A qualche anno di distanza dal Documento sulla radice
religiosa della violenza, l’augurio della Commissione Teologica Internazionale sembra
quasi essere ripreso da una pubblicazione, quella del Rabbino Jonathan Sacks,
dal significativo titolo Non nel nome di
Dio[1].
Con questo libro, che sembra quasi ripetere il grido, purtroppo tanto
inascoltato dei Pontefici dagli inizi di questo secolo fino a Benedetto XVI e
Francesco, che non si può uccidere nel nome di Dio, anche Sacks, stavolta dal
punto di vista ebraico, ha voluto confrontarsi, come dice nel sottotitolo
stesso, con questa provocazione ideologica sulla radice religiosa della
violenza.
Il saggio del Rabbino Sacks è davvero una voce forte e
chiara che si leva per disinnescare la miccia della violenza terroristica
attribuita indistintamente a tutti i monoteismi. Nato per reagire all’ondata di
terrorismo di matrice islamica che sta scuotendo da alcuni anni l’Occidente[2], il
libro si apre con questa fondamentale affermazione: <<Quando la religione trasforma gli uomini in
assassini, Dio piange>>[3].
Ed è inoltre significativo perché viene da parte di un ebreo che cerca di
superare pure l’idea che ebraismo ed islamismo debbano per forza essere nemici
e che l’islam debba per forza imboccare la strada della intolleranza e della
violenza. Per argomentare le sue tesi, Sacks svolge il suo saggio con un lungo
itinerario su più piani, dallo storico all’esegetico allo spirituale, che si
intersecano tra loro (magari con qualche ripetizione o semplificazione) ma che
alla fine conducono il lettore a convincersi davvero che, se si vuole, ci sono
davvero alternative alla violenza e che tante vie di dialogo rimangono aperte e
tante se ne possono ancora aprire.
Il libro è articolato in tre parti.
La prima parte si intitola Malafede e parte dalla costatazione dell’uso strumentale che spesso
si è fatto e si fa della religione per fini utilitaristici o per logiche di
potere o anche per certe letture ideologiche e fondamentaliste dei libri sacri.
Anche Sacks reagisce alla tesi per cui il politeismo sia la religione della
tolleranza, affermando invece che <<la
religione, sotto forma del politeismo è entrata nel mondo come giustificazione
del potere>>[4]
rilevando come nei riguardi di questa concezione <<il monoteismo abramitico emerse come una
potente protesta>>[5].
Così come reagisce alla tesi che per superare la violenza di cui si dà per
scontato la sua matrice religiosa, si debba togliere la religione dallo
scenario della vita pubblica della società, per sradicarla dalla coscienza
dell’uomo o quantomeno relegarla nella sfera intima e privata della persona.
L’autore cita in proposito[6] la
famosa canzone di John Lennon Imagine che
sogna un mondo in cui non ci sarà più la religione e quindi non ci sarà più
bisogno di uccidere o morire per essa: un sogno che ha affascinato l’intera beat generation ma che ha radici ben più
antiche che partono dall’epoca moderna e dalla rivoluzione illuminista e
passano per lo scientismo positivista, il darwinismo, per sfociare nel
nichilismo di Nietzsche, nei totalitarismi, in ogni laicismo di sorta
accumunati dal solo grido “Dio è morto”
e nel tentativo di imporre con la forza e la violenza un nuovo ordine di
cose. Ironicamente Sacks chiama questo tentativo la malvagità altruistica perché in nome di un presunto beneficio
per l’umanità si perpetrano i più atroci delitti contro la stessa umanità:
basti pensare non solo all’intollerante illuminismo che imponeva il culto alla
Ragione, ma anche alle nuove idolatrie del nazismo e delle varie forme di
comunismo realizzate in alcune contesti geopolitici del mondo, in cui in
definitiva si rivela invece la logica violenta del potere[7].
Pur ammettendo che ci sono stati determinati periodi storici in cui la logica
di potere si è insinuata anche nel cuore dell’esperienza religiosa (si vedano
ad esempio le guerre di religione che hanno insanguinato l’Europa nei secoli
passati) il rabbino americano nega che la soluzione stia nel sognare un futuro
senza religione. La vera domanda, scrive, è chiedersi <<cos’è che, in primo luogo, rende le persone
violente?>>[8].
