giovedì 3 settembre 2020

IO ACCUSO…

Tra epidemia e calura estiva è passato sotto silenzio un importante responso della Congregazione della Dottrina della fede e approvato in prima persona da Papa Francesco. E’ la dichiarazione della nullità dei battesimi amministrati con la formula “Noi ti battezziamo…”. Che perciò dovranno essere tutti rifatti. Il problema e l’abuso a cui il papa ha voluto mettere (giustamente) fine è complesso. Non si tratta solo di mantenersi fedeli alla tradizione di una formula usata per millenni. Si tratta di un grande fraintendimento a livello teologico-sacramentale (non si capisce il significato della salvezza di Cristo e del modo come questa sia comunicata agli uomini e quindi il valore dei sacramenti) e sia a livello ecclesiologico (non si capisce il ruolo di mediazione svolto dalla Chiesa nel trasmettere qui ed ora, hic et nunc, la salvezza ai fedeli). Ma il fraintendimento è anche sul ruolo sacerdotale, del ministro che celebra e amministra i sacramenti. Ora io qui non voglio fare disquisizioni teologiche (che però sarebbe opportuno fare in altre sedi) ma fare una riflessione proprio sulla incomprensione del loro ruolo che questi parroci hanno dimostrato (e non pensate subito ai luoghi lontani delle sperimentazioni eterodosse dell’America – nord o sud che sia – perché anche in Italia abbiamo avuto di queste belle teste gloriose). A partire anche dalla condivisione del dolore di alcune famiglie che stanno vivendo questa triste disavventura e che mi hanno fatto partecipe della loro sofferenza e dello sbigottimento dei loro piccoli. A questi confratelli io vorrei dire:

- Caro confratello, quindi dopo almeno sei anni di studi (e magari di più se sei Licenziato o Dottorato) non hai capito che il sacerdote agisce “in nome della Chiesa e di Cristo” e quindi dietro la formula “Io ti battezzo…” c’è il Cristo e tutta la Chiesa? (e, nel caso del battesimo, anche se il ministro non è un prete). Oppure, nella tua supponenza, credevi che l’Io si riferisse a te, e tu, per mortificare il tuo orgoglio – ma che umiltà! – hai voluto usare il Noi per dire che non sei tu ma è tutta la Chiesa che battezza? E per dare risalto a questa insana idea hai magari pensato che il Noi sarebbe stato più ecclesiale, come espressione di papà mamma nonni zie nipoti cugini padrini e madrine e il solito contorno di bizzocchi e pie donne che in ogni parrocchia non mancano mai. E magari ti sei illuso che la formula “Caro N. la nostra comunità cristiana ti accoglie…” (traduzione già ambigua messa in luce dal fine intelletto di papa Benedetto) ti suggerisse che foste proprio tu e la tua conventicola ad accogliere l’infante nell’esperienza di fede e a dargli salvezza! Il guaio, caro confratello, è proprio questa smisurata mania di grandezza e protagonismo che ti ha portato a credere che il vero attore fosti tu, e gli altri fossero tutte comparse, e non solo, ma che la tua fosse una recita a soggetto e manco su un copione ma su un semplice canovaccio da poter manipolare a piacere! Si, perché non ti è sfiorato (nel tuo nominalismo per cui un nome ne vale un altro e una formula ne vale un’altra) che tu non sei né l’autore né il regista, ma sei chiamato ad essere un fedele amministratore di beni che non ti appartengono. E che la fedeltà alla stessa formula sacramentale, lungi dal coartare la tua libertà e creatività liturgica (orribile dictu) è invece la garanzia per la sua efficacia: ma tant’è, tu sarai di quelli che credono che concetti come liceità, validità, nullità, siano stati creati dalle menti bacate dei canonisti fissati in un legalismo antievangelico! Invece il tuo agire sarebbe stato tutto impregnato di pastoralità, come oggi si usa dire! Ma dimmi, quale carità pastorale hai avuto nell’amministrare un sacramento invalido? E quindi inefficace? Non senti di aver fatto vivere per anni genitori e figli in un inganno diabolico? Quale attenzione pastorale verso i genitori che, magari non erano venuti se non per il battesimo del piccolo, e che ora scoprono che per le tue manie teologiche il sacramento amministrato al loro caro è nullo e si deve rifare? Ma dimmi ancora, quale amore per i piccoli c’è in questo tuo gesto? Come dire ora ad una bambina di dieci anni, che magari ha già fatto la prima comunione, che per la tua smania di novità il suo battesimo si deve rifare e quindi la prima e le altre volte che ha ricevuto l’Eucaristia non ha fatto in realtà niente? Ecco, a pensare al cuore infranto di uno di questi bambini penso a quel Gesù che ammoniva di non scandalizzare i piccoli! E tu hai sporcato l’innocenza di fede dei piccoli allo stesso modo di quei pedofili che ne macchiano la purezza. Non te ne vergogni? Ti confesso che non solo mi ha fatto male il tuo gesto, ma mi scandalizza ancora di più il tuo, e dei tuoi compari, silenzio: mi sarei aspettato un gesto di scuse, una richiesta di perdono alle famiglie, e, ancor di più ai piccoli caduti nel tuo inganno (e mi chiedo come questi e le loro famiglie potranno mai più avere fiducia nella Chiesa e nei preti, se non fosse per la grazia e la misericordia di Dio). E a dirla tutta, mi fa star male di più l’ignavia del tuo vescovo, se allora sapeva e non ti ha mai ripreso, e ora che sa e non ti ha mandato a fare il pastore errante ( ma delle vere pecore, quelle a quattro zampe) negli altopiani più remoti della terra. Io da parte mia sento tutto lo sgomento e il dolore delle famiglie cui, per tua responsabilità, è occorsa questa dis-grazia nel senso letterale della parola. A loro non posso non mostrare e assicurare la mia vicinanza di sacerdote di una Chiesa che, nonostante tutto,  rimane Madre, ma insieme a loro io prego che tu ti penta di quanto hai fatto e perché quanto è successo non si ripeta più! E perciò ti accuso, ma per amore di quel sacramento che condividiamo per l’imposizione delle mani, e per amore tuo, perché seppur non conoscendoti ti sento vicino nella fraternità sacerdotale, perché vorrei che queste mie parole di arrivassero al cuore e tu possa ritrovare, nella Chiesa che hai ferito la via vera del ritorno al Padre e nel cui nome permettimi di abbracciarti - .

