giovedì 27 giugno 2013

Benedetto, quanto ci manchi!


Ranjith ha ragione e fa riflettere

LATINO E LITURGIA
Riguardo all’uso del latino nella Liturgia occorre sottolineare quanto il Concilio decretava: “L’uso della lingua latina, salvo diritti particolari, sia conservato nei riti latini” (Sacrosanctum Concilium, n. 36), e consentiva l’uso del vernacolare nelle letture, nelle monizioni e in alcune preghiere e canti. Naturalmente, affidava alla competente autorità ecclesiastica territoriale decidere se e in quale misura il vernacolare fosse da usare nella Liturgia, sempre tuttavia con l’approvazione della Santa Sede. Anche riguardo al canto gregoriano il Concilio è prudente in quanto, mentre apre ad altri generi di musica sacra, soprattutto la polifonia, afferma che la Chiesa “riconosce il canto gregoriano come proprio della Liturgia romana”, per cui “gli va riservato il posto principale” (Sacrosanctum Concilium, n. 116). Tale concessione limitata del Concilio per l’uso della lingua vernacolare nella Liturgia è stata avventurosamente estesa dai riformatori; essendo il latino quasi totalmente scomparso dalla scena, esso è rimasto l’orfano più amato nella Chiesa. Dico questo non perché io sia un fanatico del latino; provengo da una terra di missione nella quale il latino non è compreso da quasi tutta la mia comunità. Ma è un errore credere che una lingua debba essere sempre compresa da tutti. La lingua, come sappiamo, è un mezzo di comunicazione di un’esperienza che, il più delle volte, e più ampia della stessa parola. Lingua e parole sono perciò secondarie e, in ordine d’importanza, vengono dopo l’esperienza e la persona. La lingua porta sempre con sé una kenosis – cioè un impoverimento nella sua espressione. Più tale esperienza passa per la comunicazione in altre lingue, più tende a divenire sempre meno espressiva della originalità dell’avvenimento. Ad esempio, il termine “OM” nella liturgia induista è intraducibile; inoltre le religioni orientali usano una lingua che è strettamente limitata alle loro forme di preghiere e di culto: l’induismo usa il sanscrito, il buddismo il pali e l’Islam l’arabo coranico. Nessuna di queste lingue è parlata oggi, e esse vengono usate solo nella loro forma cultuale; ognuna di queste lingue è rispettata e riservata, fin dall’inizio, per l’espressione di “qualcosa che va al di là dei suoni e delle lettere”. Il giudaismo, per esempio, usa il tetragramma JHWH per indicare l’impronunciabile nome di Dio. Di per sé, le quattro lettere del sacro tetragramma non hanno sfumature linguistiche, ma costituiscono il nome santissimo di Dio nella tradizione scritta della Masora.
L’uso liturgico del latino nella Chiesa, anche se inizia attorno al IV sec., dà origine a una serie di espressioni che sono uniche e costituiscono la fede stessa della Chiesa. Il vocabolario del Credo è chiaramente pieno di espressioni in latino che sono intraducibili. Il ruolo della lex orandi nel determinare la lex credendi della Chiesa è validissimo nel caso dell’uso del latino nella Liturgia, perché la dottrina evolve spesso nell’esperienza di preghiera. Per tale ragione, un sano equilibrio tra l’uso del latino e quello del vernacolare dovrebbe essere, a mio avviso, mantenuto. La reintroduzione dell’usus antiquior fatta da Papa Benedetto XVI non era quindi un passo all’indietro, come qualcuno lo definì, ma un’iniziativa per ridare alla sacra Liturgia un senso di stupore mistico e una maniera per tentare di impedire una palese banalizzazione di ciò che è fondamentale per la vita della Chiesa. Si deve dare onore e sostegno a tale iniziativa del Pontefice, che può condurre anche all’evoluzione di un nuovo movimento liturgico che potrebbe sfociare nella “riforma della riforma”, ardente desiderio di Papa Ratzinger. Di fatto, alcuni elementi dell’usus antiquior riflettono meglio il senso di stupore e devozione con il quale noi siamo chiamati a ri-presentare gli eventi del Calvario nelle nostre celebrazioni eucaristiche. E poiché noi accettiamo i molti sviluppi positivi del novus ordo come, per esempio, il più ampio uso del testo biblico e un maggiore spazio di partecipazione della comunità nei vari momenti della Messa, dobbiamo anche assicurare che ciò che accade sui nostri altari non perda la propria capacità di operare una vera trasformazione spirituale della comunità. Ed è per questo che si rende necessario un avvicendamento degli elementi più positivi delle due forme: cioè la “riforma della riforma”. La stessa definizione delle due forme come usus antiquior e novus ordo è per me erronea, poiché il sacrificio del Calvario non è mai antico, ma è sempre nuovo e attuale.