Per cui nel capitolo secondo Violenza e
identità si riconosce che la violenza è generata dalla malvagità, cioè dal
tentativo egoistico di affermazione e sopraffazione di un individuo sull’altro,
perciò si ribadisce invece la necessità di una esperienza etica che fondi le
regole della convivenza civile, creando le basi per una fiducia reciproca che
superi l’homo homini lupus, magari
supportata da una esperienza religiosa genuina. Cosa si intende qui per
genuinità? Anzitutto il superamento di una concezione dualistica della
religione in cui bene e male sono contrapposti e provengono da opposte radici,
così da far leggere dualisticamente non solo la divinità ma anche il mondo e i
rapporti umani: il rischio è che quando un gruppo umano, ad esempio, identifica
se stesso con il bene, ne deriverà che tutti gli altri gruppi saranno visti
come il male e da qui l’inevitabilità dell’antagonismo che spesso degenera in violenza.
E’ quanto vien detto nel capitolo terzo, Dualismo.
In una concezione dualista, l’identità personale è sempre letta in
contrapposizione all’altro: si pensa sempre con un “io e gli altri” o “noi e
loro”. In fondo, scrive l’autore è un modo semplicistico di ragionare e di
risolvere la complessità dell’esistenza: ecco perché <<il dualismo è un’idea pericolosa, e la
visione tradizionale della Chiesa e della Sinagoga fecero bene a respingerla…
Il dualismo patologico fa tre cose. Fa disumanizzare e demonizzare il nemico.
Porta a vedere te stesso come una vittima. E ti permette di commettere della
malvagità altruistica, uccidendo in nome del Dio della vita, odiando nel nome
del Dio dell’amore e praticando la crudeltà nel nome del Dio della compassione>>[9].
Il superamento del dualismo nell’autentico monoteismo è la condizione,
dunque, per uscire da queste logica di contrapposizione. Monoteismo autentico
si dice, perché, ci avverte Sacks, il dualismo è un virus che si può annidare
nello stesso monoteismo e perciò bisogna sempre vigilare che ciò non accada.[10]
Inoltre, si comincia a comprendere proprio da ciò la radicale diversità del
monoteismo di origine biblica: nel Dio che si rivela nella storia del popolo
ebraico, il dualismo è ricompreso nell’unità stessa di Dio che crea il bene e
il male (per richiamare Isaia), la luce e le tenebre, che sa mettere insieme
sempre in modo originale la giustizia e la misericordia, la vendetta e il
perdono. E’ il superamento del dualismo che può far uscire dalla logica della
ricerca del capro espiatorio,
fenomeno analizzato nel capitolo quarto, e della rivalità fraterna, fenomeno analizzato nel capitolo quinto e
ampiamente studiato da Renè Girard. Ci può essere dunque un modo diverso di
intendere il rapporto personale, che non cada nella contrapposizione dualistica
e nella conflittualità radicale apparentemente insita nella stessa esperienza
della fraternità, come apparentemente sembra suggerirci lo stesso testo biblico
a partire dalle storie della rivalità tra fratelli, da Caino e Abele in poi per
arrivare a Isacco e Ismaele e a Giacobbe ed Esaù Sacks analizza qui i vari
racconti biblici spingendo il lettore ad andare nella profondità del testo,
senza fermarsi alla superficie, per cogliere un senso non apparente e non
scontato del racconto, che anzi spesso si rivela essere l’opposto di quanto
comunemente si intende.
Questa, crediamo, sia la parte veramente originale e
creativa del contributo di Sacks al dialogo e per una spiritualità di pace e
non violenza. E’ la seconda parte del saggio, dal significativo titolo di Fratelli. Il nostro rabbino entra subito nel cuore del
problema, col capitolo sesto I
fratellastri, in cui esamina la vicenda di Agar col figlio Ismaele e di
Sara col figlio Isacco e si chiede se davvero i fratellastri figli di Abramo
siano condannati, e con loro anche i loro discendenti (non dimentichiamo che i
musulmani si rifanno ad Ismaele come al figlio che Abramo stava per sacrificare
e da cui discenderebbero i popoli della Arabia e a cui si attribuirebbe la
stessa fondazione del culto alla Mecca), alla rivalità e alla violenza
reciproca ieri come oggi. Come dicevamo prima, una lettura superficiale
sembrerebbe far dire alla Bibbia che Dio faccia preferenze tra i due fratelli e
che, nella elezione di Isacco ci sia, di risvolto, il respingimento di Ismaele.
