Il libro di Leo Scheffczyk, Il mondo della fede cattolica. Verità e forma, Milano, Vita e Pensiero, pp. 424, € 25.00, è in libreria da martedì 21 ottobre 2007, stampato dall’editrice dell’Università Cattolica del Sacro Cuore, ed è la traduzione italiana di un volume il cui originale, in lingua tedesca, è del 1977.
Scheffczyk, tedesco, scomparso nel 2005, fu teologo e poi cardinale, insignito della porpora da Giovanni Paolo II nel 2001, su consiglio dell’allora cardinale Joseph Ratzinger, che di Scheffczyk aveva profonda stima.
Leo Scheffczyk e il giovane Ratzinger si conobbero quando erano studenti di teologia. E poi si tennero in contatto come docenti, il primo a Tubinga e l’altro a Bonn.
Ma si frequentarono soprattutto come membri della commissione dottrinale della Conferenza episcopale tedesca, istituita dopo il Concilio Vaticano II.
Ancora più stretta fu poi la collaborazione tra l’allora Prefetto della Congregazione della dottrina della fede e il nostro autore.
Ed è significativo il fatto che il libro si apra con un’intervista a Benedetto XVI in ricordo di Leo Scheffczyk, di cui si delineano le qualità umane, sacerdotali e teologiche, riassumibili nel suo umile ma coraggioso sentire sempre “cum Ecclesia” al cui servizio ha messo tutte le sue risorse spirituali ed intellettuali.
Pur avendo alle spalle una vasta carriera di insegnamento e di produzioni scientifiche, Scheffczyk fu una persona che scelse per la sua vita un “taglio basso”, uno stile umile e riservato, senza la ricerca di riconoscimenti mondani ed ecclesiastici.
Un merito riconosciuto da tutti è il fatto di essere stato schivo e lontano da ogni specie di carrierismo sia in ambito universitario che in ambito ecclesiastico.
Diverse le materie studiate da teologo, ma certo un tratto distintivo del nostro autore è sicuramente dato dalla volontà di ricercare e mantenere sempre il “proprium” della fede cattolica nel fecondo rapporto con la Tradizione vivente della Chiesa.
Ingenerosa, infatti, appare per lui l’etichetta di “conservatore”, quando proprio lui stesso vuole <<rivendicare per se stesso di non stare né a ‘destra’ né a ‘sinistra’, ma semplicemente di andare avanti, proseguendo lungo la strada che la stessa Chiesa cattolica ha fin qui percorso>> (p. XLI).
Anzi, va sottolineato il tentativo equilibrato, ad esempio in ambito ecclesiologico, di esprimere tutta la ricchezza delle formulazioni del Concilio Vaticano II nella continuità con tutta la Tradizione della Chiesa.
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Il libro, introdotto da un ritratto biografico-teologico a cura di P. Johannes Nebel, si apre con una Prefazione dell’Autore in cui è indicata la finalità dell’opera, che in un’espressione sintetica può essere racchiusa in questa motivazione: la ricerca dell’identità cattolica, quale un modo specifico e caratteristico di vivere l’appartenenza ecclesiale e la stessa fede cristiana.
La riflessione parte da una constatazione: essendo il cristianesimo anzitutto una esperienza vitale, un evento vissuto nell’hic et nunc della storia, lo studio del cristianesimo non potrà mai essere fatto su teorizzazioni astratte di questo, ma sempre a partire dalla sua concretizzazione storicamente oggettivata.
Ora, queste concretizzazioni, di fatto, non sono altro che le diverse confessioni cristiane.
Realisticamente, infatti, l’autore parte dalla esistenza oggettiva non di un cristianesimo astratto, ma di un cristianesimo che si invera - o che almeno ha la pretesa di inverarsi - nelle varie confessioni cristiane così come storicamente si sono concretizzate (tralasciando per ora la domanda di quanta “verità” cristiana ci sia nelle singole confessioni cristiane). Non c’è, infatti, storicamente parlando, un modo “cristiano” sic et simpliciter di vivere oggi il cristianesimo, bensì un modo cattolico, ortodosso, protestante (nelle sue derivazioni) di vivere l’esperienza di fede cristiana.
Di conseguenza, l’autore afferma:
<<Ne deriva che è possibile analizzare e comprendere il cristianesimo solo se è qualcosa di concreto, il che è possibile solo assumendo una dimensione confessionale. Per questa ragione, sebbene ciò possa apparire insoddisfacente, anche oggi è possibile parlare soltanto di cristianesimo protestante, ortodosso oppure cattolico>> (p. 15).
Solo nella comprensione di questo dato oggettivo ci si può successivamente domandare se l’esperienza cattolica o protestante od ortodossa siano solo diverse modalità ugualmente valide ed equivalenti di vivere il cristianesimo o se l’essenza stessa del cristianesimo possa dirsi salvaguardata in modo pieno ed oggettivo in una data confessione cristiana.
E’ chiaro, certo, che per il nostro teologo la risposta sarà che ciò avviene pienamente solo nel cattolicesimo, ma non ne vuole dare una definizione aprioristica, quanto fare un cammino che risalga empiricamente dalla forma concreta del cattolicesimo alla essenza stessa del cristianesimo.
L’autore ipotizza inoltre che, non dandosi storicamente la possibilità di un cristianesimo astratto da qualsiasi concretizzazione confessionale, allora deve essere possibile risalire dalla <<concretizzazione del cattolicesimo (nella Chiesa), per cogliere, a partire da qui, l’essenza del cristianesimo, inteso come realtà vivente e come forma concreta>> (p. XXXIX).
Ed è quanto in questa sua opera egli cerca di fare.
