mercoledì 7 gennaio 2015

feste finite...

Scrivo ancora sotto l’effetto-choc del Natale: anche per quello che di per sé dovrebbe significare e che più non significa (ma ci pensate: come si può  pensare alla nascita di un Bambino celebrando un vecchio, che poi nella provincia babba è pure offensivo chiamare babbo, che sa dispensare solo regali a comando? Sono i miracoli della civiltà dei consumi a cui cristianamente noi diamo una mano!). Ma la fede è un fatto personale e su questo non voglio fare prediche a nessuno.
Ci sono però dei risvolti che credo ci  tocchino al di là del fatto personale per diventare quasi fatti di costume: mi domando però se i costumi sia lecito solo subirli (un po’ come subiamo la moda che ci fa vestire una volta così e una volta cosà ) o se non ci sia data invece la possibilità di sceglierli, di indossarli oppure rifiutarli o, meglio ancora modificarli.
Non capisco ad esempio la pratica generalizzata degli auguri di natale: possiamo scambiarci auguri tra chi non crede che il Dio si sia fatto uomo o che comunque questo gli risulta indifferente? Ma in questo caso cosa dobbiamo augurarci? Chi mi incontra in occasione del Natale sa con quanta ritrosia mi assoggetti a questi riti augurali, con benevoli assalti di baci e abbracci: non per paura di contagi, ma per paura di porre gesti  ipocriti. E così a Natale finisco per augurare solo buon anno! Questo sì, lo faccio volentieri, perché c'è sempre da sperare che le cose (e gli uomini che si nascondono dietro le cose) migliorino.
Vivo perciò con insofferenza questi giorni di buonismo, arrabbiandomi per i marciapiedi occupati da vasi ed alberi che ti obbligano fare pericolose gimkane (ma i marciapiedi non erano una volta solo per i pedoni?), o rassegnandomi a vivere in un paese di zombie perché le persone che incontri mostrano le occhiaie e tutti gli altri visibili segni  delle lunghe veglie passate a non attendere più nessuno e niente che non sia una vincita al gioco (ma è tutta qui la speranza?). O al vedere come anche questa sia una buona occasione per fare un po’ di folklore quali certi “presepi viventi” che di presepe hanno solo la grotta della natività appiccicata a scene da museo etnografico delle tradizioni popolari. Rimpiango i grandi dipinti della natività o i presepi dei secoli passati dove l’incarnazione era veramente un inserimento nella storia di un popolo (i dipinti del trecento ci mostrano la civiltà del trecento, quelli del seicento la civiltà del seicento e lo stesso si dica dei presepi: noi nel duemila rappresentiamo l’incarnazione nell’ottocento, non riuscendo a fare né un discorso solo storico, perché dovremmo ricostruire solo l’ambiente giudaico dell’epoca, ma avrebbe  senso?), né un discorso culturale perché quella cultura che noi rappresentiamo, con buona pace di tutti (anche di quelli a cui ancora piace la mangiata della ricotta calda nell’ambiente bucolico) non c’è più. Pensavo proprio questo salendo per le stradine della cavuzza di san Guglielmo dove le abitazioni e le grotte artificiali si mescolavano a quelle vere, a quelle in cui ancora oggi la gente vive in dignitosa povertà, vedendo come persone per sbaglio entravano in queste piuttosto che in quelle, o vedendo la gioia di un vecchietto nel vedere che tutti si fermavano a guardare il presepe dalla porta spalancata: forse proprio queste case sono state oggi le vere grotte del presepe, lì certamente bisognava cercare come i pastori o i magi il Dio che si è fatto uomo, accanto ad una mamma che ancora allatta, ad una vecchia che più non fila e che forse tesse ormai solo la trama dei ricordi, a quelle persone umili e semplici che sanno che non per due giorni l’anno ma per sempre Dio rende protagonisti della sua storia.
 Ora le feste sono finite (l’Epifania se le porta via si dice) e siamo stati richiamati alla dura realtà della vita quotidiana: e ogni volta il “rientro” non è indolore. Mi domando se questo sia giusto, se proprio non avesse ragione Pascal quando afferma che il problema di tante crisi di identità è proprio del divertessement, del divertimento, del tentativo che continuamente fa l’uomo di divergere, cioè di allontanarsi dal suo centro, dal suo io spesso non accettato, per trasferirsi in qualche paese delle meraviglie o dei balocchi: ma sono paesi dove non si può vivere per sempre. C’è sempre il biglietto di ritorno compreso nel prezzo, a meno che il divertimento non diventi alienazione e qui complichiamo le cose… Ma il divertimento non educa alla responsabilità, anzi: chi è stato a Disneyland ne sa qualcosa del tipo di mondo che viene proposto. Mi domando se la colpa sia di chi cerca il divertissement o di chi glielo offre. La Chiesa in  questo senso forse qualche   peccato deve confessarlo, ma certo non è la sola: tanti altri pensano che al popolo basti offrire alcuni ludi circenses ogni  tanto (penso che la droga di stato vada in questa direzione)… ma qui i discorsi vanno sul difficile. Forse è meglio smettere qua e dirci arrivederci alla prossima volta.




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