Ma Sacks ci aiuta a leggere con attenzione il testo e ci fa notare come, già
nel racconto, Dio accordi protezione ad Agar e al figlio, con la promessa di
una benedizione accordata ad Ismaele e mai revocata. Così che, se Dio poi
scelga di proseguire il patto fatto con Abramo con il figlio Isacco, ciò non
significa l’abbandono di Ismaele al suo destino. E’ la dimostrazione che siamo
in presenza di due vocazioni, di due ruoli storicamente diversi ma che non
sfociano necessariamente nella contrapposizione. Sacks lo dimostra non solo
facendo ricorso al midrash, tecnica eminentemente rabbinica per leggere la
Bibbia anche fra le sue righe, in cui si vede come il padre Abramo, pur nella
scelta obbligata di tenere con sé solo Isacco, non smise mai di amare e di
interessarsi della sorte dell’altro figlio; ma Sacks lo mostra ancor meglio
ricordando un testo biblico spesso tralasciato se non ignorato, quello in cui,
in Genesi 25, si parla della morte di Abramo e si dice che lo seppellirono
entrambi i figli insieme: ciò fa intendere come, in nome dell’unica paternità,
i due figli, pur con destini diversi, sono in grado di vivere una vera
esperienza di fraternità.
Nel segno di una fraternità ritrovata è letta poi, nel
capitolo settimo La lotta con l’angelo, la vicenda di Giacobbe ed Esaù. La storia
dell’inganno e della fuga di Giacobbe è risaputa. Anche qui Sacks, rileggendo
le pagine sacre, mostra come, a ben vedere, le vocazioni e i destini dei due
fratelli sono già delineati e distinti, per cui non ci sarebbe stata ragione
per Giacobbe di invidiare Esaù e insidiarlo per avere la sua benedizione,
quando in realtà per ogni fratello era prevista una benedizione, e quindi una
vocazione diversa. In questo senso, la lotta misteriosa con l’angelo da cui
Giacobbe esce vincitore, seppur sciancato, rappresenta anche il momento in cui
Giacobbe prende consapevolezza del suo ruolo nell’economia del popolo che da
lui si chiamerà Israele, ben diverso da quello del fratello, che perciò può
incontrare in una rinnovata esperienza di fraternità, ricevendo, proprio dal
fratello ingannato, una lezione di magnanimità e di accoglienza, dimentica
della rivalità passata.
Dove poi il recupero della fraternità, nel rifiuto della
vendetta e nella disponibilità al perdono, è messo ancora più in luce, è nel
capitolo ottavo, Il rovesciamento dei
ruoli, con la rilettura della vicenda di Giuseppe venduto schiavo dai suoi
fratelli. E’ una storia che inizia con la gelosia e l’invidia, ma che si chiude
nel segno della fraternità. Per arrivare a ciò Giuseppe trova l’unico modo
pedagogicamente valido: far sperimentare ai fratelli la stessa sofferenza della
prigione, del sospetto, della accusa calunniosa. Spesso, è la considerazione di
Sacks, il superamento della rivalità potrebbe darsi nella misura in cui ognuno
provasse a mettersi nei panni degli altri e con ciò scoprire come noi stessi
siamo ora vittima di uno stesso trattamento che noi per primi abbiamo inferto
agli altri. E’ l’esperienza della verità della regola d’oro: non fare agli
altri quello che non vuoi sia fatto a te / fai agli altri quello che vuoi sia
fatto a te. In questo cammino di conversione, di rientro in se stessi, il
perdono accordato da Esaù a Giacobbe come quello di Giuseppe ai suoi fratelli,
dimostra come nessuno, se lo vuole, è destinato a rimanere legato al suo
passato: chi vuole può essere anche in grado di rileggere il passato in modo
che non blocchi il suo cammino ma che lo apra alle tappe nuove della vita
futura, senza blocchi che gli impedirebbero di crescere.
