il frutto della generosità dei fedeli che firmano la
devoluzione dell’otto per mille delle loro
tasse alla Chiesa Cattolica, e che per la misera pensione, che spero di
arrivare a ricevere anch’io, il Fondo clero, che ci paghiamo direttamente noi
preti, non prende niente a nessuno, la domanda sulla utilità dei preti non è da
prendere sottogamba. Sia perché è indice di una mentalità ignorante, se non
distorta, in materia: a Zappulla, ad esempio, una lettera anonima (il che è
tutto dire) mi rimproverava che dopo anni di parroco ancora non avessi fatto niente per la contrada e cioè non mi
ero battuto per l’illuminazione delle strade, o per la piazzetta da asfaltare o
per la sezione scolastica che volevano chiudere né mi ero schierato in
occasione delle quote latte o della sede della discarica. Stranamente però si
taceva dell’amministrazione dei sacramenti! Non è la prima volta che scrivo di
questo argomento perché mi convinco sempre di più che la gente (e passi chi di
fede non ne vuol sapere ma è scandaloso per la gente che si reputa di Chiesa e
frequenta le nostre sacrestie) ha del prete una visione secolare, mondana e
spesso opportunistica, ma non guarda al prete certo come Cristo lo ha voluto e
come il Magistero della Chiesa insegna.
Purtroppo la mentalità attivistica è entrata anche in ambito ecclesiale
per cui siamo spesso anche noi preti ad insinuare quell’idea che il prete è ciò
che fa. Ma un prete anzitutto vale per
ciò che è. Confesso che il passare del tempo mi ha confermato ancora di più in
questa idea. La domanda giusta non è cosa fa o a che serve un prete, ma sul suo
essere. E il prete è l’Eucaristia che celebra. Non è qui il luogo di
discettazioni teologiche in proposito, ma il senso del ministero sta tutto qui.
Il prete è tutto in quella sua vita donata. In Cristo e come Cristo: “non c’è
amore più grande di chi da la vita per i propri amici”. Sono stato nella chiesa
di Sant’Ignazio a Praga, dove un curvo gesuita ottantenne, sostenuto dal
sacrista, ha cantato in latino tutta la Messa e poi ha fatto la predica in
ceco. Non ho capito una parola di quell’omelia, ma ne sono uscito edificato più
di tante altre logorroiche esternazioni
fatte in casa nostra: da quegli occhi che si posavano sulla pagina
evangelica e ne traevano sorridente ispirazione traspariva come quella Messa era il canto d’amore di quel
prete per il suo Dio e per i suoi fratelli a cui provava a comunicare
quest’amore. Cosa avrà potuto fare negli anni dell’oppressione comunista questo
povero prete? Niente! Ma è stato là a testimoniare la gratuità di una grazia
che salva. E’ stato la testimonianza di un’amicizia. Perché è questo che Dio
vuole: farsi amico, farci amici. E’ ciò che provo ad essere anch’io: amico,
nonostante i miei limiti. Perché so che la via dell’amicizia (ma quella vera,
non quella contrabbandata come tale ma che puzza di falso lontano un miglio) è
la via maestra della testimonianza di fede: “vi ho chiamato amici” ci dice Gesù
ed è quanto vorrei provare a ripetere a tutti quelli che mi è dato di incontrare sulla mia strada. Per
questo il peccato più grande per me è il tradimento di un’amicizia, in
qualunque modo sia fatto. E confesso che la mia sofferenza più grande è il
veder rifiutata la mano tesa in amicizia. Ho ricevuto dai miei genitori il
grande dono del non saper tenere nessun rancore verso chi mi ha fatto del male
e da loro ho appreso la grande lezione sull’amicizia: “meglio cento amici in
piazza che cento onze in cassa”. Un mio altro vecchio amico venuto per le
vacanze se ne è andato senza potermi offrire un caffè: in ogni bar dove
entravamo c’era sempre qualcuno già pronto a farlo. Me lo ha fatto notare,
dicendo che al Nord sarebbe impensabile! Ho risposto di esserne consapevole:
sono anni che provo anch’io ma non c’è verso di pagare un caffè! E a volte
provo un senso di timore e magari non entro nel bar o ci vado di nascosto! Però
poi ringrazio il Signore e accetto il caffè non come atto di semplice cortesia
ma come un vero e proprio gesto di amicizia. E prego di poter essere sempre
segno di amicizia. Tanto ormai i miei parrocchiani e le brave suore ci sono
abituati: sanno che i miei ritardi sono sempre dovuti a quanti incontro lungo il cammino e a cui credo sia giusto fare un
cenno di saluto (“u salutu u lassau u Signori” mi ripetevano i miei e camminare
con loro era sempre fare una via “a stazioni”), scambiare con loro qualche
parola, ascoltare senza fretta quanto ti vogliono dire. Fosse per me, farei
meno incontri e convegni e dibattiti e più chiacchierate con gli amici. Non è forse
questo lo stile di Gesù di Nazareth a cui noi facciamo fatica a ritornare?
Questa mia confessione ad alta
voce vuole essere allora anche un grazie a tutti gli amici e compagni di strada
e di piazza! Per tutti i caffè offerti e i passaggi con la macchina (ormai
tutti sanno che sono uno dei due preti della diocesi di Noto che non ha
patente) e anche per i semplici sorrisi e il saluto amichevole con cui sono
sempre accolto quando ci incontriamo e le cortesie di cui spesso sono oggetto
immeritatamente. Mi piace pensare che questi gesti provengano da una seppur a
volte quasi inconsapevole consapevolezza (!) che l’essere del prete e quindi
anche il rapporto con il prete si giochi tutto nella dimensione dell’amicizia. E
di questo sono grato a voi e al Signore. Vi assicuro che tutti siete presenti
nelle mie Messe più di quanto possiate immaginare. E’ il mio modo di ricambiare,
per i miei fratelli e i miei amici “alzerò il calice della salvezza e invocherò
il nome del Signore”
E’ vero: il prete non lavora ed
economicamente non rende. Non è utile. Come utilitaristicamente non è utile la
grazia o la fede. C’è un libro a proposito dal titolo “La necessità
dell’inutile”. Paradossalmente anche l’inutilità di Dio e della fede e della
grazia a volte ci possono essere necessarie più del pane: perché “non di solo
pane vive l’uomo”! L’inutilità della vita di un prete esprime, credo, questa
paradossalità. E’ la lezione della gratuità, quanto può essere bello e gratuito
un caffè offerto in amicizia!
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