 

martedì 19 maggio 2020

QUARANTENA E QUARESIMA


Un mio caro amico mi ha fatto rilevare il rapporto tra quarantena e quaresima. Ma è solo per l'etimologia del nome dal numero 40. A parte che la quaresima è finita e la quarantena è continuata'. Ma non è un problema di giorni ma di esperienza interiore. Si può vivere aspettando che passino. Oppure facendo diventare la quarantena una vera quaresima. Come? Come momento di revisione di vita e di conversione cioè di cambiamento. L'epidemia non è una punizione di Dio. Ma forse Dio sta permettendo questa prova per farci comprendere che alcuni stili di vita sono sbagliati e quindi da correggere. E che il vero virus di cui avere paura è l'egoismo in tutte le sue forme. E finché c'è vita c'è speranza di cambiare. Altrimenti avremo sprecato quaresima quarantena e vita

Dio ha promesso a Noè che non avrebbe più distrutto l'umanità nonostante la cattiveria umana. L'arcobaleno ce lo ricorda. Dio non ha mandato il virus per distruggere gli uomini. È la natura che fa il suo corso. Ma sostenere che dobbiamo aspettare che faccia il suo corso in attesa passiva non è da credenti. Perciò non solo dobbiamo pregare che Dio ci sostenga nella prova e illumini le menti degli scienziati per trovare presto rimedi efficaci ma dobbiamo pregare che Dio metta fine al contagio. Non pregare significherebbe negare che il Dio creatore non può più intervenire nella sua creazione. Ma questo dipende dalla conversione dei cuori. La fine è tanto in Dio quanto nelle nostre mani.


 

A PROPOSITO DI DIGIUNO EUCARISTICO


Vi confesso che ho riflettuto molto su quanto sta accadendo e sulle sue ripercussioni circa la vita "eucaristica" dei cristiani.

Mi ero ripromesso di rimanere in silenzio per evitare che anche le mie parole aumentassero il chiacchiericcio che forse non ci sta aiutando a discernere questo "segno del tempo" per leggervi il mistero della Volontà di Dio. Se lo faccio ora è perché spinto da due motivazioni. Una, perché l'Eucaristia è segno di comunione e non ci si può dividere e litigare proprio sul fatto di celebrare o non celebrare le messe. L'altra, perché ho trovato in uno scritto dell'allora teologo Joseph Ratzinger la consonanza con quanto mi sono portato dentro nel cuore dall'inizio del divieto di celebrare la messa e perciò ho trovato anche le parole giuste per esprimerlo. Anzitutto sul senso del digiuno eucaristico che da sempre i padri hanno considerato il vero digiuno (più che del cibo e della carne, al punto che in tanti Riti Orientali e nel Rito Ambrosiano il venerdì di Quaresima non si celebra la Messa): noi, a mio parere (dimenticando che Dio non ha legato la sua grazia ai soli sacramenti, come ricordava san Tommaso) abbiamo banalizzato l'Eucaristia, riducendola ad una devozione fra le tante, una pia pratica inserita tra Rosario e Via Crucis e una partecipazione abitudinaria che non coglie più la differenza essenziale tra quella feriale e quella domenicale e forse questo epidemia ci aiuterà a riscoprirla nella sua verità più profonda. E poi perché vi confido che ho sentito fin da subito la necessità di condividere la fame del pane eucaristico con tutti i miei fedeli e gli altri amici cristiani. In tempi normali celebro la messa tutti i giorni, anche da solo, ma il solo pensiero di celebrarla a porte chiuse mi ha fatto star male, come il sentirmi quasi un privilegiato rispetto ad altri che per ora ne restano esclusi. Ecco perché (pur nel rispetto di chi ha fatto una scelta diversa dalla mia) ho scelto di non celebrare nei giorni feriali (la domenica è tutt'altra cosa e la Pasqua domenicale in un modo o nell'altro va salvaguardata) e di farmi carico, nel mio desiderio, del desiderio dei fratelli. Il Signore ci sta facendo vivere il Venerdì Santo della Morte di Dio e il lungo Sabato Santo del suo silenzio e della sua avvertita assenza e credo che, più che addolcire questo "Tremendum Mysterium" con parole di sdolcinata pseudo spiritualità laicale o sacerdotale che sia, dobbiamo avere il coraggio di assumere in noi questa lunga attesa davanti al Sepolcro. Con un solo grido al Custode d'Israele: <<Shomèr ma Mi-llailah?>> Custode, quanto resta della notte?

Certo, questa, per tanti versi, è l'ora delle tenebre: ma sappiamo che più avanzano le tenebre più la luce dell'alba è vicina.

Io prego perché grazie a questa prova risorga la fede assopita, si rinfranchi la speranza di chi è disilluso, ritorni ad ardere la carità nei cuori.

Ora leggete le belle parole di Benedetto XVI e magari pregate per me, come io mi ricordo di voi tutti nelle mie preghiere.

<<In questo contesto mi si impone una riflessione che ha un più forte carattere di pastorale generale. Quando Agostino sentì avvicinarsi la morte, «scomunicò» se stesso, prese su di sé la penitenza della Chiesa. Nei suoi ultimi giorni si pose in solidarietà con i pubblici peccatori che cercano perdono e grazia mediante la sofferenza per la rinuncia alla comunione . Egli volle incontrare il suo Signore nell’umiltà di chi ha fame e sete di giustizia, di Lui, il giusto e il misericordioso. Sullo sfondo delle sue prediche e dei suoi scritti che descrivono grandiosamente il mistero della Chiesa come comunione con il corpo di Cristo e come corpo di Cristo a partire dall’eucarestia, questo gesto ha in sé qualcosa di commovente. Esso mi rende tanto più pensoso quanto più spesso vi rifletto.