Sacks richiama poi il grande ruolo del padre nell’aiutare i
figli a vivere la fraternità, così per Abramo, così per Isacco, così per
Giacobbe, anche quando sembra che questi prendano le parti di uno a discapito
di un altro: qui davvero Sacks è illuminante nel dimostrare che l’essere di
parte di un padre per un figlio non significa mai lo schierarsi contro l’altro
figlio. Se solo lo si capisse! Altrimenti, ad esempio, non si riesce a capire
come l’elezione di Israele da parte di Dio possa andare insieme con la volontà
salvifica nei riguardi di tutti i popoli. Come comprendere ciò è detto nel
capitolo nono Il rigetto del rifiuto,
ed è esemplificato dalla storia di Lia e Rachele. L’autore fa osservare come
nel testo venga detto che Giacobbe sposi Lia e ami anche / gam Rachele. La vicenda è un modo per uscire dalla logica
dell’aut – aut per entrare in quella
dell’et – et. Per giustizia Giacobbe
sposa entrambe, e le ama. E la preferenza di un amore maggiore per una delle
due non significa, non può e non deve significare, esclusione per l’altra.
Amare uno non significa per forza odiare l’altro! Ritorna così il tema di inizio, che ne
costituisce poi il centro: l’amore per l’uno non significa il rigetto per
l’altro, l’amare uno più di un altro non significa che l’altro non sia amato o
che sia addirittura odiato e rifiutato. Anche qui Sacks è illuminante. L’amore
è una esperienza umana, quella che fonda i legami tra amici e parenti, e non
può essere elusa o disattesa: <<Un
mondo in cui amassimo gli estranei quanto gli amici, i non parenti come i
parenti, i figli di qualcun altro come i nostri, non sarebbe umano… Il quesito che pone è: come dobbiamo vivere
– noi che siamo umani, che abbiamo passioni, piaceri, desideri, amori e quindi
vulnerabilità? Un amore che non facesse distinzioni, che fosse remoto,
distante, che non facesse discriminazioni, non sarebbe affatto amore per un
altro essere umano nella sua particolarità>>[11].
Ma l’amore non è l’esperienza l’unica ed assoluta. Se
umanamente l’amore può essere misurato sempre a partire dalla sua presenza o
assenza o dal più e/o dal meno rispetto ad uno piuttosto che ad un altro, ciò
non vuol dire che ciò comporti anche il venir meno di quell’obbligo di
giustizia per cui, lo si ami o meno, occorre “dare a ciascuno il suo” come recita l’antica massima romana. Ciò
significa il riconoscimento del ruolo e della prerogativa, nel caso biblico
anche della vocazione, di tutti e di ognuno in particolare. Può anche essere
che un padre ami un figlio più di un altro, e che il pericolo della rivalità
fraterna sia naturale, ma ciò non è inevitabile: la Bibbia insegna che alla
fine i fratelli sono chiamati al superamento della rivalità. E per farlo capire,
a volte, Dio è pronto a schierarsi dalla parte del più debole o di chi sembra
essere stato rifiutato: ecco perché Sacks parla della rivalità tra Caino e
Abele[12]
solo alla fine, in quanto prototipo di ogni rivalità. Caino non capisce che
l’amore di Dio (come un padre) per Abele non significa mancare ai suoi obblighi
di giustizia verso di lui: glielo dimostrerà quando alla fine imporrà il
divieto di uccisione per l’omicida Caino. Dio ama Abele, ma non rigetta Caino!
Così come nel patto con Noè dopo il diluvio Dio, che sceglie per amore il
popolo ebraico, non rigetta per ciò tutti gli altri popoli.
Questo lungo excursus lungo le pagine della Scrittura è
servito a Sacks per poter affermare che la rivalità (e quindi la violenza) fra
i popoli non è inevitabile: e ciò lo dimostra nella terza parte del suo saggio
dal titolo Il cuore aperto.
