sabato 10 giugno 2017

Avinu, Abramo nostro padre

Ho ancora davanti ai miei occhi l'illustrazione con cui si apriva il mio catechismo di Aspirante di Azione Cattolica: una tenda da beduino nel deserto, un bellissimo cielo stellato, Abramo davanti all'ingresso della tenda, in piedi col bastone in mano. II Titolo: Esci dalla tua terra. II testo presentava l'inizio della storia del popolo ebraico a partire dalla chiamata di Abramo (il catechismo avrebbe poi continuato a presentare una tappa di questo cammino per lezione attraverso i personaggi più importanti: Giacobbe, Giuseppe, Mosè, Davide, i profeti fino alla nascita di Cristo). II commento finale del capitolo mi colpì: siamo tutti figli di Abramo nella fede. Ricordo l'emozione di allora: è come se finalmente avessi ritrovato l'antenato illustre della famiglia, come se adesso sapessi finalmente chi ero, in quale storia ero inserito, incontro a chi stavo andando. E' stato questo il mio primo incontro con Abramo: e da allora abbiamo camminato insieme. Perché - mi si passi l'immagine - è come se mi portassi dentro un'amicizia e un affetto per quei miei nonni che non ho conosciuto. Negli anni dell'infanzia Abramo è stato un po' il nonno mitico a cui fare riferimento. E negli anni in cui si sognano le avventure in modi sconosciuti, sapere di essere i! discendente di un Abramo sempre in cammino verso la terra promessa era certo allettante e stimolante. Fu così che, prima ancora di conoscerne teologia e destino, imparai a sentirmi "spiritualmente" ebreo nel senso di sentire un'appartenenza a un popolo nella cui vicenda umana si possono leggere le orme di Dio. Perché sentivo che la mia appartenenza alla Chiesa e la Chiesa stessa era lo sbocco naturale della storia di Israele e del cammino cominciato con Abramo. Senza soluzione di continuità. Tanto forte il senso del battesimo quanto quello del sapere che le mie radici vengono dalle promesse fatte da Dio ad Abramo. Non è Gesù stesso ebreo figlio di Abramo, non è il cristianesimo figlio dell'ebraismo? Sarà stata la mia ingenuità infantile, ma confesso che non ho mai sentito antinomia fra le due appartenenze e col crescere mi meravigliavo nell'apprendere quale triste sorte di equivoci avrebbe assegnato la storia a ebrei e cristiani. La lettura del Diario di Anna Frank mi rivelò poi la tragedia dello sterminio folle e immotivato di milioni di ebrei: da allora ho sentito quasi la necessità di un impegno forte verso l'ebraismo che contribuisse a estinguere questo debito morale di ingiusta persecuzione verso un popolo tuttora amato dall'Onnipotente. E lo stesso infantile dispiacere per il mancato riconoscimento di Gesù come il Messia atteso da parte degli ebrei pian piano con gli anni ho avuto la grazia di reimpostarlo nell'ottica del mistero divino di cui parla San Paolo nella Lettera ai Romani: l'indurimento del cuore degli ebrei che permette l'annuncio dei vangelo ai pagani. Se San Paolo ha ragione allora il mio debito verso il popolo ebraico aumenta: la mia esperienza di grazia, per me pagano, è stata possibile solo da questo atteggiamento degli ebrei? Ma con Paolo, il cristiano e il fariseo insieme, sogno che avvenga presto il momento del nostro incontro nell'unico padre: Abramo, pur essendo figli di madri diverse. Già, Abramo: ogni cosa riconduce a lui. I! sentirmi idealmente a lui legato mi ha personalmente aiutato nel mio cammino di crescita e di maturazione, sia umana che vocazionale nella fede. A qualcuno potrà sembrare strano, eppure le pagine della Genesi che raccontano la sua storia spesso sono state sfogliate da me più dei vangeli stessi. Da Abramo ho appreso come la fede è anzitutto silenzio, obbedienza e cammino. Mai dato certo e acquisito. Prima che conoscessi la "spiritualità della strada" dello scautismo e de! roverismo, la meditazione della vicenda di Abramo mi aveva spinto ad elaborare una mia "spiritualità della strada" : negli anni in cui lo stile hippy "on the road" alla Jack Kerouac imperava scoprivo che prima ancora di questi "vagabondi del Dharma" un altro aveva avuto il coraggio di darsi non al vagabondaggio senza meta ma di mettersi in cammino rischiando sulla parola di uno sconosciuto. E così mi sono spesso ritrovato ad inoltrarmi nei territori sconosciuti della fede, tra il vago ricordo di un richiamo sentito e l'attesa di una voce che tornasse a parlare: nel mezzo il silenzio di Dio che mette a dura prova i! cuore dell'uomo. E allora lo cerchi scrutando le stelle: ma sai che non puoi contarle senza rischiare di trasformare il tuo atto in una insolente disfida alla promessa di Dio (questo per me era il senso della superstizione popolare che proibisce di contare le stelle): è