Scrivo ancora sotto l’effetto-choc del Natale, lo so, direte, si ripete ogni anno, ma io non riesco ad abituarmi alla invasione dei babbi natale e alla scomparsa delle cartoline con la natività: proprio per
quello che di per sé il Natale dovrebbe significare e che più non significa (ma ci
pensate: come si può pensare alla
nascita di un Bambino celebrando un vecchio, che sa dispensare solo regali a comando? Sono i
miracoli della civiltà dei consumi a cui cristianamente noi diamo una mano! Ma la fede è un fatto personale e su questo non voglio fare prediche a nessuno.
Ci
sono però dei risvolti che credo ci
tocchino al di là del fatto personale per diventare quasi fatti di
costume: mi domando però se i costumi sia lecito solo subirli (un po’ come
subiamo la moda che ci fa vestire una volta così e una volta cosà ) o se non ci
sia data invece la possibilità di sceglierli, di indossarli oppure rifiutarli
o, meglio ancora modificarli.
Non
capisco ad esempio la pratica generalizzata degli auguri di natale: possiamo
scambiarci auguri tra chi non crede che il Dio si sia fatto uomo o che comunque
questo gli risulta indifferente? Ma in questo caso cosa dobbiamo augurarci? Chi
mi incontra in occasione del Natale sa con quanta ritrosia mi assoggetti a
questi riti augurali, con benevoli assalti di baci e abbracci: non per paura di
contagi, ma per paura di porre gesti
ipocriti. E così a Natale finisco per augurare solo buon anno! Questo
sì, lo faccio volentieri, perché ce sempre da sperare che le cose (e gli uomini
che si nascondono dietro le cose) migliorino.
Vivo
perciò con insofferenza questi giorni di buonismo, arrabbiandomi per i
marciapiedi occupati da vasi ed alberi che ti obbligano fare pericolose gimkane
(ma i marciapiedi non erano una volta solo per i pedoni?), o rassegnandomi a
vivere in un paese di zombie perché le persone che incontri mostrano le occhiaie
e tutti gli altri visibili segni delle
lunghe veglie passate a non attendere più nessuno e niente che non sia una
vincita al gioco (ma è tutta qui la speranza?). O al vedere come anche questa
sia una buona occasione per fare un po’ di folklore quali certi “presepi
viventi” che di presepe hanno solo la grotta della natività appiccicata a scene
da museo etnografico delle tradizioni popolari. Rimpiango i grandi dipinti
della natività o i presepi dei secoli passati dove l’incarnazione era veramente
un inserimento nella storia di un popolo (i dipinti del trecento ci mostrano la
civiltà del trecento, quelli del seicento la civiltà del seicento e lo stesso
si dica dei presepi: noi nel duemila rappresentiamo l’incarnazione
nell’ottocento, non riuscendo a fare né un discorso solo storico, perché
dovremmo ricostruire solo l’ambiente giudaico dell’epoca, ma avrebbe senso?, né un discorso culturale perché
quella cultura che noi rappresentiamo, con buona pace di tutti (anche di quelli
a cui ancora piace la mangiata della ricotta calda nell’ambiente bucolico) non
c’è più. Pensavo proprio questo salendo per le stradine della cavuzza di san
Guglielmo, dove le abitazioni e le grotte artificiali si
mescolavano a quelle vere, a quelle in cui ancora oggi la gente vive in
dignitosa povertà, vedendo come persone per sbaglio entravano in queste
piuttosto che in quelle, o vedendo la gioia di un vecchietto nel vedere che
tutti si fermavano a guardare il presepe dalla porta spalancata: forse proprio
queste case sono state oggi le vere grotte del presepe, lì certamente bisognava
cercare come i pastori o i magi il Dio che si è fatto uomo, accanto ad una
mamma che ancora allatta, ad una vecchia che più non fila e che forse tesse
ormai solo la trama dei ricordi, a quelle persone umili e semplici che sanno
che non per due giorni l’anno ma per sempre Dio rende protagonisti della sua
storia.
Ora le feste sono finite (l’Epifania se le
porta via si dice) e siamo stati richiamati alla dura realtà della vita
quotidiana: e ogni volta il “rientro” non è indolore. Mi domando se questo sia
giusto, se proprio non avesse ragione Pascal quando afferma che il problema di
tante crisi di identità è proprio del divertessement, del divertimento, del
tentativo che continuamente fa l’uomo di divergere, cioè di allontanarsi dal
suo centro, dal suo io spesso non accettato, per trasferirsi in qualche paese
delle meraviglie o dei balocchi: ma sono paesi dove non si può vivere per
sempre. C’è sempre il biglietto di ritorno compreso nel prezzo, a meno che il
divertimento non diventi alienazione e qui complichiamo le cose… Ma il
divertimento non educa alla responsabilità, anzi: chi è stato a Disneyland ne
sa qualcosa del tipo di mondo che viene proposto. Mi domando se la colpa sia di
chi cerca il divertissement o di chi glielo offre. La Chiesa in questo senso forse qualche peccato deve confessarlo, ma certo non è la
sola: tanti altri pensano che al popolo basti offrire alcuni ludi circenses
ogni tanto… ma qui i discorsi vanno sul difficile. Forse è meglio
smettere qua e dirci arrivederci alla prossima volta.
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