venerdì 1 marzo 2013

E ora finalmente lasciate che vi parli del "mio" Benedetto XVI (Prima parte)


Quando gli vidi mettere il pallio della sua elezione papale sull’urna di papa Celestino V, all’Aquila, capii subito che lo avrebbe seguito in quel gesto: perché il dono di quel pallio era in un certo senso il modo per riabilitare la figura dell’eremita Pietro da Morrone (qualora ce ne fosse di bisogno, perché la Chiesa venera Celestino come Santo, ma forse per spingere la tradizione tutta italiana a smetterla di applicare a Celestino il verso dantesco “di colui che per viltà fece il gran rifiuto” e che in verità non indica affatto la figura di questo santo papa) e quindi di far leggere positivamente il gesto della rinuncia al papato da parte di un romano pontefice. Fu un pensiero che non osai confessare nemmeno a me stesso e che, quando ritornava, per la suggestione di altri segnali che il papa mandava, rifiutavo di accettare perché l’affetto che ho sempre provato per lui mi spingeva a sperare che questo gesto fosse stato da lui ipotizzato ma non realizzato o comunque messo in atto il più tardi possibile.
Il mio timore (ma anche la mia certezza) si sono acuiti quando l’anno scorso due giornalisti, Socci e Ferrara, avevano il primo dato la notizia che il papa si stava preparando alla rinuncia e il secondo che la considerava come verosimile, anzi la auspicava come il colpo d’ala che avrebbe dato visibilità e futuro al magistero di Benedetto XVI facendolo uscire dalle secche in cui una curia inefficiente e un episcopato inetto l’avevano fatto incagliare. Li presero per sciacalli che infierivano impietosi su un papa ancora vivo e un papato fecondo. Ma questo rivelava il fatto che tanti, dentro e fuori la Chiesa avevano (e hanno) continuato a leggere l’operato di questo papa in modo superficiale e sbrigativo, lasciandolo ingabbiato in quei pregiudizi con cui la stampa, ma anche una parte dell’opinione pubblica ecclesiale, lo aveva rinserrato, prima nel servizio alla Congregazione per la Dottrina della fede, e poi nel suo ministero petrino.
E’ come se, per applicare la sua stessa immagine da lui usata a proposito del Concilio, ci fossero stati il Papa Benedetto “vero” e quello “mediatico”, cioè quella mediato dai mass media (a volte magari strumentalmente usati da certe frange di ecclesiastici senza scrupoli: ricordate il caso Boffo?) che ci hanno data del papa un’immagine falsa e preconfezionata, o quantomeno superficiale perché il peccato originale di tanti vaticanisti (ma di tanti giornalisti e non giornalisti in genere) è quello di parlare per stereotipi e luoghi comuni, applicando cliché e frasi fatte, senza mai prendersi la briga, ad esempio, di andare a verificare quello che veramente avesse detto il papa in un suo discorso o in una sua omelia. Così se un giornalista fa un lancio facendo dire al papa una evidente e impensabile scempiaggine, tutti lì pronti a seguirlo senza scrupolo alcuno.
Invece il pensiero del teologo prima e del papa dopo è stato un pensiero così lineare e limpido che ci voleva poco a comprenderlo per quello che era realmente. Ma per chi è ammalato di dietrologia o è vittima dei suoi stessi pregiudizi, non c’è chiarezza che tenga: proprio per ciò si è avverato il paradosso evangelico che proprio i dotti non hanno compreso la grandezza di questo papa, e invece è stato amato e compreso dalla gente semplice, come dimostrano i suoi viaggi, dati sempre in partenza per fallimentari dalle intellighenzie  e poi rivelatisi sempre come veri trionfo di popolo; come dimostrano le sue udienze del mercoledì sempre super affollate in cui ha superato gli stessi record di presenza stabiliti dal pontefice precedente (ma chi lo ha mai detto?); ma come dimostra soprattutto l’affetto della gente umile che nelle due ultime settimane di pontificato ha voluto far sentire al papa la sua gratitudine e la sua vicinanza (e questo ha talmente commosso il cuore del papa che nella sua ultima udienza ha detto che più che dalle lettere dei potenti della terra è stato toccato dalle lettere della gente semplice che gli hanno aperto il cuore come ad un padre, un fratello un amico, ché questo si è sempre considerato e mai il re dell’ultima monarchia assoluta dell’Occidente).
A ben considerare, appunto, il fascino di questo papa è stato il saper conservare il suo animo di fanciullo, di un credere così ampio e articolato, fecondato dalla ratio,  che dalle alte cime della speculazione filosofica e teologica sa trarre il nutrimento per la sua fede, di una fede che niente altro vuole essere se non l’esperienza di un abbandono filiale tra le braccia del Padre. Una fede riassunta proprio in quella preghiera del mattino che magari tanti teologi e preti snobbano come esempio di una pietà devozionistica e che lui invece ha citato proprio nella sua ultima udienza come espressione della confessio fidei della Chiesa e del singolo credente. Confesso che in questo ho sentito ancora di più la sua vicinanza: perché quel “Ti adoro mio Dio e ti amo con tutto il cuore, ti ringrazio di avermi creato, fatto cristiano...” ha tutto il sapore dell’infanzia, sono le parole che la mamma ti mette in bocca per educarti a sentire la tua vita sotto lo sguardo di Dio (ma lo fanno ancora?), sono le parole con cui ancora io prego, le prime parole al risveglio, nelle mie albe solitarie, spesso le uniche quando l’amarezza ti spezza il cuore, e tu in quella preghiera ti senti accanto mamma e papà e insieme nel grembo di Dio.