Dio che lancia la sfida ad Abramo, a noi non è concesso raccoglierla. Così poi !a stessa tentazione della scorciatoia, di abbreviare i tempi della promessa (quasi dando una mano all'inadempienza di Dio) - cos'altro è la soluzione di Sara a volere un figlio da Agar? - è stata la tentazione ricorrente nei tempi in cui il cuore non sapeva più sopportare l'attesa: "Signore, che mi darai?" questa gemente preghiera della notte di Abramo è stata in lunghe litanie di giorni anche la mia preghiera. "Ecco muoio e tu mi lasci senza erede": il querulo lamento delle ore in cui sembra di essere quasi alla fine del cammino e di non aver concluso niente: 'tutto qui Signore, quello per cui mi avevi chiamato? Solo fatica: e la meta, e le tue promesse?" Credevo che pregare fosse solo dire belle cose a Dia, che non fosse giusto stare lì a lamentarci, quasi a fare i capricci: Abramo però mi ha insegnato che i veri amici di Dio hanno il coraggio di parlare con lui nella franchezza. Da allora ho appreso anche a lamentarmi con Dio, quando sempre tardare G mantenere !e promesse E anche ad intercedere, come Abramo: ripenso all'emozione avuto nel leggere la prima volta la lunga intercessione di Abramo per Sodoma e Gomorra (e poi si dice che il Dio dell'Antico Testamento non conosce l'amore e il perdono!). Ma poi si scopre che questo fa parte del gioco di Dio. Che quando credevi di non poter più ridere ecco che Dio ritorna a farti sorridere, ti ridà la gioia: Isacco, cioè "sorriso". Anche se devi imparare che il sorriso, i frutti del ministero, i tuoi figli spirituali ti sono dati eppure non sono tuoi! Perché anche su di essi pende la spada del progetto divino. "Prendi il figlio, quello che tu ami, e offrilo in sacrificio": sto imparando che o si riesce a leggere in questa frase tutto il mistero della vita sacerdotale o tutto si riduce all'esercizio di una professione fra le tante. Qui c'è il senso del celibato per me, il senso di una fede che deve imparare ad essere solo dono. Abramo sa che può "sfruttare" la sua amicizia con Dio a beneficio degli altri, ma sa che non può usarla per esimersi dal compiere lui stesso la sua volontà. Non si può dire a Dio: "a me proprio questo non dovevi chiederlo". E' il mistero dell'amore di Dio che lascia crocifiggere i figli che ama! Ma in questa capacità di saper offrire tutto in dono (l'olocausto è il sacrificio in cui tutto viene bruciato a Dio senza tenere niente per sé) credo che stia tutta la maturità umana e di fede di un uomo. Tutto dare, niente trattenere per se. Per questo penso che l'esperienza di Abramo sia esemplare per ogni esperienza di paternità: ho voluto sottolineare questo in occasione del funerale di mio padre volendo che si proclamasse proprio questa lettura del Sacrificio di Isacco, quasi a rileggere in questo episodio la stessa accettazione di mio padre che offre me, figlio unico, al Signore nel sacerdozio. Ma la paternità di Abramo credo che sia esemplare anche della paternità stessa di Dio: mi ha fatto impressione l'espressione ebraica che consegna i morti "nel seno di Abramo" piuttosto che in quello di Dio, a meno che l'esperienza del seno di Abramo non sia l'esperienza stessa del seno di Dio! lo credo di si, se il cuore di Abramo è pronto a sacrificare il figlio allora può benissimo essere l'immagine del seno di Dio che dona il proprio figlio sulla croce: non !'avevano inteso così già ì padri della Chiesa? Abramo, nostro padre nella fede: perché credette nelle parole del Signore. Cioè ebbe fiducia, si fidò di Dio. Abramo, mio padre nella fede: da lui continuamente imparo a fidarmi di Dio. E da lui imparo che la "giustificazione" non proviene dai miei meriti. "Perché si deve il titolo di padre ad Abramo e non agli altri?" domanda un midrash: "perché Abramo non parlò, ma fece" è la lapidaria risposta. E il fare di Abramo è il coraggio di mettersi in cammino e di assumersi da adulti i! coraggio delle proprie scelte: "Perché Abramo è diverso da Noè?" domanda ancora il midrash: "Perché Noè camminava con Dio (= Dio lo teneva per mano, quindi era ancora bambino) mentre Abramo cammina davanti al Signore (= è adulto, sa camminare da solo) è la significativa risposta. Ed essere adulti significa avere il coraggio dell'interiorità: "Lek lekà" comanda Dio ad Abramo che si può leggere come un rafforzamento dell'imperativo "Vattene" oppure come si legge nel Talmud "Va' in te" E "ritorna in te stesso" non è il comando di Agostino per la conversione ? II primo cammino e la prima partenza è dentro il cuore: qui ognuno ha la propria Ur e la propria terra promessa. Abramo, avinu, padre nostro ci aiuti ad intraprenderlo sempre.

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