mercoledì 26 giugno 2013

CHI POVERO LO E' STATO REALMENTE

 "Vive come un parroco di campagna e il suo alloggio non ha niente di principesco. 
La sorella gli fa da governante e a volte lo si incontra per le strade di Roma come un prete qualunque: il basco in testa, una cartella sdrucita piena di documenti. I libri che pubblica gli rendono decine di milioni l'anno in diritti d'autore, ma Ratzinger non li ritira. L'editore ha ricevuto un ordine: li consegni pure a opere di carità."
(Vittorio Messori)

lunedì 24 giugno 2013

E' vero: siamo in un mondo infantile

L'effetto Bergoglio dice del nostro tempo
di Rino Cammilleri
23-06-2013


   
Continua e non sembra esaurirsi il provvidenziale «effetto Bergoglio», con adunate oceaniche ad ogni Angelus in Piazza San Pietro e confessionali che tornano a riempirsi. Gente che, dichiaratamente, era lontana dalla Chiesa da decenni, ha ripreso a frequentare i sacramenti ammaliata dalla figura del nuovo pontefice. I numeri statistici parlano chiaro e sono stati enunciati qui dal nostro Massimo Introvigne.

Questo papa gode della simpatia e del plauso universali, cosa di cui, come cattolici, non possiamo che essere felici. Anche perché papa Francesco non ha attenuato o pretermesso alcun punto della dottrina tradizionale, né pare intenzionato a spostarsi di un millimetro dalla linea tracciata dal suo predecessore Ratzinger.

Tuttavia, Benedetto XVI era un «papa teologo» e si rivolgeva soprattutto alla ragione. Francesco è un «papa parroco» e si indirizza direttamente al cuore. E’ dunque inutile nascondersi dietro un dito e non ammettere l’insuccesso del primo di fronte al successo clamoroso del secondo. Forse Ratzinger ha profeticamente (e mai termine fu più appropriato) intuito proprio questo quando ha deciso di fare un passo indietro per far posto a uno più «adatto» di lui al tempo presente. E i fatti gli hanno dato ragione. Solo che, a questo punto, occorre interrogarsi sul perché del flop di un papa teologo che cercava di rivalutare la facoltà della ragione umana e indossava il camauro, reggeva una croce d’oro e incoraggiava la comunione in ginocchio, approntava un terreno solido su cui impostare il dialogo con l’islam e puntava a restaurare la bellezza nella liturgia. E del pari chiedersi i motivi del successo mediatico di un altro papa, che indossa scarpe nere anziché rosse, porta una croce di metallo vile, scambia il suo zucchetto con quello di uno spettatore, “anima” la piazza con gesti sprizzanti gioia e simpatia umana, dice cose alla portata di tutti e dorme in albergo anziché nelle sacre stanze.

Se è questo il papa giusto per l’ora presente, allora vuol dire che è l’ora presente a costituire problema. Detto fuor dai denti: se uno non va più in chiesa, non si confessa più e non si comunica perché il parroco gli sta antipatico, ma torna dentro quando cambia il parroco e ne arriva uno di suo gradimento, costui è un infantile, perché solo i bambini accettano il cibo a condizione che venga loro somministrato su un cucchiaio a forma di aeroplanino.

Siamo dunque di fronte a una regressione antropologica senza precedenti nella storia e i conclavi futuri (lunga vita a papa Francesco, ma ricordiamoci che si avvicina già agli ottant'anni) avranno il loro bel daffare nel cavare dal loro ambito un papa che abbia come qualità precipua il fortissimo impatto mediatico.