Il fine dell’operazione è chiaro, il recupero dell’identità cattolica, e non tanto per una prospettiva intellettualistica solamente, quanto per rispondere ad un’altra domanda di fondo: è possibile ancora oggi proporre l’esperienza cattolica come esperienza di fede? E più in profondità, è possibile proporre ancora oggi al mondo l’evento cristiano? Perché, se ciò è possibile, vuol dire che il cattolicesimo ha ancora nel mondo un futuro e un ruolo da giocare! Altrimenti significa che ogni sua pretesa è finita!
L’opera intende dunque mostrare anzitutto quali siano i caratteri distintivi del cattolicesimo, non tanto in una forma teoretica astratta, quanto invece a partire dal vissuto ecclesiale: ecco perché, più che parlare di dottrina cattolica, parla di “Mondo della fede cattolica” in cui la “verità” cattolica non è intesa come qualcosa di avulso dalla vita ecclesiale stessa ma diventa la “forma” in cui si coagula e si vive l’esperienza cristiana. E’ questo il senso del titolo che richiama dunque ad una sorta di <<ricognizione fenomenologica>> (p. XL), come la definisce l’autore, del Cattolicesimo, per coglierne poi l’essenza stessa, attraverso un metodo che parta dall’esperienza della fede vissuta-celebrata-pensata nel solco di quella Tradizione che non è solo un bagaglio del passato, quanto <<un processo di trasmissione vivente e un progredire verso il futuro>>(p. XLI).
La spinta a compiere un’operazione del genere è stata data all’Autore dalla constatazione che in ambito cattolico ci sia oggi nella delineazione del cattolicesimo <<una certa ritrosia nel metterne in evidenza il significato confessionale>>: se infatti sono tante oggi le opere di teologi cattolici che cercano di definire l’essenza del cristianesimo, in queste opere non si arriva poi a dare una chiara definizione di ciò che è il carattere specifico del cattolicesimo, anzitutto per un fraintendimento di base, che fa <<presupporre, semplicemente, che il vero cristianesimo porti con sé necessariamente anche il carattere del cattolicesimo>> (p. XXXIX): ma in definitiva questo non arriva a spiegare poi perché un uomo che approdi al cristianesimo debba scegliere di viverlo in un’esperienza ecclesiale confessionale piuttosto che in un’altra!
E sempre che questo fatto non sia già la manifestazione o di un certo indifferentismo verso le singole confessioni cristiane – equiparandole in pratica nella loro valenza salvifica (quello che è definito una sorta di “cristianesimo vago” a p. 15)– oppure la manifestazione di una mentalità che crede possibile, secondo il famoso slogan “Cristo si, Chiesa no”, il poter attingere all’esperienza salvifica di Cristo (in qualunque modo venga intesa) senza passare dalla mediazione ecclesiale (cfr. ad esempio l’esame del tentativo dell’idealismo di staccare Cristo dalla Chiesa fino ad arrivare a staccare il Cristianesimo dallo stesso Cristo storico: p. 97!).
Ricerca dunque dell’identità cristiana e ricerca dell’identità cattolica stanno qui in un rapporto inscindibile in cui l’una non può essere data (pensata e vissuta) senza l’altra.
Tale ritrosia a mettere in evidenza la specificità del cattolicesimo è attribuita poi dall’autore ad una sorta di paura del cattolicesimo stesso di manifestare la propria “diversità” (p. XL) rispetto a tutte le altre proposte di fede: in un mondo che tende all’omologazione e all’uniformità, il marcare con forza le proprie caratteristiche è inteso non come atto positivo di manifestazione di identità ma come atto negativo di connotazione di una ”specificità” che rifugge dal volersi adeguare ai parametri mondani e perciò guardato con sospetto, appunto come “di-versità”, inaccettabile.
La manifestazione della propria identità è sentita, infatti, oggi dalla cultura secolarizzata, quasi come la manifestazione della volontà di respingere qualsiasi incontro e dialogo con l’altro, come se il dialogo e l’incontro fosse possibile realizzarli solo in un ambito così indistinto ed amorfo in cui, a forza di decolorare e deconnotare ogni identità specifica si finisce per cadere in quella “notte nera in cui tutte le vacche sono nere”.
In dichiarata controtendenza (p. XL) l’autore è convinto, invece, che un dialogo sia intraecclesiale (tanto all’interno stesso del cattolicesimo quanto nel dialogo ecumenico con le altre confessioni cristiane), sia extraecclesiale (nel rapporto con le altre religioni e con i non credenti) debba nascere sempre dalla chiara e dichiarata consapevolezza della propria identità da parte dei singoli interlocutori (p. 23).
Poiché il dialogo può essere fatto solo nella verità, la consapevolezza della propria identità è il frutto di questo porre al centro anzitutto la questione della verità su se stessi(pp. 21-22).
Così <<un vero ecumenismo può crescere solo nella consapevolezza del significato della propria natura e del proprio valore. Colui che non è consapevole della propria identità, non può portare all’unità che tanto desidera alcun apporto realmente suo e specifico>> (p. XL).
Ugualmente, nel rapporto con il mondo non cristiano, <<in un tempo in cui la vita della Chiesa, nella gioia della sua proposta al mondo, finisce per entrare in una sorta di “mercato delle possibilità umane”, la consapevolezza dell’essenza profonda del cattolicesimo non può essere considerata irrilevante>>.
Se dunque la possibilità del dialogo ecumenico e del dialogo con le altre religioni e con il mondo è data dalla consapevolezza della propria identità, allora la ricerca del proprium cattolico, quale ricerca del centro unitario capace di dare senso alla totalità cattolica dell’esperienza cristiana è anzitutto un impegno prioritario.
Impegno da cui deve scaturire il primo frutto di una voce univoca e non equivoca - come espressione di un cum-sentire dei molti nell’unica fede cattolica e perciò come espressione dell’identità cattolica - nel dialogo con gli altri, se vero dialogo ci deve essere.
