Se c’è una immagine che mi rimarrà impressa nella memoria
sarà quella delle tredici salme degli eritrei annegati nel loro tragico sbarco
sulla spiaggia di Sampieri composti nel semplice feretro di legno rivestiti da
un lenzuolo bianco offerto da altrettante mamme di Scicli. Non lenzuola usate,
da scarto, ma lenzuola nuova, ricamate, del corredo buono di famiglia: una
signora mi ha detto “questo lenzuolo l’ho usato solo per la nascita di mio
figlio, all’ospedale; ora voglio che ricopra un altro figlio di mamma morto
lontano dai suoi genitori”. Tredici lenzuola di mamme per tredici figli di
mamma: non extracomunitari, non forestieri, non sconosciuti, tredici figli con
nome e cognome, nel fiore della giovinezza, morti sulla nostra spiaggia in
cerca di una sorte migliore. In quei tredici lenzuoli vedo espresso l’abbraccio
di dolore, di affetto, di solidarietà che si è stretto non solo intorno alle
tredici vittime, ma anche a tutti gli altri fratelli eritrei che sono sbarcati
con loro e ai parenti e agli amici che sono in seguito venuti a Scicli per
riconoscere e piangere i loro morti.
So che parlando di queste cose c’è il rischio di accentuare
i toni del sentimento o di cadere in una sorta di autocelebrazione, però è
anche vero che il bene va narrato perché fecondi e generi altre storie di bene.
Non finiranno forse sulle prime pagine dei giornali, non
riceveranno medaglie o elogi ufficiali, però è giusto dire di quanti in quella
spiaggia di Sampieri – prima ancora che arrivassero gli aiuti ufficiali – si
sono prodigati davvero nella prima accoglienza (quanti altri ne sarebbero morti
se non ci fosse stato chi dalla spiaggia si fosse buttato subito in acqua, che
oltre a dare acqua e cibo ed abiti asciutti, è stata prodiga di affetto e
sorrisi, di braccia spalancate ad abbracciare e rincuorare; è giusto dire del
parroco di Sampieri che oltre a benedire le tredici salme è stato lì a
vegliarle tutto il giorno, finché non sono state trasferite al cimitero; è
giusto dire della cura con cui le salme sono state accudite e curate al
cimitero di Scicli da operatori che sono andati al di là di quanto richiesto
dalla loro mansione; è giusto dire di quanti hanno offerto la colazione e il
pranzo ai parenti delle vittime, li hanno accolto gratis nei loro B&B,
hanno pagato loro il biglietto dell’autobus, di chi è andato a portare fiori e
lumini al cimitero, di chi ha partecipato al loro funerale come se si trattasse
di persone di famiglia.
Ma io
potrei parlare delle lacrime raccolte nelle confidenze personali dei
sopravvissuti, dei loro sguardi e delle loro emozioni: potrei dire che sono
stato io ad accogliere loro, ma in realtà sono stato io ad essere stato accolto
nei loro cuori. E confesso che per me è stato una grazia
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