Per duemila anni i cristiani hanno vissuto senza nemmeno sapere che faccia avesse il papa. Poi è arrivata la radio e ne hanno sentito la voce. Subito dopo, la televisione ne ha mostrato il volto e i gesti. Il primo a «bucare lo schermo» è stato Giovanni XXIII. Il vero talento in questo senso fu Wojtyla. Ora la palla è passata a Francesco, che mostra di avere ben capito la lezione. Dunque, forza e coraggio, perché ormai c’è bisogno di un papa che parli direttamente al popolo, entrando in tutte le case ed esprimendosi nella maniera più semplice possibile. Sulla testa delle conferenze episcopali, dei piani pastorali, dei cortili dei gentili, dei teologi e perfino delle omelie.

Forse il «papa teologo» parlava da intellettuale agli intellettuali. E questi, com’era prevedibile, lo hanno snobbato. Il «papa parroco» si è rivolto allora al popolo, parlando in modo semplice, da buon parroco, e la gente comune lo ha accolto.

Francesco, infatti, sta praticamente ripartendo da zero: siate buoni, ricordatevi che Gesù vi vuol bene, dite le preghiere e non sparlate del prossimo. Lo Spirito ha mandato il papa giusto per questi nostri tempi. Mala tempora. Tempi di barbari col telefonino. Tempi in cui ti linciano per una parola o una virgola. Mai come oggi l’evangelica «custodia della lingua» è stata necessaria, e non tanto per l’anima quanto per la pelle. E’ stato giustamente detto che la gente non vuole più maestri ma testimoni. Cioè, non sopporta più i primi ed è già tanto se accetta di almeno ascoltare i secondi.

Se le cose stanno così (e, ahimè, così stanno), noi apologeti, «operatori culturali» cattolici, possiamo andare a casa. Mi si consenta un aneddoto personale. La prova definitiva l’ho crudamente avuta mentre dicevo queste stesse cose a Radio Maria: un’ascoltatrice mi ha insolentito in diretta perché, secondo lei, avevo mancato di rispetto nei confronti del papa. E il direttore, padre Livio Fanzaga, ha poi ricevuto diverse lettere d’uguale tenore. Mah, speriamo che papa Francesco faccia presto a ricostituire il tessuto connettivo della cattolicità. Anche se a me personalmente non dispiaceva un Ratzinger che cercava di ricostituire il comprendonio dei cattolici. Ma io, e me ne scuso, sono un intellettuale.

mercoledì 19 giugno 2013

MA CHI PENSA A QUESTE COSE?

