Viviamo
in tempi in cui abbiamo assistito - per dirla schematicamente - alla fine degli assolutismi, alla perdita dei valori, al crollo degli ideali, alla crisi delle istituzioni, al dilagare di una illegalità diffusa a
tutti i livelli, al lento ma a prima vista inarrestabile traballare di
famiglia, Stato, scuola....e aggiungerei anche Chiesa...
Conseguentemente
abbiamo davanti a noi ad esempio giovani
sempre più insicuri (vedi l’innalzamento e l’allargamento del periodo
adolescenziale), personalità fragili (vedi l’incapacità di fare
scelte, specie se durature, e i sacrifici conseguenti alle scelte, o di
portarle avanti nel tempo: emblematico è il fallimento di tanti matrimoni di
coppie giovani, ), giovani vittime di manipolazioni ( vedi
l’influenza sempre più alta dei mass media), giovani contesi o dissociati
tra le diverse agenzie educative o pseudoeducative ( vedi i giovani che fanno
musica, sport, scautismo etc o che appartengono insieme a gruppi di matrice diversa... incapaci di
stabilire una gerarchia di valori o che rispondono ai valori/pseudovalori come
Zelig, il personaggio di Woody Allen, che mutava carattere e comportamento a
seconda delle situazioni).
Il compromesso così sembra essere diventato la regola, l’incoerenza tra valori e scelte
concrete sembra quasi connaturata ad uno stile di vita sempre più
illuministicamente dissociato tra il dire e il fare (se è detto è fatto?!).
Risultato
di tutto ciò è la frammentazione
dell’identità: spesso si vive quasi a compartimenti stagni, incapaci di
operare una vera “reductio ad unum”, cioè incapaci di ricondurre la diversità
delle esperienze ad un unico punto attorno al quale fare ruotare e dal quale
ricevere senso, per leggere se stessi come il soggetto unico della propria
storia. Abbiamo bisogno di quel “centro di gravità permanente, che non mi
faccia mai cambiare idea sulle cose, sulla gente...” che cercava, cantando,
Battiato.
Emblematica,
a proposito, è la confusione dei ruoli.
Vedi
il rapporto uomo-donna o la crisi
dell’identità personale che sta generando una sorta di “imposizione”
culturale della “tipologia” gay a tutti i livelli con il preteso riferimento
alla diversità sessuale naturale per una sorta di scelta culturale del proprio “gender”
di appartenenza lesbo-gay-bisex-trans ecc. e con la richiesta del matrimonio
tra omossessuali intesa come il riconoscimento di un preteso diritto assoluto.
Oppure si veda il relativismo etico (se ogni persona ha la propria verità, allora
fa quello che vuole: è il trionfo del “secondo me è così e quindi è così”, del
“mi piace, quindi è così”, del “così è bello” o a tutte le riedizioni del “il
corpo è mio e me lo gestisco io”) che sfocia, per alcuni aspetti, nella pluriappartenenza (vedi il caso di chi
si dice cristiano ed insieme “buddista” ad esempio, o il fenomeno del New Age e
di tutti gli altri gruppuscoli sincretistici autodidatti per una religione faidate).
Si
veda, per tanti altri aspetti, la privatizzazione
dei comportamenti, con il rifugio nel privato e il rifiuto della dimensione
pubblica, specie della “demonizzazione” della politica.
Come
definire allora un giovane che vive in questa rete, spesso groviglio, di
problemi che si riversano nella sua esistenza e che la connotano e la condizionano
spesso in modo tragico e irreversibile, specie in situazioni socioculturali
quali quelle della Sicilia dominate da piaghe quali la disoccupazione, sacche
di povertà ancora estese, micro e maxi delinquenza, criminalità organizzata,
mafia, inquinamento sociopolitico ed ecclesiale, diffidenza verso le
istituzioni, mancanza di senso civico, religiosità popolare e costumi ancora fortemente
tradizionalistici?
Io
lo definirei un “giovane a rischio”, dove però la categoria “a rischio”
prima che essere sociologica è esistenziale: quello infatti che si mette a
rischio non è qualche aspetto della vita, materiale o no che sia, è anzitutto
la vita stessa, nella sua qualità, nella chiamata alla realizzazione piena di
sé che ogni vita porta inscritta nella propria esistenza.
