domenica 28 maggio 2017

Cristo, la cultura e Buchowski

Ho rivisto per Pasqua il film La Passione. Ho ricordato le polemiche che lo accompagnarono alla sua uscita (<<troppo crudo>> si disse allora) e ho notato ora invece l’indifferenza generale per la sua rimessa in onda. Eppure è un film che 
ha comunque richiamato in me quel principio che personalmente a me sta tanto a cuore e che dovrebbe stare a cuore di tutta la Chiesa e di tutti i cristiani, di qualsiasi confessione: è quello che in teologia viene chiamato come Legge dell’Incarnazione. Ho usato il condizionale, parlando di Chiesa, perché uno dei rischi che oggi è più paventato da tanti acuti osservatori del fatto cristiano, sia credenti  sia non credenti o comunque non praticanti (quale ad esempio Massimo Cacciari che in diverse interviste sta difendendo – a volte forse più degli stessi uomini di Chiesa – il proprio, l’essenza del cristianesimo che è lo stesso Cristo) è che l’esperienza cristiana sia ridotta ad una etica, una morale, fosse anche una religione tra le tante, ad una via di conoscenza (gnosi) intellettuale, a pura ideologia o filosofia. Così facendo si snatura la fede cristiana che non è fondata né su principi o su valori astratti, fossero anche i più belli, ma su un uomo, Gesù  di Nazaret che la fede ci fa confessare come il Verbo rivelatore dell’unico Dio Creatore del mondo e Signore della storia. Nonostante quello che si dice il cristianesimo (e l’ebraismo da cui deriva ma da cui nettamente si stacca) non è una religione del libro (termine improprio creato da Maometto per accreditare il Corano come libro sacro e acriticamente ripreso purtroppo anche da commentatori cristiani): la Bibbia (vangeli compresi) non è tanto importante per se stessa (e quindi parola di Dio tout court: altrimenti cadremmo nel fondamentalismo letteralista) o per le belle espressioni o i bei principi in essa contenuti; il cristiano anzitutto vive nella fede il suo incontro personale con il Cristo, e sa che la Bibbia è solo una testimonianza della sua incarnazione. Se anche non avessimo più vangeli o non avessimo neanche una parola di Cristo la mia fede in lui non verrebbe meno, perché quello che conta non sono le parole che lui ha detto, ma il gesto d’amore con cui lui mi ha salvato sulla croce. Se Cristo avesse scritto mille libri sull’amore ma poi fosse morto di vecchiaia nel suo letto certo la sua morte non avrebbe avuto il  valore salvifico che tutti noi attribuiamo invece alla croce. Comprendere ciò significa essere veramente cristiani ed evitare di leggere il film di Gibson (per me il più bel film sulla passione finora visto) con pregiudizi tendenziosi ed equivoci (anche strumentali). Dio ci salva in Cristo assumendo l’umanità e il suo peccato e quindi anche la morte e il dolore: questo si afferma quando si dice che il Verbo si è fatto carne. Perché tutto ciò che l’uomo sente e sperimenta lo prova attraverso la carne: l’incarnazione è il gesto appassionato di un Dio che ama l’uomo per quello che è, senza nessun astrattismo. Guai a dimenticarlo: l’uomo è carne (e la tradizione biblica rifugge dal dualismo anima – corpo di origine platonica che tanti danni ha poi causato nel pensiero e nella prassi ecclesiale al punto di interessarsi solo della cura animarum!) e il cristianesimo, con l’affermazione che il nucleo centrale della fede è l’incarnazione e la conseguente resurrezione della carne (e non tanto l’immortalità dell’anima, anche questa frutto della speculazione filosofica greca) è il materialismo antropologico più radicale che mai si sia avuto nella storia e l’inno alla materia più bello che sia stato mai scritto. Ma l’incarnazione è legge non solo per Cristo ma anche per la chiesa che da lui prende le mosse: la Chiesa non può non essere e agire se non come lui ha fatto. Questo implica uno sforzo di inculturazione del Verbo in ogni epoca e in ogni civiltà e contesto storico per assumere ogni volta non il “concetto” di uomo, ma questo uomo hic et nunc le sue vicissitudini e la sua storia. In pratica lo sforzo costante di farsi carico dell’altro che comporta la  sua conoscenza piena e diretta: l’inculturazione è una mediazione che non può essere fatta una volta per tutte perché l’uomo e le sue situazioni cambiano e la Chiesa deve calarsi come il buon samaritano ogni volta su un ferito diverso. Ecco perché è grave lo iato esistente tra Chiesa e cultura (e mondo della cultura) ed è ancora più grave che in forza di una malintesa pastoralità tanti uomini di chiesa non coltivino il dialogo con la cultura: senza cultura non si hanno strumenti per potere poi incarnare il messaggio evangelico. E cultura significa entrare in dialogo con tutte le espressioni dell’animo umano. Se già un intellettuale romano poteva dire “sono uomo e niente di umano reputo straniero” a maggior ragione un cristiano non può considerare alieno nessun fatto genuinamente umano. Senza puzza sotto il naso né velo agli occhi. Sono grato al Signore per aver avuto l’opportunità negli anni di seminario di leggere non solo libri di ascesi e di mistica ma anche i libri di Kerouac e di Buchowski: perché  le loro storie di ordinaria follia mi hanno aiutato a capire su quali strade oggi il mondo cammina, strade che purtroppo forse mai incroceranno le strade di Cristo e del Vangelo. E confesso che questo è la mia sofferenza di prete oggi: perché per quanto mi possano piacere Gioia e Cavalcata e Mulici e tonache e piviali, mi si spezza il cuore passare davanti a giovani che vivono alla giornata e che non si fanno minimamente interpellare da quanto succede loro intorno, si sparassero pure migliaia di euro in fuochi d’artificio! Giovani che di Charles Buchowski hanno appreso solo l’arte dello sballo ma non quello che c’era dietro (proprio Buchowski a un giornalista che gli chiedeva cosa cercasse in alcool e droga nella sua ultima intervista rispose: <<Cosa? Dio, naturalmente, e che altro?>>).  Ma è una sofferenza ancora più grande quando una parte di uomini di Chiesa non si fa mettere minimamente in questione da scene come questa, dalle decine di nostri figli drogati e alcolizzati e di figlie ragazze madri o dall’aborto facile, di famiglie che si dissolvono come neve al sole, di bambini e fanciulli (ma anche adulti) educati da spettacoli immorali (no: non pensate ai film porno, perché la reality tv è più sconcia di un film hard) però poi se un prete cita un proverbio popolare si scandalizza! Ma il vero scandalo è che Scicli, con tutto l’Occidente sta morendo di un lento suicidio e nessuno se ne preoccupa! La Chiesa italiana aveva varato il progetto culturale, ma temo che sia rimasto un pio desiderio che nessuno ha veramente compreso e voluto. E forse, nonostante le chiacchiere e le grida altisonanti, perché preferiamo curare di più le nostre buone e care bizzoche che avere il coraggio di uscire dal tempio. Ma il mondo, l’uomo, la storia, sono fuori: e di questo peccato di omissione dovremo rendere conto a Dio.