Cari amici,
qualcuno mi ha chiesto il motivo del mio silenzio su questo blog in queste ultime settimane.
Non è semplice dirlo.
In due parole, banalmente, potrei dire che sto sentendo ancora tutto lo sconvolgimento provocato dallo choc delle dimissioni di Papa Benedetto e della elezione di Papa Francesco.
Mi spiego.
Non è per il fatto di una sintonia affettiva con questo o quel Papa. Il papa è papa e basta, chiunque sia, punto.
E dunque non è per un sentire mio personale, quanto piuttosto, direi pure ecclesiologico, se non veramente perciò teologico.
Il fatto è che ho l'impressione che ci sia quasi una voglia di "normalizzazione" nell'ambito ecclesiale (ma anche in buona parte del mondo esterno alla Chiesa) quasi a voler richiudere in fretta la parentesi del pontificato di Benedetto XVI.
Come se questi non ci fosse mai stato.
Non è un problema di continuità con Francesco: che c'è, almeno nel richiamo al suo magistero.
E' come se di fatto, anche tra quelli che credevamo essere tra i più vicini a papa Benedetto, di questo papa si sia avvertito solo la sua "scomodità".
Non si tratta di croci d'oro o di scelte liturgiche diverse o di sensibilità teologiche pre o post conciliari, credo che Benedetto XVI sia stato "indigesto" un po' alla maggioranza della gente (anche vescovi e preti, anzi, forse più vescovi e preti che laici) perché invece di presentare un cristianesimo tutto zucchero e miele e buono per tutti, è andato al cuore del dramma del mondo contemporaneo: la scomparsa di Dio dall'orizzonte del cuore dell'uomo, e quindi al dovere della Chiesa di ricentrare la sua missione sull'unicum necessario, l'annuncio del vangelo. E questo comporta anche il dovere della Chiesa di convertirsi e di rinnegare il male che ne deturpa il volto e che rischia di inficiarne la testimonianza.
Benedetto ci ha riportato al "realismo cristiano" che è l'insegnamento a fondamento della fede cattolica: che significa mettere al centro l'uomo e Dio, il peccato e la grazia.
E cioè ci ha ricordato che il cristiano è nel mondo ma non del mondo.
Se il cristianesimo viene ricondotto in una cornice solamente intramondana è ridotto a filosofia, a morale, ma non è più l'evento che salva e la Chiesa non è più il Corpo di Cristo nel mondo ma solo un club (diviso tra l'altro tra chi lo vorrebbe esclusivo e chi lo pensa nazional-popolare) che pensa solo a ridurre la fame nel mondo.
Chiaramente Benedetto è stato scomodo sia per quelli che pensano solo alla fede come fuga mundi, sia per coloro che vorrebbero che la fede sia solo l'espressione dell'impegno per migliorare questo mondo.
Ma a che giova all'uomo (e alla stessa Chiesa) guadagnare il mondo intero se poi perde la sua anima?
Ecco Benedetto ci ha fatto ripensare all'anima, all'impegno per salvarla: cioè a Dio, alla voglia di contemplare il suo volto. Ché per questo noi siamo fatti.
Contro ogni tentativo di ridurre il cristianesimo ad una sorta di religione civile o ad un umanesimo senza Dio (che solo a scriverlo sembra di un'assurdità così lampante che ci si meraviglia di come alcuni non si rendano conto di questa lapalissiana evidenza).
Quello che mi meraviglia (ma poi mica tanto) dunque è come nel mondo cattolico ci sia questo tentativo di far rientrare tutto nella ordinarietà e nella "continuità" così da esorcizzare non solo lo scandalo di un pontificato tutto vissuto da papa Benedetto all'insegna della parresia, la franchezza cristiana, ma lo stesso scandalo della sua rinuncia al papato.
Così tutto è letto come se il suo pontificato fosse stato una parentesi di nostalgia ecclesiale un po' retrò e la sua rinuncia come se fosse il pensionamento di un vecchietto che finalmente arriva all'agognato riposo.
Ma il pontificato di Benedetto brillerà sempre più nel futuro (la storia è giudice equanime) come uno dei più moderni della storia, dove moderno sta correttamente per un confronto con la contemporaneità e le istanze della secolarizzazione, e perciò come un pontificato profetico (e come tutte le profezie sarà il suo svelamento nel futuro a rivelarlo in tutta la sua grandezza).
E perciò la sua stessa rinuncia al papato ha tutti i contorni di una profezia che come Chiesa forse si stenta a comprendere (o si rinuncia a comprendere) e che pure ha una sua valenza tutta da decifrare.
Stranamente ciò che la teologia ha rinunciato a comprendere (ad oggi non mi risulta che ci sia stato qualche tentativo da parte di qualche teologo di leggere teologicamente la rinuncia - e tutto il papato - di Benedetto XVI: forse troppa fretta di chiudere il caso?) è stato oggetto di riflessione da parte di pensatori laici, e non solo del giornalista cattolico Socci o dell'ateo devoto Giuliano Ferrara. Mi riferisco al laico Massimo Cacciari col suo Il potere che frena e l'altro laico Giorgio Agamben  con Il mistero del male. Benedetto XVI e la fine dei tempi.
Non è questo il luogo di entrare nel merito di due scritti che da opposte visioni eppure arrivano a medesime conclusioni: che il gesto del Papa vada letto in un'ottica escatologica. Che cioè vada inquadrato nella lettura che l'Apocalisse (ma non solo, anche Paolo) fa della storia, come del luogo in cui si concentra lo scontro tra il Cristo e le potenze del Male. In ultima analisi tra il Cristo e l'anticristo. E l'anticristo, pur essendo animato dalla spirito del mondo, che è il satana, nasce sempre da un contesto ecclesiale, come se lo spirito del mondo fosse riuscito a entrare nella Chiesa e quasi a trionfarne. Non è un caso che Benedetto XVI ricordasse sempre che i veri nemici che attaccano la Chiesa nascono dal suo interno e ne provocano tutta la sua sporcizia. La pedofilia, la corruzione, l'attaccamento demoniaco al denaro e al potere nella Chiesa nascono proprio come espressione anticristica: non si possono leggere come fattori sociologici ma come espressione della lunga apostasia di parte della Chiesa dal suo Signore, e quindi da decriptare teologicamente. In ciò Benedetto, come ogni profeta, è stato incompreso ed inascoltato (o dovremmo dire volutamente equivocato?).