Quindi, se l’una vox della confessione di fede è il primo impegno della ricerca e dell’espressione dell’identità, ad esempio, nel dialogo ecumenico <<l’unità all’interno della propria confessione e della propria Chiesa deve precedere ogni sforzo di riunificazione con le altre realtà confessionali ed ecclesiastiche>> (p. 22).
Questo impegno è sentito dallo Scheffczyk come prioritario anzitutto per la Chiesa cattolica.
Oltre al problema del dialogo, la ricerca dell’identità cattolica è resa poi necessaria
dal fatto che del cattolicesimo esistono oggi interpretazioni parziali e fuorvianti (cfr. l’analisi alle pp. 6-31): si pensi alla riduzione della Chiesa a pura agenzia di beneficenza o come ad un “deposito” mondano di “valori”…per la società;
dalla supina accettazione, da parte dello stesso pensiero cattolico, di queste griglie di interpretazione esterne, così che il cattolicesimo <<di fronte al mondo si trovi a dover sottostare, pressoché in modo esclusivo, alla costrizione dell’adeguamento e dell’autocritica, il che talvolta si avvicina alla prassi di una sorta di obbligatorio auto-disprezzo>> (p. 24);
dalla constatazione che, mentre <<in ambito cattolico si assiste, insomma, ad un vero e proprio smarrimento>> (p. 28) invece, da parte protestante ed evangelica si moltiplicano i tentativi di definizione di quale sia il costitutivo essenziale del protestantesimo, (dal mondo evangelico a quello anglicano), sia a livello di alta speculazione che al livello divulgativo per la massa dei fedeli;
dal farsi strada, anche nel pensiero cattolico, della possibilità della accettazione da parte dei fedeli, non tanto della totalità della proposta cristiana fatta dal cattolicesimo, quanto di quello che al singolo fedele possa apparire fondante e significativo per la sua vita: è la strada della “parziale identificazione” soggettiva con solo una parte della verità cattolica, cosa che la Chiesa non può accettare perché significherebbe svendere la pretesa di cattolicità che è insieme pretesa di totalità (p. 9) finendo col sottoporre l’oggettività della fede al gioco delle sperimentazioni <<secondo metodi di sottrazione o di addizione privi di confini>> (p. 20);
Se un tempo, difatti, afferma l’autore <<si sapeva che cosa fosse il cattolicesimo, attraverso una sorta di consapevolezza di fondo non ulteriormente riflessa, anche se non si era capaci di esprimerlo in un concetto…Per diverse ragioni oggi non è più così>> (p. 3).
Infatti, continua: <<sarebbe possibile mostrare come, in molti casi, non solo i semplici cattolici siano spesso "cattolici in forza della tradizione"– cosa che per altro è assolutamente legittima -, quanto come proprio i cosiddetti intellettuali cattolici sappiano fondare solo difficilmente il loro punto di vista religioso di uomini di fede e moderni: con ogni probabilità essi restano nella Chiesa solo per ragioni che provengono dalla tradizione, il che, però, è quantomeno contraddittorio rispetto alla loro condizione di intellettuali.
Sembra, allora, che il pensiero cattolico debba sottoporsi nuovamente a questa sorta di autointerrogazione proprio di fronte al mondo moderno e razionale, diventato così scientifico. Come nel secolo diciannovesimo… così oggi è posto al cattolicesimo l’interrogativo: “siamo ancora cattolici?”>>.
La ricerca quindi della ‘cattolicità’ si impone, secondo l’autore, come il vero problema della Chiesa cattolica e il suo primo compito oggi: è quanto vuol dimostrare nel Capitolo primo del suo libro.
Anzitutto qui si passa ad individuare le motivazioni per cui oggi non è così evidente ed evidenziata l’identità del cattolicesimo.
Tra le ragioni per cui oggi con difficoltà si riesce a delineare cosa sia nello specifico l’essenza del cattolicesimo, l’autore elenca:
l’influsso della ricerca storico-critica che sembra aver vanificato la possibilità di una risposta univoca su cosa è “cattolico”;
la rinuncia, cedimento alla moda dominante del “pensiero debole”, da parte del pensiero cattolico, ad elaborare un modello di comprensione della totalità dell’esperienza cattolica e la possibilità di una sua visione unitaria;
Questa situazione ha portato alle seguenti conseguenze:
<<La sostanza della fede cattolica ha perso solidità e sicurezza sul piano interiore sotto la spinta di un pluralismo sostenuto in modo acritico e di una molteplicità variegata di nuove interpretazioni arbitrarie>> (p. 335), così da poter parlare di annacquamento e promiscuità spirituale del cattolicesimo e nel cattolicesimo.
Il fatto che <<non è più nemmeno un dato consolidato che la fede sia, per l’appunto, qualcosa di “sostanziale”, di contenutistico e di determinato. Sembra, piuttosto, che sia una sorta di fluido atmosferico o di un nuovo contesto di senso che getterebbe alcune luci sui fatti della vita che si svolgono all’interno del mondo…così la fede e la professione relativa ad essa si risolvono in significatività esistenziali, della cui origine e selezione è titolare, alla fine, soltanto il soggetto>> (p. 335), così da poter affermare che la fede dottrinale e la confessione dogmatica, elementi specifici del cattolicesimo, sono esposti oggi ad un lento processo di erosione interna.
l’aver assecondato, sempre da parte del pensiero cattolico, l’idea di un pluralismo (intra ed extraecclesiale) innalzato a norma spirituale, cosicché la visione unitaria ceda il passo ad un’indefinita molteplicità di opinioni in cui <<la caratterizzazione del cattolicesimo tende a diventare un’etichetta estrinseca, sotto la quale combinare in modo artificioso elementi contraddittori ed eterogenei, laddove il materiale di unione (utilizzato come surrogato) consiste in realtà, in ideologie assunte dall’esterno>> (p. 5).