Qualcuno ancora una volta forse si scandalizzerà per queste mie parole, si chiederà come un prete può avere una visione così tragica della realtà: no, non sono pessimista, anzi, se non ci fossero fede e speranza ad animare le mie giornate chissà da quanto tempo avrei ceduto alla tentazione di smettere di lottare. Ma non mi va stare a guardare senza fare niente, magari immaginando che le situazioni si aggiustino da sole, o di accontentarmi di un minimo da chi invece è chiamato a dare  il massimo e il meglio di se stesso. Perché la Chiesa ha un compito educativo e formativo a cui non può rinunciare, pena la perdita della sua stessa identità. Diciamolo però con franchezza, oggi nelle nostre chiese difficilmente si educa alla fede, non si formano più cristiani che anzitutto sanno in chi e in cosa credono (l’ignoranza è così grande ormai che ce la rimproverano anche i pensatori laici!), o per tenerci buoni i quattro fedeli che ancora ci seguono cominciamo a fare sconti sulle esigenze della sequela: come mi preoccupano certi cammini di fede in cui tutti sono intruppati e plagiati, così d’altro canto temo certe proposte di fede tutta acqua e sapone e in cui ogni problema è risolto solo con sdolcinati sorrisi. Stranamente che la fede, quella biblica, sia un cammino di libertà, di coscienza e di interiorità che comincia con Abramo, che si nutre di Parola, che tende alla santità, che vive di amore e di accoglienza a volte devono essere i non credenti o i non praticanti a ricordarcelo. Dice San Tommaso  D’Aquino che la verità, da chiunque è detta, rimane tale e quale, e allora? E allora siamo al discorso di prima. Per questo non ci rimane che sperare che dalle nostri parti ritorni di moda una parola: responsabilità, cioè prendere sul serio la propria vita e la propria fede, contro tutti i luoghi comuni che sono i buchi neri in cui oggi sprofondano tutte le buone intenzioni!

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