Così nel capitolo decimo, Lo straniero, viene ricordato come, per vedere nell’altro non può
lo straniero, il rivale, il nemico, occorre la purificazione dello sguardo che
nasce dal compenetrarsi nei panni dell’altro, chiedendosi cosa proverei io se
fossi al posto dell’altro: amare l’altro in quanto altro è certo difficile, ma
se nell’altro specchio me stesso, all’ora in un certo senso si può dire che amo
l’altro come me stesso. Esemplificando: posso amare lo straniero solo se provo
a pensare cosa significhi essere esuli dalla propria patria; e se poi davvero
ho sperimentato ciò, non potrò fare a meno di avere comprensione e accoglienza
per lo straniero che chiede ospitalità a casa mia, perché anche io sono stato
straniero e forestiero, esule in Egitto. E’ in sintesi l’insegnamento della
Bibbia.
In questo contesto si capisce l’approfondimento ulteriore
fatto al capitolo undicesimo L’universalità
della giustizia, la particolarità dell’amore. E’ la spiegazione del
particolarismo del monoteismo ebraico: da un lato il Dio visto come Creatore e
Sovrano dell’universo e dall’altro il Dio come colui che sceglie Israele.
Quella che sembrerebbe una antitesi si rivela invece come la garanzia per la
libertà dei singoli e dei popoli nei riguardi Dio, per espungere alla base ogni
idea di intolleranza e quindi di violenza. Pur prendendo atto, dopo il diluvio,
che nel cuore umano si annida il male, Dio rifiuta in futuro di distruggere il
mondo con un nuovo diluvio: è la condiscendenza di Dio verso la reale
condizione dell’uomo. Ma nel rifiuto della omologazione, con l’episodio della
torre di Babele, Dio conferma il rispetto per ogni particolarismo (espresso
dalle lingue diverse) contro ogni forma di totalitarismo: <<Babele è ciò che accade quando le persone
cercano di imporre un ordine universale, obbligando Loro a diventare Noi. Il
risultato è l’imperialismo e la perdita della libertà. … Quando una singola
cultura viene imposta a tutti, sopprimendo la diversità di lingue e tradizioni,
questo è un attacco alle nostre differenze donateci da Dio>>.
Arrivando alle conclusioni, allora, si deve dire che il
punto di partenza di un autentico dialogo è il riconoscimento dell’inevitabile
diversità dell’umanità. L’identità è plurale: non c’è una umanità in astratto,
c’è l’umanità dei popoli e delle culture. Come superare la violenza, evitando
che l’incontro fra popoli degeneri in uno scontro? Il Dio della giustizia della
Bibbia ci ricorda che c’è una moralità, un’etica che riguarda tutti: <<giustizia, correttezza, e l’evitare di
recare offesa sono quello che dobbiamo a chiunque, ebreo o gentile, credente o
ateo, amico o estraneo, connazionale o straniero>>[13].
E’ in concreto, quella di Sacks, la ripresa della
distinzione ebraica tra il patto con Noè e il patto con Abramo. Lo stesso Dio
anzitutto vuole giustizia tra tutti i popoli, al di là se poi lui stesso
instauri un rapporto privilegiato con un popolo in particolare. Ma il
privilegio non esime lo stesso Israele dal rispettare gli obblighi di giustizia
fondamentali. E’ per ciò poi che Dio, rispettando la libertà, non ha imposto lo
stesso culto a tutti i popoli. Anche perché poi la stessa appartenenza alla
alleanza di Abramo, o meglio la permanenza in essa, è data, al di là dei
vincoli di sangue, dal cammino di obbedienza della fede e, in caso di
disobbedienza, dal cammino di ritorno, teshuvà, conversione.
In questo contesto Sacks ricorda che c’è sempre un cammino
di comprensione e di purificazione da fare per evitare una lettura
fondamentalista e integralista della stessa Scrittura: è quanto fa al capitolo
dodicesimo Testi difficili. E’ quanto
ha dovuto fare il giudaismo col rileggere in chiave spirituale testi nati per
altri contesti e che oggi potrebbero generare equivoci e inganni: ad esempio,
con l’intendere in Amalek non tanto un nemico storico ben preciso, quanto la
personificazione del male e del Nemico per eccellenza che tenta sempre il
popolo di Dio e che cerca di sbarrargli la strada dell’obbedienza ai suo
comandi. Una lettura che nasce anche dalla costatazione che una realizzazione
storica di una ierocrazia, di uno stato in cui sacro e profano si supportano a vicenda,
non è nelle prospettive della identità di Israele e della sua missione fra le
genti. E’ quanto però si auspica venga fatto in certe letture di passi del
Corano che potrebbero dare la stura a tentativi di imporre fanaticamente con la
violenza il culto all’unico Dio.