La riduzione poi del Cristianesimo a filantropia, a gnosi, in un orizzonte intramondano (la cosiddetta “conversione della Chiesa al mondo” postconciliare che doveva far sì che la Chiesa diventasse sempre più sale e lievito) non ha finito per cristianizzare, evangelizzandolo, il mondo, quanto invece per conformare la Chiesa stessa al mondo, per cui l’accettazione acritica di questo ne ha fatto assumere non solo virtù ma anche vizi! (p. 342). Ci si chiede se invece di un processo di umanizzazione si sia verificato al contrario un processo di auto-dissoluzione della Chiesa nel mondo.
La negazione che dall’esperienza di fede discenda un coerente ethos del credente portatore di norme e di valori propri (p. 338) ha fatto parlare di autonomia della morale dalla fede. Ma supponendo una morale “autonoma” dalla fede, con quale metro valutare l’agire del credente (per non parlare dell’impossibilità di una valutazione etica dello stesso agire umano, dato che poi l’autonomia della morale si traduce in una molteplicità di morali)?
La privatizzazione infine dell’esperienza di fede ha fatto perdere la consapevolezza dell’agire ecclesiale del credente.
Il recupero dell’identità del cattolicesimo è dunque oggi quanto mai necessario: l’Autore passa quindi a delineare, nel Capitolo secondo, gli elementi e la forma del cattolicesimo, proprio nel tentativo di illustrarne la sua peculiarità.
Dopo aver definito la forma del pensiero <<come un principio formale e strutturante che caratterizza tutti i contenuti del pensare, conferendo ad essi la forma, l’ordine e la tipicità loro peculiari…qualcosa di simile allo stile nel parlare e nello scrivere…>> (p. 43), l’autore si chiede se si possa parlare di una forma del cattolicesimo e in cosa consista.
Rispondendo affermativamente, illustra gli elementi essenziali di questa forma del cattolicesimo:
il pensiero ellittico dell’et – et, contrapposto al “solamente” protestante, dove la polarità non dà mai luogo a dualismi hegelianamente o manicheisticamente pericolosi, giacché è risolta sempre dal principio che, pur dandosi i due poli – come i due fuochi di un’ellisse - però ‘Deus est semper maior’ (p. 47-66), recuperando così anche la possibilità di un discorso su Dio a partire dall’analogia entis tanto vituperata in ambito protestante ma salvando sempre così il primato di Dio e della grazia;
la fondazione storica dell’esperienza della fede ecclesiale e l’universalità (come dato storico-geografico e come proposta universale alle ‘genti’ in senso sia sincronico che diacronico) (p. 67-94);
il realismo della salvezza, come accettazione del dato creaturale e della logica dell’incarnazione, contro ogni riduzione dell’idealismo (e quindi del cristianesimo a gnosi, religione razionale, programma etico) per cui Cristo e cristianesimo sono ridotti a simbolo, oppure contro la riduzione dell’esistenzialismo per cui non importa il “fatto” in se stesso, cioè Cristo e il cristianesimo, ma “il fatto che” questo, cioè Cristo e il cristianesimo, sia significativo per me (ma al limite potrebbe essere significativo per me qualsiasi altro uomo o qualsiasi altro racconto o esperienza!) (p. 94-111). Da qui perciò il recupero della verità storica della vita di Cristo, della sua morte e della sua resurrezione, da cui discende l’oggettività e il realismo della salvezza (pp. 106-109: a mio parere oggi la magna et maxima quaestio);
l’uso della categoria del “mistero”, unica chiave di lettura per comprendere la storia della salvezza come il luogo dello svelarsi/ri-velarsi del Dio in Cristo, in cui la riflessione razionale e la teologia, lungi dal tentativo di una comprensione totalizzante, si risolvono nella “confessione” di fede, cioè la orto-dossia che sola può fondare l’ortoprassi (mentre non è possibile il contrario: per una giusta valutazione delle opere di fede, cfr. p. 128);
la struttura sacramentale, come il modo per concretizzare nell’oggi della storia la realtà e la visibilità (cioè la sua oggettivizzazione esterna) della salvezza, nel mistero di una salvezza donata sempre per grazia (p. 128-153): da qui discendono la dimensione sacramentale della Scrittura, per sottolineare il Primato della Parola di Dio superando la tentazione del soggettivismo (se la fede del singolo è prima della Parola, chi ci assicura che non sia un’illusione?) e del letteralismo fondamentalista (la Scrittura contiene ma non è la Parola); e anche la sacramentalità del ministero ecclesiastico per assicurare l’oggettività della salvezza (se nella Chiesa e perciò nel sacerdote non opera Cristo apportatore di salvezza, l’uomo nella ricerca della grazia sarebbe abbandonato o a se stesso o al suo prossimo, p. 152);
In definitiva, esaminando questi cinque elementi essenziali della forma del cattolicesimo, si può dire che il concretissimum del Dio-uomo, cioè l’esperienza storico-salvifica dell’Incarnazione del Verbo di Dio e la sua dimensione misterico-sacramentale e quindi il divino-umano sia la struttura originaria del cattolicesimo, in tutti i suoi aspetti e tutte le sue dimensioni, pur nella consapevolezza della resistenza del pensiero al concetto ed alla possibilità del divino-umano nella storia e della sua ambivalenza(p. 154 ss.), trovando nella sintesi cristologica dell’inconfuse il bilanciamento delle due realtà sostanziali.
Ma una forma è concepibile solo come “contenitore” di una “sostanza”.
Alla forma cattolica deve corrispondere un “contenuto” cattolico.
Nel Capitolo terzo, Gli elementi dottrinali del mondo della fede cattolica, l’autore passa quindi a delineare i contenuti essenziali della fede cattolica, classicamente condensati nelle formulazioni dogmatiche.