E' come se la Chiesa non comprendesse più se stessa e a chi volesse ricondurla alla sua identità originaria opponesse un netto rifiuto.
Perché di fatto non c'è più una Chiesa ma tante chiese quante sono le teste che la pensano, siano essi vescovi, preti o laici!
Il problema si complica quando si pensa che una incomprensione del ruolo della Chiesa e del cristianesimo porta pure all'incapacità di leggere la storia del mondo o quanto meno ne provoca una lettura distorta. E al ruolo del cristiano nel mondo.
E' come se la lettura buonista del mondo che si è avuta nel postconcilio abbia provocato la rinuncia ad una lettura teologica, e quindi escatologica, della storia.
Perché un conto è dire che si aspetta il ritorno del Signore e la venuta del suo regno, un conto è dire che siamo qui sulla terra per costruire la civiltà dell'amore e rendere il mondo migliore e basta.
Perché il regno di Dio non è semplicemente questo mondo reso migliore dall'impegno degli uomini (altrimenti Dio che ci starebbe a fare?).
Una prova della rinuncia a una lettura escatologica della storia, e quindi alla incapacità di leggere teologicamente la storia stessa della Chiesa ed un evento epocale quale il pontificato e la rinuncia di Benedetto, è stata la marginalizzazione di tutta una letteratura non solo cattolica, ma anche anglicana e ortodossa, che - profeticamente - agli inizi del '900 aveva descritto con incredibile lucidità l'apostasia della Chiesa e dell'Occidente cristiano fino a preconizzare i segni della venuta dell'anticristo. Mi riferisco al Soloviev dei  Tre dialoghi e il racconto dell'Anticristo (scritto nel 1900), e al romanzo (scritto nel 1903) di Robert Benson, Il padrone del mondo, in cui l'apostasia ecclesiale è introdotta dal trionfo del naturalismo, dell'animalismo, del pacifismo, dell'umanitarismo, dell'unione europea in chiave anticristiana... fino alla introduzione di un governo mondiale stile Grande Fratello ante litteram: cose che scritte un secolo fa sembrano essere la cronaca di quanto ultimamente avviene ai nostri giorni. Dove la sorte finale sarà quella del trionfo, dopo la sua durissima prova, della Catholica e del papato. 
Perché si è perso questo sguardo cattolico? Perché mentre un russo ortodosso e un anglicano inglese (capofila di illustri intellettuali che dopo Newman, nel '900 si convertiranno al cattolicesimo, quali Chesterton, Green...) vedono la salvezza nella chiesa cattolica, in Pietro, i cattolici oggi hanno quasi paura di dirsi tali? Ci si dice solamente cristiani, dove cristiano sta per un ondivago sentire buonista che comprende di tutto di più ma a volte senza ormai il solo Cristo!
Benedetto XVI ha confessato che proprio i libri suddetti sono stati tra quelli che hanno contribuito alla sua formazione teologica (perché a volte un buon romanzo è meglio di un libro di teologia scolastica), così come hanno nutrito le altre grandi menti del '900, anche laiche.
Ora è come se questo filo si sia spezzato.
Non so - e mi si scusi l'ardire e non vuole essere un giudizio - se questi libri concorrono ancora alla formazione del sentire cattolico dei nostri preti e dei nostri vescovi, di chi dovrebbe cioè educare alla forma cattolica del vivere la fede cristiana.
Se sento la gioia di essermi potuto formare alla scuola di questa grande tradizione cattolica, sento oggi la pena e la solitudine di non riuscire a comunicare questo sentire cattolico con altri, seppure ecclesialmente impegnati, fossero anche preti e vescovi (e se non con loro, vuoi che ci riesca con semplici laici buoni ma imbottiti di idee "moderniste"?).
Oggi sperimento quasi quella che un grande epistemologo chiamò la "incomunicabilità dell'evidenza". Come se ci fosse una sorta di follia collettiva che impedisca di vedere ciò che pure dovremmo vedere: "magari foste ciechi..."
La rinuncia di Benedetto ci provoca e ci riporta alla lotta contro l'anticristo che ognuno di noi deve condurre.
Il papato di Benedetto è stato come un grande esorcismo che lui ha condotto sul corpo malato, indemoniato, della Chiesa: e come ogni esorcista sa, ogni scontro col nemico indebolisce le forze di chi vi lotta contro. Benedetto XVI ha esaurito le sue forze in questo combattimento contro le forze del Male che gli hanno riversato contro ogni sporcizia della Chiesa fino a fargli provare lo sconforto dell'abbandono e del tradimento. Per questo si è fatto da parte, per continuare a combattere con l'unica arma efficace che è la preghiera, e per dare l'opportunità a nuove e fresche forze di subentrare in questa lotta: non dimentichiamo che non c'è predica quotidiana in cui papa Francesco non richiami i tentativi del diavolo di stravolgere l'opera del Cristo e della Chiesa.
Una cosa che vorrebbero farci dimenticare: che la maggior parte dei miracoli di Cristo sono stati esorcismi.
Il diavolo ha ingannato tanti col far credere che lui non esiste. Ma il suo gioco è stato scoperto.
Questi sono i suoi colpi di coda, i più pericolosi, prima della sconfitta finale, perciò non possiamo più essere ingenui.
Questo è il tempo dell'Armagheddon.