Noi, oggi, non riceviamo spesso con eccessiva facilità il santissimo sacramento? Talvolta questo digiuno spirituale non sarebbe utile o addirittura necessario al fine di approfondire e rinnovare il nostro rapporto col corpo di Cristo?

In questa direzione la Chiesa antica conosceva una pratica di grande capacità espressiva: già a partire dall’epoca apostolica il digiuno eucaristico del venerdì santo era frutto della spiritualità comunionale della Chiesa. Proprio la rinuncia alla comunione in uno dei giorni più santi dell’anno liturgico, trascorso senza messa e senza comunione ai fedeli, era un modo particolarmente profondo di partecipare alla passione del Signore: il lutto della sposa alla quale è tolto lo sposo (cfr. Mc. 2, 20) .

Io penso che anche oggi un tale digiuno eucaristico, nel caso fosse determinato da riflessione e sofferenza, avrebbe un notevole significato in determinate occasioni, da ponderare con cura, come nei giorni di penitenza (perché non, ad esempio, di nuovo il venerdì santo?) …

Un tale digiuno … potrebbe favorire un approfondimento del rapporto personale col Signore nel sacramento; potrebbe essere anche un atto di solidarietà con tutti coloro che hanno desiderio del sacramento, ma non lo possono ricevere…

Naturalmente, con questo non vorrei proporre un ritorno ad una specie di giansenismo: il digiuno presuppone una condizione normale del mangiare tanto nella vita spirituale come in quella biologica. Ma talvolta abbiamo bisogno d’una medicina contro la caduta nella semplice abitudine e nella sua assenza di spiritualità. Talvolta abbiamo bisogno della fame — fisicamente e spiritualmente — per capire di nuovo i doni del Signore e per comprendere la sofferenza dei nostri fratelli che hanno fame. La fame tanto spirituale come fisica può essere uno strumento dell’amore>>.

(Joseph Ratzinger)

 

lunedì 18 maggio 2020

FESTEGGIARE IL COMPLEANNO IN QUARANTENA


Mi sono fatto da solo una torta con un rimasuglio di colomba pasquale e le candeline sopra per dire che anche in tempo di epidemia non può mancare il rispetto per noi stessi e che si deve pur continuare a cogliere ogni piccola gioia che la vita ci offre. Ma soprattutto per reagire ad una specie di mainstream che si è diffuso e temo si possa diffondere sempre di più sul modo di vivere questo periodo. Non voglio entrare in polemica con nessuno né entro nel merito dei provvedimenti più o meno appropriati. Ma vorrei andare alla radice. Che è la libertà interiore che ognuno di noi deve avere e conservare al di là di ogni situazione esterna. Io mi sono sentito sempre libero e mi sento libero a casa e fuori. Si può essere liberi in un carcere e prigionieri di se stessi anche nella massima libertà esteriore. Paradossalmente ho visto lamentarsi persone che si sentivano private delle relazioni con lo stare in casa quando per esperienza personale in tempi normali ho sperimentato la loro chiusura e incapacità di relazione e apertura umana. Chi avrebbe impedito loro in tempi normali di avviare percorsi di amicizia e di dialogo? A meno che non ci si lamenti del fatto di non poter uscire perché uscire, più che la ricerca di rapporti, è anzitutto fuga da se stessi, dall'obbligo di pensare, di farsi le grande domande.

Ti lamenti di essere coartato? Ma chi ti impedisce di riflettere? Di pensare? E se credi, di pregare? Anche qui, paradossalmente si lamenta della chiusura delle chiese gente che non proprio faceva la fila le domeniche per venire a messa. Quando anche questo potrebbe essere un modo per recuperare il vero senso dell'esperienza di fede. Nei primi quattro secoli i cristiani non ebbero chiese e in Unione sovietica il cristianesimo è rimasto a dispetto di chiese e icone bruciate. Non lamentiamoci di essere coartati a casa. E magari, se pensi che da un giorno all'altro il prossimo contagiato potresti essere tu, magari approfittane per fare le cose che non hai fatto, dire le cose che non hai detto: abbracciare e dire "ti voglio bene" ai tuoi cari, ai tuoi amici, o magari chiedere perdono... pensieri macabri? No, liberatori, perché umani. Io ieri non potendo far altro ho offerto virtualmente un pezzo di colomba pasquale secca ai miei amici (molti dei quali virtuali) per dire loro semplicemente grazie perché ci siete. Perché il virus passa. Solo l'amore resta.

 



COSA CI LASCERA' L'EPIDEMIA?


Confesso che ho difficoltà ad avviarmi a scrivere queste righe dopo la pausa che ci ha imposto la quarantena. Perché ho paura che, impelagati in questioni che sembrano importanti ma che in realtà spesso sono solo pretestuose,  stiamo perdendo anzitutto una occasione per riflettere seriamente su cosa il virus ha portato allo scoperto. Questa dunque vorrebbe essere una riflessione sulla pandemia che non vuole farsi irretire nella polemica se aprire o chiudere e in che misura aprire o chiudere. Perché vuole andare ad alcune considerazioni spero più profonde.

In primo luogo credo che la pandemia abbia fatto cadere alcune maschere, perché (e io non mi ero fatto illusioni) chi era buono si è rivelato migliore (penso alla generosità e solidarietà di tanti in ogni campo) e chi aveva un animo bacato si è rivelato ancora peggiore.

Perché il problema non è quello che accade fuori, ma come reagisce l’animo umano: come davanti ai miracoli di Gesù: chi credeva aumentava la fede, chi non credeva diventava più incredulo, magari attribuendo i miracoli al diavolo pur di non cedere davanti a Gesù.  

Il problema è l’animo e dal modo in cui si fa interrogare dagli eventi (lieti o tristi).