Dopo aver mostrato la possibilità stessa del dogma come struttura “incarnata” della fede cattolica (cioè come manifestazione della confessione e professione di fede), l’autore passa all’esame dei dogmi della fede cattolica avendo sempre cura di presentare l’avvenimento di Cristo come centro e chiave di ogni formulazione dogmatica:
anzitutto è presentata la formulazione dogmatica riguardante la Trinità, letta come la realtà di un amore autosussistente e insieme come relazione interpersonale in cui la creazione (e quindi anche la storia) non sono l’espressione di una necessità dell’essere trinitario quanto ancora della conformità di un agire di Dio-amore essenzialmente proiettato alla gratuità e alla relazione, nella forma del dono e della grazia (p. 182 ss);
segue poi la trattazione del dogma cristologico (p. 183 ss.) con l’intento del superamento della falsa alternativa di cristologia dal basso e cristologia dall’alto: la salvaguardia della professione di fede del Cristo vero Dio e vero Uomo, secondo il dettato calcedonese, è infatti la garanzia della realtà del mistero della salvezza, contro ogni lettura riduzionista. Infatti <<è una tentazione ricorrente della teologia attuale quella di esprimere la verità di Cristo nelle categorie di quei non-cristiani che non potendo raggiungere il Cristo della fede, cercando tuttavia in lui un appoggio che venga incontro al loro modo di sentire l’esistenza>>(p. 198) e quindi di presentare Cristo non nella sua divinità ma solo nella sua umanità, come l’uomo più perfetto, completo ecc. ma <<se Gesù non fosse lui stesso Dio, ma unicamente un uomo che è legato a Dio come ogni altro uomo, soltanto in modo più intenso … allora l’azione salvifica di Dio in Cristo sarebbe una truffa>> (p. 197) riducendosi così la cristologia di fatto ad una “gesuologia” (p. 200). Da qui la necessità di garantire la stessa realtà storico-salvifica della resurrezione nella sua oggettività per evitare di ridurre la fede entro la sfera della pura soggettività del credente (chi toglierebbe il dubbio di un’illusione/autoillusione?) (pp. 216-217).
Da una retta comprensione del mistero di Cristo consegue anche la comprensione della Chiesa (pp. 224 ss.) come sacramento universale di salvezza, popolo di Dio in cui il “genus” è specificato dall’essere corpo di Cristo, e dell’Eucaristia come concretizzazione del mistero vitale della Chiesa (p. 236): qui il permanere della presenza del Cristo nelle specie eucaristiche è il segno del permanere del Cristo stesso nella sua Chiesa, a garanzia dell’efficacia del suo agire salvifico-sacramentale.
Infine gli stessi dogmi mariani sono riletti nel loro significato cristologico-trinitario e nella loro valenza ecclesiologica (pp. 249 ss.). Interessante è la lettura di Maria come esponente della fede cattolica, in quanto typos di quanto Dio opera nella storia della salvezza attraverso la vocazione dei singoli fedeli e della loro risposta alla grazia divina: e in ciò si rileva anche il ruolo preminente del culto mariano che manifesta la specificità di Maria nella storia della salvezza schiusa da Cristo all’umanità e alla Chiesa.
Dalla individuazione della forma e dei contenuti della fede cattolica si passa così a delineare, nel Capitolo quarto, gli elementi della vita del cattolicesimo: la fede e le opere, il personalismo e la comunione ecclesiale, la preghiera tra azione e contemplazione.
Questo ulteriore passaggio per illustrare gli elementi della vita del cattolicesimo è richiesto proprio dalla consapevolezza che il cristianesimo non è una dottrina (o solo, o anche una dottrina) ma è anzitutto una esperienza di fede vissuta, cioè l’esperienza di una vita vissuta nella sequela di Cristo. E ciò contro l’idea di una separazione tra fede e vita, dottrina e prassi. Afferma infatti l’autore: <<poiché sulla base della presentazione degli elementi dottrinali della fede abbiamo già potuto riconoscere come la comprensione cattolica della dottrina non sia intellettualistica – dal momento che nel cattolicesimo la verità è sempre qualcosa di vivente -, non è difficile capire come nel “sistema” cattolico la separazione tra fede dottrinale e realizzazione esistenziale o, come anche si può dire, tra fede e vita, sia contraddittoria e innaturale>> (p. 275). A riprova di ciò lo Scheffczyk indica sia il riconoscimento dall’esterno, già nella chiesa delle origini, della testimonianza dell’amore, sia la prassi, che la Chiesa ha mantenuto da sempre, della esclusione della comunione cristiana di quanti <<avevano sciolto l’unità di fede e vita a causa del peccato>> (p. 276).
E questa esigenza dell’unità tra fede e vita è stata e deve essere mantenuta nella sua impellenza fondativa dell’identità cattolica, nonostante i fallimenti e i tradimenti di tale ideale lungo la storia, fallimenti e tradimenti che tuttavia non possono far dimenticare i grandi esempi di martirio e di carità vissuta dalla Chiesa e nella Chiesa lungo i secoli.
Anzi, proprio l’esperienza del peccato nella esistenza dei singoli credenti, ci ricorda che il rapporto fede-vita non può darsi mai per scontato: la fede non si traduce mai in modo automatico nella realtà esistenziale dei credenti.
Quello che nella fede è dato come dono, l’esperienza della grazia, occorre poi che sia accolto, scelto, voluto come impegno, come il compito, la scelta, di camminare secondo la nuova vita ricevuta.
Questo impegno (pp. 277-278) fa sì che nel cattolicesimo la vita di grazia non si traduca solo in un quietismo passivo di fronte all’agire divino (che condurrebbe ad un intimismo separato dal mondo), né, all’opposto, ad un attivismo delle opere quasi pelagiano (nella sopravvalutazione di queste come frutto della propria capacità e non della grazia che può condurre fino ad un rigorismo etico di stampo volontarista).