Per far ciò si deve Rinunciare
al potere, come è detto al capitolo tredicesimo. Si deve rinunciare ad ogni
sogno di teocrazia, cioè di esercizio del potere politico. Sacks ricorda
appunto come prima lo abbia compreso Israele, poi la stessa Chiesa, ora debba
comprenderlo l’Islam. E’ un cammino di purificazione già delineato nella
Bibbia: basti pensare all’episodio di Elia che pensa di imporre la fede in Dio
con la forza e con l’uccisione dei profeti di Baal. Ma alla radice di questa
volontà di potere c’è l’odio per il diverso: il frutto estremo dell’egoismo
narcisista.
Liberarsi dell’odio è
perciò quanto si dice al capitolo quattordici. E per far ciò bisogna superare
la volontà di potenza e riaffermare la volontà della vita, come è detto nel
capitolo finale, in cui tirando le somme di questo lungo discorso si conclude:
<<ora è giunto il tempo per gli
ebrei, i cristiani e i musulmani di dire ciò che non hanno detto nel passato:
Siamo tutti figli di Abramo. E sia che siamo Isacco o Ismaele, Giacobbe o Esaù,
Lea o Rachele, Giuseppe o i suoi fratelli siamo tutti preziosi agli occhi di
Dio. Siamo benedetti. E per essere benedetti non è necessario che qualcuno sia maledetto…
Oggi Dio ci chiama, ebrei, cristiani e musulmani, a liberarci dall’odio e dalla
sua predicazione, e a vivere, finalmente, come fratelli e sorelle, fedeli alla
nostra fede e ad essere una benedizione per gli altri a prescindere dalla loro
fede, rendendo onore al nome di Dio onorando la sua immagine,
l’umanità>>.[14]
Al di là della diversità di genere e perciò di linguaggio si
noti come questa analisi del rabbino concordi in tutto con quella fatta dal
Documento della Commissione Teologica Internazionale da noi esaminato
precedentemente.
Dal rifiuto che il monoteismo sia alla origine della
violenza, al rifiuto dell’idea del politeismo tollerante, alla costatazione che
la lotta alla religione abbia generato invece i grandi totalitarismi, alla
lucida analisi della odierna secolarizzazione e alla ripresa del fanatismo
intollerante, dall’evidenziare come la radice del male stia nel cuore
dell’uomo, dall’evidenziare come la vera matrice biblica sia un appello
all’amore, alla giustizia e alla fraternità, dal bisogno che comunque ogni
esperienza religiosa rigetti ogni tentazione di uso diretto del potere o di
connubio con chi lo detenga, dall’esigenza di sottoporre sempre l’esperienza
religiosa alla verifica critica per evitare l’annidarsi in essa di letture
integraliste, dalla voglia di mostrare il contributo che una autentica
esperienza di fede può dare alla costruzione di una società più giusta e umana,
senza chiusure e infingimenti.
In questo cammino cristiani ed ebrei ci sentiamo accomunati
dalla fede nell’unico Dio che ci chiama al banchetto preparato sul suo santo
monte e al quale sono chiamati ad affluire tutti i popoli, in un’era in cui,
per dirla con Isaia, non ci eserciterà più nell’arte della guerra e le lance
saranno trasformate in falci e le spade in vomeri.
Voglia il Signore che in questo cammino si possano unire
anche altri popoli e che sia lui stesso a dirigere i nostri passi sulla via
della pace.
[1]
SACKS JONATHAN, Non nel nome di Dio.
Confrontarsi con la violenza religiosa. Giuntina, 2017, pp. 314.
[2]
cfr. ivi, pp. 13-20.
[3]
SACKS, o.c., p. 13.
[4]
Ivi, p. 14.
[5]
Ivi.
[6]
Ivi, p. 22.
[7]
cfr. tutto il cap. 1: La malvagità
altruistica.
[8]
Ivi, p. 37.
[9]
Ivi, p. 66.
[10]
Ivi.
[11]
Ivi, p. 183.
[12]
Ivi, p. 185.
[13]
Ivi, p. 210.
[14]
Ivi, p. 280.
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