Infatti, se un frutto positivo dobbiamo cogliere da questa situazione, è che (mi auguro), anzitutto, ci stiamo ricordando che siamo mortali. Che si muore. Che la morte fa parte della vita.

Avrebbero dovuto ricordarlo quelli che in tempi normali volevano nascondere o edulcorare la morte, ad esempio, nascondendo la visione dei nonni morti ai nipotini (che è l'unico modo per elaborare il sentimento della morte pedagogicamente e psicologicamente efficace) o non portandoli ai funerali e, magari, ora, si lamentano perché i morti sono portati senza riti funebri al cimitero. Avrebbero dovuto ricordarlo quelli che fino a ieri hanno propugnato teorie esoteriche e riti new age e neopagani e ora si lamentano perché si vedono recapitare i loro cari in urne cinerarie.

O il virus ti ricorda che sei mortale o sarà un'altra occasione sprecata di migliorare la tua vita. Questa situazione può essere per noi quello che in passato avevano le grandi raffigurazioni dei trionfi della morte. E gli ammonimenti della Chiesa: “ricordati che devi morire, ricordati che polvere sei e in polvere ritornerai!”

Non per fare terrorismo psicologico, ma perché a partire da ciò può scattare l'altra domanda: se devo morire, ha senso attaccarmi a cose che passano,  e lottare per cose che accumulo ma che mi possono essere tolte da un giorno all'altro?

Un mio amico mi ha detto: alla fine ringrazieremo il virus se ci avrà aiutato a riscoprire i veri valori, gli affetti, la famiglia, la solidarietà, il senso del limite umano.

Ammettiamolo, è da un po' che eravamo presi dal delirio di onnipotenza, magari alimentato dalla nuova religione della scienza novella salvatrice dell'umanità. E ora che abbiamo scoperto che la scienza non ha in mano tutte le chiavi della vita?

E magari ora (ri)scopriamo che il senso della vita sta in un orizzonte più ampio che (in qualsiasi modo lo si voglia intendere) per definizione chiamiamo Dio.

Il virus lo si vince ammettendo che non siamo dei. Punto.

Ma per fare ciò bisogna essere onesti intellettualmente e avere l'umiltà di cambiare. Altrimenti avremo perso solo tempo.

Perché il problema non è né il virus né la quarantena. Il problema è la capacità di sapersi mettere in crisi e magari di cambiare il proprio stile di pensare e vivere.

Cambiare.

Non solo per il fatto di abituarci a portare la mascherina. Ma a riconsiderare le grandi scelte di fondo.

Una lezione della pandemia che dobbiamo imparare è che, in ogni caso, abbiamo scoperto che con i vecchi sistemi ideologici (e quindi di vita) non si può continuare.

Sia a livello ecclesiale (si pensi, ad esempio, al vecchio modo di fare pastorale, specie sacramentale che si è rivelato inadeguato e la catechesi ha mostrato tutte le lacune accumulate dagli anni ’70 fino ad oggi, sfornando pseudo fedeli che non hanno retto all’impatto con la secolarizzazione).

Sia a livello civile (si pensi, ad esempio, al ruolo abnorme giocato in questo caso dalle oligocrazie economiche e quindi ad un ruolo che la politica deve recuperare sulla stessa economia, sia al ripensamento del principio di sussidiarietà nello Stato tra centralizzazione e delocalizzazione).

Sia, mi si permetta di fare un esempio riportato alla attenzione in questi giorni, nel rapporto tra Chiesa e Stato, senza riprese di vecchi collateralismi ma neanche subalternità strumentali, ma proprio per recuperare lo spazio di autonomia - non privilegi - che permetta una azione pastorale efficace e completa dove liturgia (il culto e i sacramenti), evangelizzazione (l’annuncio della Parola in tutte le sue forme) e servizio (la vicinanza ai piccoli e ai poveri) devono stare necessariamente insieme. Richiamare lo Stato ad una sana laicità è la garanzia perché la Chiesa continui a dare a Cesare quello che è di Cesare ma a Dio quello che è di Dio: in fondo era questo il richiamo della CEI al Governo, letto purtroppo solo come protesta per la riapertura delle chiese, quasi come rivendicazione sindacale; ma la Chiesa non può accettare di essere ridotta ad un club di volontariato che si occupa di distribuire viveri e aiuti, né i preti possono essere ridotti ad assistenti sociali, se poi non si dà modo di poter annunciare il Vangelo e amministrare i sacramenti.

Direi che siamo chiamati ad un impegno quasi da nuova “costituente”, sia a livello nazionale che, per non allargarci troppo, a livello europeo (visto la brutta immagine che la vecchia Europa sta dando di sé).

E’ certo, infatti, che si devono ripensare non solo il sistema sanitario ma anche il sistema scolastico ed educativo e il ruolo della famiglia.

Cioè si deve partire da un ruolo pedagogico e formativo che, giocando a rimpallino tra scuola e famiglia, ad esempio, alla fine non ha assolto più nessuno. Col risultato che abbiamo davanti a noi nuove generazioni non solo ignorantissime, ma anche fragili, vuote e inconcludenti.

Tutti inneggiano al grande modello della democrazia ateniese, dimenticando che lo stesso statuto politico e l’ideale di libertà erano solo le premesse per la realizzazione di una personalità armonica (mente e anima, corpo e spirito) e completa in tutte le sue dimensioni. Quello che i greci chiamavano “paideia”.