In pratica, lo sforzo di tradurre la fede in vita, è letto, sempre nel cattolicesimo, nel rapporto fecondo tra natura e grazia secondo gli antichi assiomi per cui “la grazia suppone la natura” e per cui “la grazia non distrugge la natura ma la perfeziona”. Ciò significa che, nel suo risvolto prettamente etico, il rapporto tra fede e vita si traduce nel rapporto tra la libera volontà umana e la scelta di vivere nell’obbedienza della fede: così le opere buone, anche se sono frutto dell’impegno umano, non sono opere di cui vantarsi perché ultimamente ascrivibili alla vittoria della grazia nella nostra vita di peccatori, sono cioè espressioni di una vita nuova già posta in essere dalla grazia e mai un tentativo dell’uomo di meritarla o conquistarla.
E’ dunque il primato della grazia nella vita del credente ciò che deve essere sempre affermato e riaffermato con forza, in cui l’irruzione della grazia nella vita personale produce i frutti della vita nuova con la forza dello Spirito di Cristo.
In quest’ottica non c’è nessuno spazio per espressioni di eroismo ascetico, più di stampo paganeggiante che veramente cristiano.
Inoltre, nella visione della vita di fede che si esprime coi frutti della grazia, non solo viene ricondotto ad unità il falso dualismo tra amore di Dio e amore del prossimo ma superato anche il rischio che, affermando che si può solo amare Dio amando l’uomo, si possa arrivare ad una pericolosa identificazione tra Dio e l’uomo. Anzi, l’amore di Dio, lungi dall’appiattirsi sull’amore del prossimo, ne costituirà sempre la misura, la norma e l’istanza critica (p. 292).
In definitiva si può affermare che è proprio il concretissimum del divino-umano del cattolicesimo che nella vita di grazia viene vissuto come unità esistenziale, nel bipolarismo fede-vita / fede-opere / grazia-impegno etico e poi ancora tra azione e contemplazione, bilanciando la tensione all’eternità e il giusto riferimento al mondo.
L’impegno di tradurre la fede nella vita attraverso l’esercizio dell’amore conduce poi con sé l’apertura alla ecclesialità intesa come superamento dell’isolamento soggettivistico del singolo (fosse anche inteso in senso devozionistico privato) verso l’apertura alla dimensione comunionale come compimento della dinamica dell’amore (pp. 293 ss.).
E l’esperienza comunionale va qui intesa nella duplice dimensione sia di meta cui tende l’agire del singolo fedele, sia di “struttura” portante che sostiene e motiva l’agire del singolo: cioè dire, nel momento stesso in cui il fedele si impegna per l’edificazione della comunione ecclesiale, è esso stesso edificato in questa e da questa.
Afferma lucidamente l’autore: <<La Chiesa, intesa come comunione, non è, pertanto, solo lo scopo dell’auto-realizzazione nella fede del singolo, dal momento che essa è anche il “soggetto trans-individuale dell’azione”. Si comprende, così, come all’essere e all’agire del credente appartenga la struttura comunitaria e, dunque, un carattere ecclesiale>> (p. 293).
Se così non fosse la Chiesa sarebbe una somma di soggetti singoli ma non mai una comunione, un corpo sociale, anzi, lo stesso Corpo di Cristo.
Siamo dunque alla affermazione che il personalismo comunitario (cfr. Emmanuel Mounier che mutua questo concetto mondano per la comunità civile proprio dalla esperienza cristiana e cattolica) è la dimensione propria in cui nel cattolicesimo l’esperienza personale della salvezza si realizza tuttavia nell’ambito comunitario della comunione ecclesiale, contro ogni riduzione privatistica della vita di fede del singolo.
Tale consapevolezza della dimensione persale ed ecclesiale insieme della fede è poi espressa in modo massimo nel cattolicesimo nell’esperienza liturgico-sacramentale, specie nell’eucaristia, in cui la “comunione” è sempre esperienza di comunicazione vitale sia al Corpo di Cristo glorioso, sia con tutta la communio fidelium che è essa stessa Corpo mistico di Cristo! Così, anzi,nel superamento dell’io e del tu nel “noi” ecclesiale, nell’esperienza liturgico-sacramentale viene superata la falsa dicotomia tra pietà personale e culto comunitario.
Inoltre l’esperienza ecclesiale ci richiama alla dimensione non solo sincronica ma anche diacronica della fede: nella confessione della “comunione dei santi” la Chiesa sperimenta se stessa come unica comunità dei salvati, in un fecondo rapporto di preghiera e di intercessione gli uni per gli altri.
Siamo così giunti al termine di quell’analisi fenomenologica che l’autore aveva avviato sul mondo della fede cattolica e che gli ha permesso di presentare quasi un compendio della stessa fede cattolica.
Indirettamente, come dicevamo all’inizio, sulla scorta del continuo riferimento alla teologia protestante, il nostro teologo ha sciolto la prima domanda a favore del cattolicesimo: ogni sua affermazione è tesa infatti a dimostrare, nell’analisi delle tesi, ora luterane, ora evangeliche, ora anglicane, che la verità integrale del cristianesimo si è mantenuta nella tradizione cattolica.