Eppure,
pur parlando di situazioni a rischio, non vorrei mancare al mio dovere di vecchio
scout di saper vedere anche il 5% di buono presente in quest’oggi e in questo
mondo (come ammoniva Baden Powell). Sarebbe infatti ingiusto tacere di quelle
tante realtà che viaggiano nella direzione opposta a quella precedentemente
vista: sono ad esempio l’impegno per la
pace di tanti, la cooperazione e lo sviluppo tra i popoli, l’impegno per la salvaguardia del creato, per
una società più giusta e solidale e più a misura d’uomo (vedi le varie forme di volontariato) e poi la
rinascita di una coscienza politica seppur
ancora incipiente, il fermento antimafia
spesso nella declinazione antiracket, e, al livello ecclesiale, il
risveglio e l’impegno per una vera esperienza di fede in una Chiesa-Popolo di
Dio e Corpo di Cristo che vive nella testimonianza -a volte letteralmente vero
e proprio martirio, si pensi al nostro Don Puglisi - il proprio servizio
dell’annuncio del vangelo del Regno al mondo.
Come
ingiusto sarebbe inoltre non riconoscere nel volto della Sicilia, per rimanere
nell’ambiente che ci interessa più da vicino, assieme alle tante rughe che lo
deturpano, anche i tratti della intelligenza, della forza e della tenacia con i
quali spesso la rassegnazione si trasforma in laboriosità; i tratti della generosità che si coniuga in termini di
solidarietà, ospitalità, accoglienza, tolleranza, integrazione razziale (è
questa la lezione della storia!), i tratti dell’ironia che pirandellianamente
sa elevare un innato pessimismo ad un
sano realismo ...sono tratti questi che rappresentano una risorsa, una
riserva, assieme a quelle realtà di bene cui prima accennavamo più in generale,
da cui trarre ricche suggestioni per il futuro.
Che
fare dunque? Quale priorità, specie per chi responsabilità educative, avere per
aiutare le nuove generazioni ad appropriarsi del proprio futuro? Quali scelte
per un genitore, per un insegnante, ma anche per un parroco, un catechista
nella loro responsabilità di accompagnare i giovani ad aprirsi al futuro
prendendo la vita nelle loro mani?
Una
ed una sola: il coraggio.
1)
L’educatore è uno che ha anzitutto il coraggio dell’intelligenza: cioè il coraggio di
andare dentro le cose (intus-legere), di superare le apparenze, di andare al
nocciolo, alla sostanza delle cose (sub-stantia: ciò che sta sotto), ricordando
l’ammonimento della volpe al Piccolo Principe: “l’essenziale è invisibile agli
occhi”.
Questo
significa, per un educatore, la capacità di superare ogni superficialità,
in noi stessi e negli altri, il rifiuto di farci ingannare dagli specchietti
per le allodole...per andare alla interiorità: è il rifiuto del “look”,
dell’apparenza per ritornare all’essere. Solo così si potrà aiutare gli altri a
cogliere la loro interiorità.
2) E chi ha il coraggio dell’intelligenza ha anche il coraggio del discernimento. Proprio
nell’epoca della contraddizione, della confusione e del relativismo il dovere
del discernimento si impone più che mai come il coraggio di scegliere e di
saper scegliere, distinguendo tra bene e male: “tutto esaminate, ritenete ciò
che è buono” ammonisce San Paolo.
Mi
sembra che una delle urgenze più grandi per gli educatori sia quella di aiutare
a superare l’indifferentismo e di educare alle scelte, alle scelte
responsabili. Questo significa, per un educatore, la capacità di un’atteggiamento
critico nei confronti di se stesso anzitutto e poi degli altri e della
realtà che ci circonda, non per seminare dubbi o zizzania per partito preso, ma
per sottoporre ogni cosa al vaglio critico della Parola di Dio, che mettendo in
luce le ombre del peccato e le tentazioni al compromesso ci spinge a continua
conversione.
3) Ma intelligenza e discernimento si pagano con un altro coraggio:
quello di ricercare sempre, senza posa,
la verità. Solo infatti chi ha l’umiltà di riconoscere di non essere
depositario di verità precostituite, avrà il coraggio di superare ogni
dogmatismo, di uscire dalle proprie sicurezze, spesso false, per impegnarsi in
un pellegrinaggio alla ricerca della verità, che diventa, per chi ha il
coraggio di compierlo fino in fondo, un cammino di liberazione, se vero, come è
vero, che la verità ci farà liberi (Gv).