E in ciò una collaborazione tra Stato e Chiesa (ma direi Chiese, anzi, Religioni) in Italia è fondamentale e necessario (ma direi anche in Francia e in Spagna dove un malinteso laicismo ha esinanito questa collaborazione). E ciò a partire dalla riconsiderazione del ruolo essenziale che la religione, in qualsiasi modo venga intesa, svolge nella vita dell’uomo. Ma ciò può avvenire a partire da un recupero di una corretta antropologia. Mi azzarderei a dire che abbiamo bisogno di un nuovo umanesimo, se non fossi consapevole che nel nome di nuovi umanesimi si sono sacrificati milioni di vite umane, sotto ogni latitudine e ogni bandiera. Perciò mi limito a dire che abbiamo bisogno di una visione dell’uomo che renda ragione di tutte le sue componenti. Che se l’uomo è solo un tubo digerente (come ancora pensano i nipotini di Feuerbach, e qualche strabico destrorso o sinistrorso che sia) capisco la sorpresa di quelli che si meravigliano di chi si è lamentato che i supermercati rimanevano aperti e le chiese no. C’è chi ha scritto infatti che di mancanza di cibo si muore, senza pregare non si muore. E’ la riprova, questa, di quanto materialista di fatto sia diventata la nostra società sazia e opulenta. E non mi stupisco che i morti siano stati avviati agli inceneritori come qualsiasi altro rifiuto organico. Tranne poi aprire numeri verdi e centralini di consulenza psicologica per aiutare le persone a superare la depressione che, lo ripeto, è venuta fuori non tanto per mancanza di soldi, quanto perché abbiamo scoperti che il re è nudo, o meglio ancora, ci siamo scoperti con le vergogne di fuori come Adamo ed Eva dopo il loro delirio di onnipotenza nel volersi mettere al posto di Dio e stabilire loro ciò che è bene e ciò che è male. Non è questo il peccato di origine che è venuto fuori? Abbiamo chiamato bene ciò che è male (non è così per aborto, eutanasia, eugenetica? Ripensate all’idea abnorme che col virus gli anziani si potevano anche non curare e far morire…). Abbiamo falsificato non solo e le misure e i pesi delle bilance, per dirla con Isaia, ma le nostre stesse vite giocando il gioco delle tre carte tra essere-avere-apparire.

Nonostante tutto non sono qui a paventare esiti tragici della storia, ma dato che, come mi ripete sempre un mio amico prete, sono un inguaribile ottimista, sono dell’idea che abbiamo ancora un margine (perché c’è sempre un margine) di risorse umane e spirituali per poterci riprendere la vita in mano. Lo spero. Per noi. Perché è la vera eredità da lasciare alle generazioni future.

 

 

sabato 8 febbraio 2020

BENIGNI IL FURBETTO CHE SFRUTTA L’IGNORANZA DELLA GENTE

L’operazione fatta da Benigni, nel presentare il Cantico dei Cantici a Sanremo, è una azione da rigettare con tutte le forze, ma non per quello che potrebbe sembrare a prima vista, cioè lo scandalo di aver citato scene a forte connotazione erotica: queste ci sono ed è innegabile e, diciamolo subito, né la tradizione ebraica né la susseguente tradizione cristiana ha mai cercato di negarlo o di nasconderlo, come il nostro furbetto insinua (altrimenti non avremmo avuto una santa Teresa d’Avila o un San Giovanni della Croce, se la Chiesa avesse censurato la cantica biblica per eccellenza!).

Solo chi non conosce la Bibbia si sarà meravigliato di questo: perché ci sono altri passi in cui il linguaggio dell’autore è altrettanto “spudorato” per franchezza e plasticità di immagini.

Si veda ad esempio il rimprovero che Dio fa al suo popolo tramite il profeta Ezechiele quando rimprovera Israele, immaginata come una promessa sposa infedele, che rimpiange i maschi di Egitto perché hanno il loro membro come quello degli asini e montano con la foga degli stalloni (Ez 23,20).

Ma è qui il punto: che la lettura del rapporto tra Dio e il suo popolo come un rapporto tra sposo e sposa è già insita nella Bibbia a partire da tutta la tradizione profetica (si veda Ez 16 ma anche Isaia, Geremia,Osea e tanti altri) e non è una operazione di rivestimento censorio operato dopo dai rabbini o dai preti in un secondo momento!

E’ proprio per questa dimensione simbolica che rabbi Akiba nel primo secolo dimostrò che il Cantico ha un posto, e preminente, nella sacra Scrittura.

E la valenza simbolica sta proprio nel suo essere anzitutto il richiamo ad una esperienza reale, vera, e qui aggiungo, umana. Lo dice anche a chiare lettere il protestante Bonhoeffer.

D’altronde non potrebbe essere altrimenti per una esperienza, quella dell’amore sponsale di coppia tra marito e moglie, anche e proprio nella sua dimensione carnale (“e i due saranno una carne una”) che Dio ha benedetto fin dalla creazione e a cui la Chiesa lungi dal censurare riconosce talmente un valore sacramentale (cioè simbolico) da dichiarare nulle quelle nozze dove non c’è stata consumazione sessuale!

E immaginate: la Chiesa ha così censurato il Cantico da farlo proclamare come prima lettura nel rito del matrimonio e la Sinagoga ha così censurato il Cantico da farlo leggere nel giorno di Pasqua!

E sarebbe ora di dire che il cristianesimo non ha paura della carne, anzi: la amiamo talmente da credere che il Dio si sia incarnato e da proclamare la resurrezione della carne e non la sola immortalità dell’anima! Chi pensa alle belle anime e non ai corpi non è cristiano, è gnostico: che lo si sappia.

Ecco perché l’operazione di Benigni è subdola (e ha fatto bene Diego Fusaro a rilevarlo): perché ha voluto insinuare che la Chiesa è la solita oscurantista di sempre, che nega la bellezza dell’amore sponsale. E il nostro comico lo ha fatto fra l’altro suggerendo di stare leggendo da un testo che non sarebbe quello contenuto nelle edizioni ufficiali! Ma sarei curioso di sapere a quale ur-redaktion, redazione originale primitiva extrabiblica lui si riferisca, quando il testo (masoretico ebraico, traduzione greca dei LXX, Vulgata latina) è disponibile in tutte le librerie! E di grazia, converrete che il proclamare in chiesa o in sinagoga traduzioni poetiche e non letterali (evitando di parlare dall’ambone di peni, testicoli e monti di venere) è solo questione di estetica e di buon gusto e non certo operazione censoria!

