Ho una sveglia strana sul comodino: quando accendo di
notte la sua lucina, impartisce un comando alle sue lancette imprimendo loro un
moto antiorario. Così ad esempio se la prima volta accendo alle sei e controllo
dopo un’ora, la seconda volta scopro che sono le cinque, cioè un’ora indietro
invece delle ore sette come dovrebbe regolarmente segnare. Confesso che un paio
di volte, quando ancora non avevo scoperto tale meccanismo (ché invece se non
tocco il comando della lucina tutto funziona alla perfezione) ho quasi mancato
gli appuntamenti fissati! Per questo, dopo aver scoperto l’inghippo, ho dovuto
sciogliere un dilemma: o cambiare sveglia o convivere con questa sua
peculiarità. E’ andata per la seconda ipotesi. Perché non mi attira tanto la
curiosità della cosa (non sono proprio esperto di problemi di fisica e di
meccanica) ma è perché mi ha solleticato
un po’ quella specie di riflessioni a
metà tra il filosofare e il semplice “oziare pensando” che ora voglio
condividere con voi. Partiamo dal fatto: la mia sveglia mi riporta indietro nel
tempo: certo lo fa per un difetto meccanico e non per darmi il piacere di farmi
rimanere un po’ di più a letto, né perché ha coscienza di tutti i tentativi
fatti di poter viaggiare avanti e indietro nel tempo (e speriamo che non sia
manovrata neanche da un diavoletto in vena di scherzi). Eppure se io spegnendo
la sveglia mi riaddormentassi convinto di aver ancora tanto tempo cosa
succederebbe? Sarebbe un’ora di sonno perso o riguadagnato? Certo il risveglio
mi riporterebbe alla dura realtà: ma allora il tempo che ho vissuto cosa è
stato? E, ancora più in profondità: quando posso definire “mio” il tempo che
vivo? Non si tratta di andare alla ricerca del tempo “perduto” o solo
“passato”: Proust ha scritto già tanto in proposito e credo che non si possa guardare al passato
solo in vena di nostalgia o di rimpianti. Che il tempo scorra – e che noi
scorriamo col tempo e nel tempo - è un dato di fatto. E che la vita poi abbia i
suoi tempi – e tutti da vivere pienamente – ce lo ricorda il Qoelet: “un tempo
per nascere, un tempo per morire, un tempo per ridere, un tempo per
piangere…” Quello che mi preoccupa oggi
è una sorta di espropriazione del tempo di cui noi oggi siamo un po’ tutti
vittime: o meglio, del senso stesso del tempo ( già il romanzo Momo aveva dato
voce a questa preoccupazione). E parlando del tempo chiaramente mi riferisco
non solo alla mera scansione di secondi, minuti ed ore e giorni e mesi ed anni…
vissuto in questo modo il tempo non si riduce che ad una serie di scadenze,
appuntamenti, impegni da rincorrere e da non mancare (vi ricordate del coniglio
in perpetuo ritardo del Paese delle Meraviglie di?) in una continua e
progressiva alienazione da se stessi. Mi riferisco al tempo nel senso in cui ne
parlava S. Agostino, come misura delle emozioni e dei sentimenti del cuore. E’
in questo senso che si dice che ognuno ha i suoi tempi, i suoi ritmi, il suo
modo di vivere anche questa dimensione della vita. Perché le emozioni non si
possono bruciare, si devono vivere e gustare fino in fondo, centellinandole
pian piano come un buon bicchiere di vino. Costretti a scappare da un impegno
all’altro, da un luogo all’altro, sempre di fretta, spesso siamo obbligati
quasi a non dare conto o sfogo alle nostre emozioni. E così non ci accorgiamo
neanche di vivere. Mi hanno raccontato di un esploratore che per salire sulle
Ande aveva assoldato due guide indigene pianificando i chilometri da percorrere
ogni giorno. Per i primi giorni tutto va bene. Poi le due guide si accamparono
e per due giorni non si vollero muovere. Interrogati risposero: “stavamo
andando troppo in fretta e le nostre anime facevano fatica a seguirci! Abbiamo
dovuto aspettarle!” In un tempo in cui il valore è dato dal “fast” (e non solo
food) credo occorra un ritorno allo “slow”: c’è chi ha scritto in proposito un
“elogio della lentezza” che condivido in pieno. Confesso che se c’è una cosa
che mi fa arrabbiare è quando qualcuno mi mette fretta per cose che invece
occorre fare con calma. Si dice: “non rimandare a domani quello che puoi fare
oggi”: e se lo riformulassimo in “non anticipare ad oggi quello che puoi fare
ugualmente domani?”. E se recuperassimo il senso del riposo? Non è questa la
motivazione anche della festa domenicale? E ancor più del riposo sabbatico per
Israele? Occorre oggi recuperare la qualità della vita e quindi anche del
tempo. Chi sarà il nuovo Giosuè che avrà il coraggio di ordinare “fermati,
uomo?”
CATHOLICA FORMA : Non basta dirsi cristiani. Il credere deve avere una forma. La forma cattolica è il modo in cui la sostanza della fede cristiana prende corpo nel cuore dei credenti. Questo spazio vuole essere un luogo per mostrare la bellezza della fede cattolica.
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