Già, papà e mamma, i genitori e l’esperienza di una famiglia serena che Papa Benedetto ha portato sempre nel suo cuore, al punto di rispondere, a chi glielo domandava, che per lui il Paradiso sarà il recupero di quella gioia serena di quando da piccolo andava per i boschi con i suoi genitori e suo fratello e sua sorella nei giorni di festa. Se per assurdo avesse detto solo queste parole nel suo magistero lo avrei amato solo per queste: perché in queste ho ritrovato anche la mia pena e il mio dolore e tutta la voglia di andare in cielo dove poter riprendere a passeggiare coi mie genitori.
Che questa è stata la grandezza di papa Benedetto: di saper dare suono e parola e forma a quanto ognuno di noi ha spesso sentito e non è mai riuscito ad articolare ed esprimere. Parlando col cuore, dal suo cuore, per toccare il cuore della gente. Cor ad cor: con le parole del Cardinale Newman che lui ha voluto beato.
E un cuore così non può concepire il male (a proposito del suo maggiordomo ha appunto detto che gli riesce proprio incomprensibile quanto ha fatto): quanto siamo lontani dal panzercardinal o dal pastore tedesco, come ci hanno far voluto credere concepisse il suo ruolo di difensore della fede! Un difensore che non ha mai condannato nessun eretico né ha mai mandato al rogo (nemmeno mediatico) nessun teologo: l’unica punizione che riuscì ad “infliggere” a Leonardo Boff, uno dei preti marxisti padri della teologia della liberazione in America latina, fu invitarlo a Roma a prendere il caffè con lui mentre cercava di comprendere le sue tesi, che erano più manifesti politici che riflessioni teologiche, tanto mondane che da lì a poco il detto lasciò i francescani e prese moglie.
Perché se c’è una caratteristica di base, che tutti ammettono, anche chi è lontano dalla fede ed ha avuto modo di incontrarlo, è la sua dolcezza e la sua umiltà.
Ero diacono, e fui chiamato a servire presso la chiesa dei Rogazionisti a Roma per la festa di Sant’Antonio da Padova. La doveva celebrare il cardinale Ratzinger. In sacrestia eravamo tutti tesi e in silenzio aspettando il suo arrivo. Poi abbiamo visto un volto che si affacciava ed un uomo minuto che entrava in punta di piedi, facendo un cenno di stare comodi, quasi scusandosi lui di stare per scomodarci. Lo aiutai a rivestirsi dei paramenti in silenzio, intuii che lui già pregava. Sono stato così coinvolto ed ammirato del suo modo di celebrare che rimasi quasi imbambolato. Tra me e me dicevo: starà ridendo di me per la mia goffagine. Perché non potevi fare a meno di farti attrarre dai suoi occhi. Perché lui ti guardava: si, ti parlava con lo sguardo. Ho incontrato tre volte Giovanni Paolo II ma non sono mai riuscito ad intercettare il suo sguardo: in tutte le foto ricordo che ho si vede come non ti guarda, fissa altrove… al punto da chiederti se realmente ti avesse visto, lo avessi  incontrato. Con Ratzinger no: tutta la sua minuta figura è là, concentrata nel suo sguardo…
Dopo la messa ci fu la processione e lui inaspettatamente disse che rimaneva: girammo per il quartiere tuscolano e sembrava una delle nostre processioni, la banda dei vigili urbani di Roma, i canti della gente, le bombe… e lui divertito e sorridente come un bambino (poi compresi dai suoi scritti che questo gli ricordava la sua Baviera, la sua infanzia, l’essenza del cattolicesimo che mette insieme per la festa del santo la messa e la sagra paesana: ah quanto abbiamo ancora da apprendere da lui!).
Avevo letto la sua intervista a Messori, Rapporto sulla fede, gli avrei voluto dire che condividevo la sua analisi sulla situazione della Chiesa… ma gli rimasi accanto imbambolato senza saper pronunciare una parola, solo guardandolo… ogni tanto certo  si accorgeva che lo guardavo e mi sorrideva. Poi al rientro ci salutò timidamente uno per uno, informandosi: gli dissi che ero al Collegio Lituano per studiare diritto canonico alla Gregoriana: “bene, bello, auguri per i suoi studi”. Riuscii a dire solo grazie e notai che dava del Lei a tutti, anche ai giovani ministranti. Non volle rimanere per il rinfresco e allora scoprii una cosa: mi dissero che mai nessun parroco era riuscito a fargli accettare una busta, un’offerta, un invito a cena dopo una festa, dopo una cresima, mai! Mi dissero: fa una vita parca, ritirata, da monaco. E quanto non spende per libri va in carità. Non frequenta salotti, non si è fatto intruppare in nessuna cordata curiale, non è espressione di nessuna lobby, si tiene al largo dal chiacchiericcio mondano, specie da quello ecclesiale.
Se prima ero stato conquistato dal Ratzinger intellettuale, adesso cominciava ad affascinami anche da uomo e sacerdote.
                                                  (continua)

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