Ma per me, lo scandalo più grave è ancora un altro: che pur di addossare tutte le colpe alla Chiesa Benigni ha strappato il Cantico al suo legittimo proprietario che è Israele, e vi dico il perché. Perché è lui, si lui, che ha invece ha censurato il testo: perché l’invito della bella Sulamita ad aiutarla a cercare lo sposo non è rivolto genericamente a “figlie”, ma l’invito è rivolto alla “figlie di Gerusalemme”, cosa che lui ha deliberatamente omesso tutte le volte che ha citato il testo.

E in questa omissione sta il peccato più grave: decontestualizzando il Cantico dal popolo che lo ha espresso (ma d’altronde, dicendo che leggeva da un testo extra biblico più antico, lo aveva già strappato dalla Bibbia), ha reso così un canto, espressione della più alta spiritualità biblica (e quindi espressione della fede secondo la tradizione ebraica prima e cristiana dopo), un inno generico all’amore che, con un po’ di impegno un bravo poeta avrebbe potuto fare: ridotto così cosa c’è di diverso tra una poesia di Baudelaire o una di Garcia Lorca dal Cantico?

Ma siamo in fondo al vero punto in questione: l’operazione più subdola ancora, quella di insinuare che il cantico inneggia all’amore, ad ogni tipo di amore (sponsale, efebico, saffico).

Comprendetemi: non si tratta in questa sede di dare un giudizio morale su cui qui non voglio entrare, ma anzitutto di rilevare una scorrettezza di metodo, esegetica.

Benigni doveva qui dire, necessariamento che il Cantico dei cantici narra la storia di un fidanzato e di una fidanzata innamorati: per onestà, come per onestà io debbo dire che dal balcone di Verona si affacciava una Giulietta che spasimava per il suo Romeo (e non posso parlare di due Giuiette o di due Romeo). Punto.

Che se poi voleva cogliere l’occasione per parlare l’amore omoerotico tra maschi (non mi risultano seguaci della poetessa di Lesbo nella Bibbia) poteva citare la storia di Davide e Gionata (perché nella Bibbia c’è pure questo e nessuno ha mai avuto timore di ammetterlo) ma non il Cantico.

E ripeto, qui la morale non c’entra (né tanto meno, per favore, si tirino in ballo omofobia e simili), ma solo il dato oggettivo di quello che è il racconto, la trama del Cantico dei cantici.

Certo, Benigni fa furbescamente il suo mestiere e strizza l’occhio ai suoi ascoltatori, ma quello che mi preoccupa è come sia facile abbindolare le persone sfruttando la loro ignoranza e giocando sui sentimenti e oscurando l’intelligenza (ma come anche facilmente la gente si lascia abbindolare).

Questo è pericoloso. Non solo per la fede. Ma anche per la democrazia e il dialogo che si basano sul rispetto della persona e l’onesta intellettuale per rigettare con forza ogni tipo di manipolazione.

Per questo temo questi applausi a scena aperta, ma anche il silenzio di chi dovrebbe parlare eppure tace, atei o cristiani o ebrei che siano.

giovedì 6 febbraio 2020

INCONTRARE CRISTO OGGI: 4. INCONTRARE CRISTO NEL PECCATORE


·         Gesù, facendosi incontrare nel fratello (cfr. <<ogni volta…l’avete fatto a me>>) ci rivela sempre un aspetto di se stesso: es. povertà, umiltà…=> ma come riconoscere Cristo nel peccatore? cosa ci rivela di se stesso?

<<sembra infatti che il peccatore abbia una natura tale che Cristo, assolutamente, non possa assumerla in sé>>[1]: non è lui il senza peccato?

=> la vicinanza di Cristo ai peccatori fa scandalo:  <<Costui riceve i peccatori e mangia con loro>>! <<non si accontenta di rivolgere loro sermoni e prediche>>[2]

=> <<E’ così evidente la sua amicizia per chi commette peccato che la sua amicizia coi santi sembra, al confronto relativamente ridotta; “Non sono venuto a chiamare i giusti” egli dice “ma i peccatori”>>

cfr. la dracma perduta; la pecorella smarrita; il figlio ribelle; cfr. il buon ladrone; Maddalena; Giuda “Amico”; cfr. Levi, Zaccheo…

·         Quale lezione ci da Cristo? come leggere la sua identificazione col peccatore? <<Colui che non conobbe peccato si fece peccato>> (2 Cor 5,21)

=> nell’incarnazione, assumendo la natura umana, ha assunto in se ogni uomo, anche il peccatore: <<Cristo è ancora presente nel peccatore nonostante il peccato: se fosse sufficiente il peccato per scacciare Cristo dal peccatore, potremmo lasciarlo perdere…è un uomo in uno stato di prova e a lui il nostro e suo salvatore è ancora legato tramite un misterioso e reale vincolo di unità>>[3]: non spezza la canna incrinata né il lucignolo fumigante!

=> <<Dunque c’è Cristo vivo sotto le spoglie di un uomo che lo ha rifiutato>>[4]

·         l’amore per i peccatori è il più grande atto di carità cristiana

Come fare? riconoscere nel peccatore il Cristo che grida <<ho sete>>!

=> <<se ci limitiamo a discutere col peccatore, oppure se unica nostra risposta a lui è il nostro rifiuto, il nostro rapporto con lui non soltanto sarà inutile, ma ancor peggio gli sarà dannoso>>[5]

=> <<Eppure come è penoso vedere quanto i cristiani siano lontani dall’agire in questo modo! e non comprendono neppure la necessità di agire in questo modo.