Questo
significa, per un educatore che aspira a diventare formatore di personalità
autentiche, la capacità anzitutto di mettersi a nudo, di gettare la maschera,
di sciogliere i tanti legami dell’ipocrisia per ripartire da una vita sentita e
vissuta nella sincerità del cuore.
4) E dato poi che per noi che ci diciamo cristiani la verità non è un
ideale astratto, o peggio un “flatus vocis”, ma una persona ben concreta, Gesù
di Nazareth che noi confessiamo come il Cristo di Dio, allora potremo dire che
l’educatore cristiano è uno che, oggi più che mai, ha il coraggio di mettersi
con più decisione alla sequela di Cristo, nell’esperienza della fede, nella
docilità allo Spirito, nell’obbedienza della Parola, nella appartenenza
ecclesiale, nella libertà della coscienza.
Chi
deve essere l’educatore cristiano infatti se non colui che nella coerenza
della propria vita testimonia una sempre rinnovata fedeltà a Cristo che lo ha
liberato? “liberi e fedeli in Cristo” dice P.Haring a proposito della vita dei
cristiani: libero e fedele in Cristo deve essere un educatore, per essere a sua
volta nella Chiesa e nel mondo segno e strumento di liberazione. Poiché infatti
oggi l’educazione non può non coniugarsi in termini di liberazione, di
superamento cioè delle contraddizioni tra fede-vita, ideale-reale,
interiore-esteriore, pubblico-privato, personale-comunitario,
materiale-spirituale... superamento in vista della realizzazione dell’uomo
integrale...
5) Questo significa per un
educatore, genitore o catechista, avere il coraggio di una revisione critica del nostro modo di essere e delle nostre scelte:
prima di guardare ai ragazzi dobbiamo guardare a noi stessi, con onestà!
Ci dice infatti il Vangelo che “se un cieco guida un altro cieco, entrambi
finiscono in una fossa”: allora molto onestamente dobbiamo dire oggi che i
frutti della nostra educazione dipendono dalla qualità di noi adulti. Dobbiamo
allora puntare sulla qualità, come primo impegno: sulla qualità dell’essere
che si traduce in termini di una spiritualità
cristiana sempre più sperimentata,
vissuta, incarnata... e che sfocia nella qualità del servizio che si
traduce in termini di una competenza
sempre maggiore (sono finiti i tempi del pressapochismo e delle buone
intenzioni: anche a fare i genitori si deve imparare!!!).
Noi
purtroppo siamo figli e vittime di quello che in filosofia oggi viene detto il
“pensiero debole”: cosa viene insegnato oggi? Che non esistono valori-certezze
e che è inutile cercarle e che se anche esistessero la nostra mente non riuscirebbe a coglierli in pieno
dati i suoi limiti, e che se anche
riuscisse a capire qualcosa non saprebbe né comunicarla né viverla: e allora?
Allora – ci dicono - accontentiamoci di vivere alla giornata, di non pensare a
mete irraggiungibili: gli ideali? E chi li ha mai visti o toccati? Meglio altre
mete che, guarda caso, devono essere tangibili: beni, denaro, potere... si
potrebbe continuare, ma credo che ci siamo capiti: oggi assistiamo al trionfo
della mediocrità, al ripiego dell’uomo su se stesso, al rifiuto della sua
chiamata a d essere Altro, e alla conseguente tragedia della perdita
dell’identità stessa dell’uomo. Eppure il Poeta (!) ci aveva ammoniti: “fatti non foste per viver come bruti ma per
seguir virtute e canoscenza...”: A parte la citazione dotta, dobbiamo osare
pensare in grande, dobbiamo liberare i sogni e ritornare a giocare con le
stelle come direbbe la fata a Peter Pan. Non per alienarci, non ma perché i
sogni, gli ideali, di cui noi parliamo, non sono quelli delle favole né quelli
illusori di Amici di X Factor o di chi ti promette il successo a buon mercato.
E’ il raggiungimento della aspirazione di ogni uomo, scritta nel cuore di ogni
uomo: Dio. La gioia di sentirsene figli. La dolcezza di sapersi amati. Questa è
la meta. L’unica meta per cui vale sacrificare la vita.
Confessiamolo:
quante volte anche noi adulti non abbiamo avuto il coraggio di guardare così in
alto? E abbiamo ripiegato su altre mete più “accessibili”.
Ecco
si tratta di recuperare questo coraggio.
Di
saper scegliere per noi Dio, di saper indicare agli altri Dio. E niente altro.
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