// Esprimiamo però qui, per inciso, un rimpianto: quello che il nostro autore abbia guardato solo all’Occidente e non anche alla tradizione Orientale. Con meraviglia avremmo potuto rilevare che tante tesi della verità cattolica (la ripresa dell’umano-divino del mistero dell’Incarnazione nella affermazione fondamentale che regola la vita etica e ascetica del “Dio si è fatto uomo affinchè l’uomo diventi Dio”; oppure nell’esperienza fondamentale della comunione ecclesiale nel concetto russo di sobornost; o ancora nella dimensione eucaristica della chiesa in cui si svela la verità della chiesa stessa) sono parimenti espresse con egual forza e sentimento dalla teologia ortodossa ( si pensi alla Fede dell’esperienza ecclesiale di Christos Yannaras, o alla Esposizione del Simbolo della fede da parte del martire russo contemporaneo P. Aleksandr Men, o ancora a L’essere ecclesiale di Joannis Zizioulas), questo se da un lato ci avrebbe fatto sentire più vicini, e non solo affettivamente ma anche teologicamente, con i fratelli delle chiese ortodosse, dall’altro ci avrebbe spronato a proseguire nella ricerca di una essenza cattolica ancor più qualificante ed identificativa (se mai ci fosse) rispetto non solo al protestantesimo ma anche all’ortodossia, nella valorizzazione di quanto già ci unisce e non solo nella constatazione di ciò che ci divide. //
Ma, ritornando alla tesi del libro, l’affermazione che la verità del cristianesimo permane nella tradizione cattolica non significa che questa consapevolezza nella coscienza del cattolicesimo sia data per scontata una volta per sempre: l’impegno della custodia del “depositum fidei” è un impegno continuo e rinnovato che la Chiesa deve sentire nel quotidiano confronto con le sfide del mondo, custodia che comporta non solo una trasmissione passiva del depositum, quanto anche l’impegno a mantenere viva e vitale la verità cristiana nella sua forma cattolica nella coscienza dei credenti così da costituirne sempre il fondamento di una identità peculiare.
L’analisi dello Scheffczyk, attraverso il vaglio di teologi non solo protestanti ma anche cattolici – se non di fatto almeno di nome - mostra che ogni qualvolta si attinge in modo acritico alle ideologie mondane, senza passarle al giusto vaglio della verità cattolica, o quando nello sforzo di ridire queste verità il linguaggio usato finisca per non veicolare più tutta l’interezza del messaggio della fede cattolica, in definitiva non si fa altro che venir meno alla propria identità e quindi si perde di vista qual è proprio la funzione della Chiesa nel mondo.
Ed è questo oggi il rischio che il cattolicesimo corre.
Infatti, quella che può sembrare una visione pessimista dell’autore, è – a mio modo di vedere – una visione realista di quanto si è prodotto nella Chiesa all’indomani del Concilio Vaticano II, in verità più per i suoi fraintendimenti che per le sue affermazioni autentiche: ma come superare le deformazioni e le deviazioni del cattolicesimo contemporaneo?
E’ quanto indica l’autore nell’epilogo, dove egli affronta la questione delle prospettive del cattolicesimo: <<Non è possibile… dimenticare che si presentano anche forze di segno diverso, volte all’approfondimento del dogma, a una vita più profonda alla luce della fede e del mistero della liturgia, a un atteggiamento non conformistico nei confronti del mondo>> (p. 343) e sono forze ancora piene di vita e di energia, anche se screditate nell’opinione corrente come “forze conservatrici”, e quindi lette negativamente dall’idolatria imperante del progressismo (che il nostro autore chiama meglio “circolarismo” perché non si fa altro che ripetere errori di fede già da tempo ricusati!).
La speranza è che queste forze riescano ad imprimere al cattolicesimo il coraggio di una svolta sostanziale nel recupero della verità e della forma della fede cattolica.
C’è dunque futuro per il cattolicesimo?
E’ riproponibile l’esperienza cristiana all’uomo d’oggi?
La risposta è affermativa.
A patto che il cattolicesimo recuperi dunque la consapevolezza della sua identità.
Che fare allora?
La soluzione, per uscire da questo cristianesimo imborghesito (p. 346: e quale aggettivo più adatto di questo?), è ancora nel recupero della composizione cattolica tradizionale dell’et della fede/Chiesa con l’et del mondo, in cui l’amore del mondo può esigere che si usi nei suoi confronti anche la più dura opposizione, fino al martirio, assumendo il coraggio della diversità e la consapevolezza, contro ogni populismo e demagogismo, di dover esistere nelle dimensioni di una “minoranza cognitiva”, pur senza inclinare a pericolosi settarismi.
Il banco di prova dell’inversione di tendenza sarà la ripresa di una nozione di culto rettamente intesa: bollato come espressione di tradizionalismo reazionario, il recupero di una corretta espressione del culto cristiano può essere invece paradossalmente la via per recuperare la giusta relazione con Dio (latrìa), evitando che il rapporto col mondo si deteriori in idolatrìa, ma che la vita del credente sia sempre vissuta come “liturgia”, come atto cioè vissuto per il servizio dell’altro, come dono e sacrificio di sé in Cristo.
Ma se questo è compito di ogni fedele, la responsabilità maggiore è certo quella del Magistero: dice lo Scheffczyk: <<Per tale ragione, “tutti quelli che custodiscono la fede cattolica trasmessa dagli apostoli” dovrebbero mettere da parte ogni spensieratezza…l’unità non può essere mantenuta ad ogni costo, soprattutto al prezzo della verità>> (p. 337).
Un malcelato buonismo travestito da saggezza e prudenza pastorale o una precomprensione dell’unità ecclesiale più come atteggiamento psicologizzante (il “vogliamoci bene” cameratesco) che come dimensione pneumatica (per dirla con il Bonhoeffer de La vita comune) ha forse fatto dimenticare a taluni Pastori il loro compito di custodi della verità nella fedeltà all’unico Signore.
E’ bello infatti che proprio il libro si chiuda con il richiamo dell’Apocalisse alla fedeltà delle chiese. Che poi è l’unico vero e proprio modo per uscire dalla crisi attuale.