E’ troppo facile convincere un uomo ad assistere a una funzione liturgica… dove si onora il Signore nel Sacramento dell’altare, dove si rivive la sua figura nel sacerdote… è facile riconoscerlo nella figura grandiosa di un santo…E’ difficile, invece, convincere un uomo a mettere mano a un’opera tutta circondata di disonore. …

Siamo terribilmente disposti a tenerci stretta la nostra fede abbandonando i peccatori a se stessi; teniamo le finestre chiuse, facciamo qualche cinico apprezzamento e dimentichiamo, così che l’attenzione alla domanda nascosta dei pagani e dei pubblicani è attenzione al Signore, a colui che diciamo di voler servire offrendogli quell’amicizia che egli da noi desidera. …

Tutta la devozione del mondo verso l’ospite dell’ostensorio e tutta l’adorazione del mondo per quel fanciullo puro, tra le braccia di una madre pura, sono nulla, se non contengono pietà per e anime che disonorano Cristo: dietro la miseria e la morte dei loro peccati sta, infatti, quel Cristo che è sacramento eucaristico, che dorme nella culla di una stalla, che ci chiama in suo aiuto.

Ed è opportuno ricordare, infine, che, se abbiamo pietà del Cristo nel peccatore, sapremo avere pietà anche del Cristo che è in noi>>[6]

Ø    <<In una parola: dobbiamo fare con il peccatore tutto il possibile, così come il Signore fa con noi ogni volta che perdona il nostro peccato. Perdonare il peccato compiuto, così come speriamo che il Signore perdoni il nostro: ecco il nostro lavoro>>.[7]



[1] BENSON, L’amicizia di Cristo, p. 85.
[2] BENSON, L’amicizia di Cristo, p. 86.
[3] BENSON, L’amicizia di Cristo, p. 88.
[4] BENSON, L’amicizia di Cristo, p. 89.
[5] BENSON, L’amicizia di Cristo, p. 89.
[6] BENSON, L’amicizia di Cristo, p. 91.
[7] BENSON, L’amicizia di Cristo, p. 89.

mercoledì 8 gennaio 2020

INCONTRARE CRISTO OGGI: 3. INCONTRARE CRISTO NELL’UOMO QUALSIASI


<<Ogni volta che avete fatto queste cose a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a me>> (Mt 25)

=> il prossimo come “vicario” di Cristo!
Ø  <<quando, Signore?...>> esplicitazione della “simpatia naturale” e sua elevazione a vero e proprio atto di culto: <<Amerai il Signore… amerai il prossimo tuo…>>.
Ø  chi non accetta il secondo comandamento di fatto non accetta neanche il primo: cfr. prima lettera di Gv: <<chi dice di amare Dio e non ama il fratello è un bugiardo>>.
Ø  trascurando i diritti del prossimo si violano i diritti di Dio: e non si può addurre a giustificazione il fatto che la figura storica di Cristo ha attirato il nostro culto. [1]

=> nel prossimo c’è lui, Cristo:
Ø  in ogni uomo che mi pensa
Ø  nella bocca di ogni uomo che mi parla
Ø  negli occhi di ogni uomo che mi guarda
Ø  negli orecchi di ogni uomo che mi ascolta

=> incontrare Cristo nell’uomo qualsiasi significa saperlo incontrare sempre!
Ø  incontrare Cristo in noi, nella Chiesa e nei sacramenti e in ogni uomo: l’una cosa invera l’altra!

=> due pericoli da superare:
1.      l’estetismo della religiosità[2]: <<Non chi dice Signore Signore…>> (Mt 7,21)
<<Un esempio: io sono portato ad adorare con facilità Cristo nel tabernacolo; allora è necessario che mi chieda: “In forza di questo, trovo più facile il servizio a Cristo nel mio prossimo?”>>[3] Se la risposta è negativa vuol dire che mi dico che sto coltivando la mia amicizia con Cristo ma in realtà coltivo solo una mia illusione.
2.      l’amor proprio e lo scandalo della propria umanità[4]: <<nonostante questa mia sciatta banalità, Cristo mi soppporta, mi tollera e dimora in me… Allora diventa più facile capire come Cristo possa nascondersi anche dietro la faccia del mio vicino poco simpatico: infatti non potrei mai essere così convinto della sua indegnità così come lo sono della mia>>.

=> Incontrare Cristo nei più piccoli e nei poveri:
Cristo è presente in ogni prossimo ma in particolare è presente
Ø  nei piccoli
Ø  nei poveri
Gli anawim Adonai: le situazioni di indigenza fisica e spirituale insieme
Ø  gli indifesi
Ø  gli emarginati, gli scarti
Ø  i diversi
 cfr. L’incarnazione e la povertà del Cristo come luogo teologico per cogliere il mistero del Dio-con-noi e la sua condivisione della sorte umana: S. Paolo, Inno ai Filippesi.

=> l’immedesimazione come stile della vita di Cristo e dei Cristiani

Ø   


[1] BENSON, L’amicizia di Cristo, p. 95.
[2] BENSON, L’amicizia di Cristo, p. 97.
[3] BENSON, L’amicizia di Cristo, p. 98.
[4] BENSON, L’amicizia di Cristo, p. 99.