Non c’è altro modo infatti di essere e di esistere per una Chiesa se non quello della fedeltà: la fedeltà a Dio nella paura che il suo candelabro possa essere rimosso!
In conclusione, alcune considerazioni personali.
Definito dal vaticanista Sandro Magister <<Uno dei più importanti libri di teologia degli ultimi anni>>, considerazione che condividiamo per la lucidità delle analisi fatte, mentre ha avuto interessanti recensioni nel mondo accademico e giornalistico tedesco ed anglosassone (basta fare una ricerca su Internet), “Il mondo della fede cattolica. Verità e forma” ha avuto nell’ambito italiano poca risonanza, pur essendo stato recensito dal Card. Camillo Ruini: il testo di questa sua presentazione del libro è ora inserito in una sua nuova raccolta di testi, la prima da quando non è più presidente della CEI, dal titolo sintomatico: “Rieducarsi al cristianesimo. Il tempo che stiamo vivendo”.
E credo che proprio questo titolo ci aiuti a dare un giudizio su questo libro.
Lo sforzo del nostro autore è quello di rieducarci al cattolicesimo.
E se il suo libro è un ottimo manuale – nella sua sintesi della verità e della forma del cattolicesimo formulata nei capitoli II – III – IV - che non dovrebbe mancare dalla biblioteca di chierici e laici “impegnati”, spesso oggi “ineducati” o “maleducati” rispetto alla identità cattolica, il valore particolare del testo si impone però nell’esame fatto nel primo capitolo sulla situazione critica del cattolicesimo contemporaneo che ha generato la persistente crisi di identità da noi tutti constatata (ma di cui con abilità e arguzia teologica sa ritrovare le radici nelle problematiche poste in atto dalla teologia e filosofia moderna del secolo scorso: si pensi ad esempio all’idealismo e all’esistenzialismo, alle teologie politiche e quella della demitizzazione).
E’ innegabile, infatti, che c’è stata quasi una soluzione di continuità nella trasmissione dell’esperienza ecclesiale autentica tra le ultime generazioni, dal livello familiare a tutti gli altri livelli prettamente ecclesiali ed ecclesiastici.
Il libro è del 1977 e il Card. Ruini dice che ormai il peggio è passato.
Io non sarei così ottimista, anche perché si dice che al peggio non c’è mai fine!
Io stesso, leggendo questo libro, ho scoperto che la quasi totalità dei testi di teologia specie dogmatica sui quali ho studiato è di autori protestanti: ma se un prete cattolico si forma su libri protestanti, si può dire ancora cattolico?
Il libro è quasi la foto dei danni prodotti dallo tzunami post conciliare, tanto più pericolosi sia perchè causati spesso non da fattori esterni ma interni alla stessa compagine ecclesiale e inoltre giacché oggi spesso si trovano nei vari posti chiave della comunità ecclesiale proprio quelli che di questa visione a-cattolica se non anche anti-cattolica sono stati i fautori e gli infatuati! E alcune infatuazioni sono difficili da passare!
Se dunque la Chiesa, con Benedetto XVI, ha individuato una emergenza educativa al livello della formazione della coscienza umana, quanto più urge una rieducazione al cattolicesimo, alla bellezza del cattolicesimo (e la via della bellezza avrebbe oggi forse qualcosa da dirci anche in questo campo: le brutte chiese costruite in questi anni, non sono forse l’espressione più visibile di un cattolicesimo non più compreso né vissuto nella sua armonia?).
E il richiamo all’educazione comporta il recupero di una dimensione pensante dell’esperienza di fede, che deve essere nutrita e sa e deve nutrirsi di cibo adatto: chi lo cerca, chi lo procura? Chi sorveglia che questi sia veramente adatto? E inoltre l’educazione fa uscire dallo spontaneismo irriflesso, incoscientemente confuso oggi per l’innocente originalità della fede! Infatti l’actus credendi, pur provenendo ultimamente da una mozione della grazia non è mai una esternazione estemporanea ed immotivata, bensì sempre un habitus acquisito tramite l’educazione della fede e coltivato nel solco della Tradizione.
Il libro infine è un forte richiamo al “sentire cum ecclesia”: un richiamo che oserei dire più cogente anzitutto per noi sacerdoti prima che per i fedeli (ché spesso poi i fedeli ce li creiamo noi a nostra immagine e somiglianza). Siamo ormai così impregnati del soggettivismo imperante che quasi non ci accorgiamo di non più camminare nel solco della tradizione bimillenaria della Chiesa ma di inoltraci ognuno per un proprio modo di vivere e di intendere la fede, su cui spesso trasciniamo anche le comunità a noi affidate. Il nostro modo di celebrare l’eucaristia (c’è ancora un rito romano o non c’è ormai piuttosto un rito ad modum uniusquisque celebrantis?) o, peggio, di amministrare la riconciliazione nelle sue implicanze etiche (in cui le indicazioni del singolo confessore trasmettono le proprie convinzioni più che le indicazioni del Magistero) ne è un esempio concreto.
Il libro si può dunque condividere o meno, accettare o discutere, ma è innegabile che ci sfida a ripercorrere il cammino dell’autenticità ecclesiale e dell’identità cattolica. Lo si voglia o no è innegabile infatti che il futuro passi pure per le vie di quelle crisi oggettive che il libro ci ha indicato.
Applicherei qui quello che l’altra volta è stato detto a proposito dell’identità sacerdotale: la fedeltà personale passa dalla coscienza di questa identità cattolica. Si può vivere pienamente nella Chiesa, e nella Chiesa Cattolica, solo nella consapevolezza che nell’esperienza del cattolicesimo io posso essere raggiunto dalla grazia della salvezza e vivere l’opportunità di una vita nuova che dall’orizzonte mondano si apra verso i cieli dell’eternità.
Altrimenti meglio iscriversi ad un club.
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