INCONTRARE CRISTO OGGI: 2. INCONTRARE CRISTO NELLA CHIESA



La conformazione a Cristo nel battesimo è contemporaneamente
Ø  personale
Ø  comunitaria
=> Chiesa “corpo di Cristo”: cfr. San Paolo
Riconoscere Cristo in noi e vivere la vita nuova nello Spirito significa:
Ø  uscire dalla autoesaltazione orgogliosa del sé: <<i cristiani che insistono troppo sulla santità della vita interiore sono i meno disposti a capire qualcosa in materia religiosa>>.[1]
Ø  uscire dall’individualismo anche religioso: <<Io possiedo Cristo nel mio cuore – sostiene qualcuno – di che altro posso aver bisogno? Ho Dio dentro di me! Perché dovrei darmi da fare per cercarlo fuori di me? Conosco Dio: che mi importa di ciò che sta attorno a lui?>>[2].
Ø  inserirsi nella dinamica della comunione ecclesiale: <<Chi lo chiama amico nel sacramento della comunione e possiede poi una devozione così ristretta e meschina da non riconoscere Cristo nel corpo mistico, là dove egli ha stabile dimora, nel luogo dal quale egli rivolge il suo sguardo al mondo (del resto, chi è soltanto uomo pio e individualista non sa percepire la fede come socialità, che è la vera natura del cattolicesimo)… non potrà mai raggiungere l’intimità e la conoscenza di questo amico ideale>>[3].
=> Per superare un’apparente contraddizione: Cristo e con l’uomo battezzato e gli parla; eppure spesso difficilmente riesce a distinguere se quella che intuisce sia la voce di Cristo o solo un’isitntività diabolica. C’è solo un modo per superare questa difficoltà, perché non c’è solo un modo della presenza di Cristo su questa terra: tanto è nella intimità del singolo, quanto nella voce del suo corpo mistico che è la chiesa.[4]
Ø  l’uomo non può trovare la pienezza dell’amicizia con Cristo solo nella propria intimità
Ø  soggettività personale e oggettività della rivelazione di Cristo debbono stare insieme: è l’esperienza del cattolicesimo (diversamente dal soggettivismo protestante)
=> La Chiesa è Cristo stesso
Ø  bisogna entrare in amicizia con la Chiesa con umiltà, semplicità, ubbidienza: <<Non esiste sapienza maggiore di quella che pensa in sintonia con il corpo di Cristo>>.[5]
=> Incontrare Cristo nella membra della Chiesa
Ø  Incontrare Cristo nel sacerdote. Il sacerdote, un uomo come gli altri ma che rende presente ciò che annuncia tramite i sacramenti: <<Cristo è presente nel sacerdote come non lo è neppure nel più grande dei santi, come non lo è neppure nell’angelo più vicino a Dio>>.[6]
Ø  Incontrare Cristo nel santo. I santi sono il riflesso della santità di Cristo. Separare Maria e i santi da Cristo: una comprensione errata dell’amicizia con Cristo nel suo corpo mistico!
Ø  Incontrare Cristo nella membra del corpo mistico. La comunità e la comunione ecclesiale “pneumatica” e non “psichica”[7]: unità, pluralismo, complementarietà.
Ø  Incontrare Cristo nella vita della comunità: ascolto della Parola, Eucaristia, preghiera, vita fraterna, condivisione.





[1] BENSON, L’amicizia di Cristo, p. 61.
[2] BENSON, L’amicizia di Cristo, p. 60.
[3] BENSON, L’amicizia di Cristo, p. 18.
[4] BENSON, L’amicizia di Cristo, p. 63.
[5] BENSON, L’amicizia di Cristo, p. 67.
[6] BENSON, L’amicizia di Cristo, p. 74.
[7] cfr. BONHOEFFER D., La vita comune.

INCONTRARE CRISTO OGGI: 1. INCONTRARE CRISTO IN NOI


A) Il punto di partenza: <<esaminate (letteralmente: mettete alla prova) voi stessi se siete nella fede: o non riconoscete Cristo in voi?>> (2 Cor. 13,5)
Cfr Benson[1]: una fede non piena nasce dalla mancanza di coscienza del profondo significato dell’incarnazione.
“Cristo in noi”: come intenderlo? Egli è l’Emmanuele: il Dio-con-noi
- dimensione storica: <<venne fra i suoi…>> (Gv 1)
- dimensione sacramentale: il battezzato “conformato a Cristo per mezzo dello Spirito”
- dimensione spirituale: Cristo “nel cuore” di ogni battezzato

B) la rivelazione che Cristo fa di se stesso nella intimità del credente:
- si presenta come amico[2] = cfr. Cantico dei Cantici: <<il mio amico è per me e io sono per lui>>
- Cristo è colui che mi conosce => mi accetta => mi ama così come sono
- cfr. Cabasilas[3]: Cristo rende la mia vita umana / nuova / migliore
- Come riconoscere Cristo in noi?
     Smascherare gli inganni: tra come Cristo è e come noi pensiamo che sia
     superare le il-lusioni e le de-lusioni
     uscire dalla emotività: “monotonia della pietà”
     purificazione dello sguardo: andare al di là delle apparenze
     svuotamento di sé: anche dal peccato: cfr. San Girolamo e la ricchezza del suo peccato!
     permettere a Cristo di conoscerci così come siamo realmente
 - Cristo si riconosce nell’esperienza della grazia, cioè del perdono!

C) la vita cristiana:
esperienza in noi dell’amore/grazia di Dio per mezzo di Cristo e per opera dello Spirito Santo.
- Cristo mi dona lo Spirito: cfr Paolo = i frutti dello Spirito: bontà, mitezza, pazienza… => per vivere nello stile delle Beatitudini
- Lo Spirito mi arricchisce coi suoi doni
- Lo Spirito trasforma i talenti naturali in carismi: doni per l’edificazione della Chiesa
- Lo Spirito mi aiuta a saper discernere la vita nuova: la buona e la cattiva tristezza e la buona e la cattiva gioia di fronte al dolore e al piacere
- Lo Spirito ci infonde la carità di Cristo per renderci conformi a lui
=> imprime “l’immagine di Cristo in noi”
=> <<non sono più io che vivo ma Cristo vive in me>> S. Paolo
=> “io non più io”.
- Carità: amore di benevolenza / gratuità / grazia => “Dio è amore” (S. Giovanni) => l’amore del Padre rivelato dal Figlio ed effuso nei nostri cuori per mezzo dello Spirito Santo

D) Coltivare la presenza di Cristo in noi
- Memoria incessante della presenza di Cristo in noi => cfr. preghiera del cuore[4]
- Vita di grazia tramite i sacramenti


[1] BENSON, L’amicizia di Cristo, p. 14
[2] BENSON, L’amicizia di Cristo, p. 24
[3] CABASILAS, La vita nuova in Cristo
[4] Racconti di un pellegrino russo

IO ACCUSO…

Tra epidemia e calura estiva è passato sotto silenzio un importante responso della Congregazione della Dottrina della fede e approvato in pr...