lunedì 3 giugno 2013

Omelia per la messa del Corpus Domini

Lauda Sion, Salvatórem, / lauda ducem et pastórem, / in hymnis et cánticis.  
Cari fratelli e sorelle,
se sempre la Chiesa è chiamata a lodare il suo Signore, ancor di più oggi risuona in tutte le nostre assemblee l’invito alla lode:
Loda Sion il Salvatore, la tua guida, il tuo pastore con inni e cantici!
Quantum potes, tantum aude: / quia maior omni laude, / nec laudáre súfficis. 
Anche se il nostro canto di lode si rivelerà sempre insufficiente perché il mistero che celebriamo sarà sempre più grande di ogni lode, di ogni parola umana che cerca di esprimerlo.
Eppure, per quanto sta in noi, oggi osiamo cantare il mistero ineffabile, indicibile, del santissimo Sacramento dell’Eucaristia.
Laudis thema speciális, / panis vivus et vitális, / hódie propónitur. 
Oggi è proposto a noi un tema speciale di lode al Signore: oggi si celebra quel pane vivo e vitale che è dato a noi ogni volta che si celebra il memoriale del sacrificio del Signore.
Oggi si celebra il sacrificio e il patto di riconciliazione sigillato sulla croce col dono del suo sangue, dal Cristo, sommo ed eterno Sacerdote della nuova ed eterna alleanza, come lo abbiamo cantato nel salmo responsoriale.
Dalla sua istituzione, la sera dell’ultima cena di Cristo con i dodici apostoli, ad ogni Santa Messa che fino ad oggi e nei secoli è stata, è, e sarà celebrata.
E’ quanto ci ricorda oggi San Paolo nella seconda lettura che abbiamo appena ascoltata: infatti, tutte le volte che mangerete questo pane e berrete questo calice, annunzierete la morte del Signore fino a quando Egli verrà.
Oggi celebriamo il permanere del dono del Corpo e del Sangue del Signore nella sua Chiesa sotto i segni del pane e del vino resi vivificanti dal soffio dello Spirito.
Segni del sacrificio mistico che il popolo di Dio è chiamato ad offrire al suo Signore già prefigurati da quel pane e da quel vino presentati da Melchisedek al Dio Altissimo, come ci ha ricordato la prima lettura che abbiamo ascoltato in principio.
Anzitutto dunque la nostra celebrazione è e vuole essere un atto di fede, una confessione: Dogma datur Christiánis, / quod in carnem tránsit panis, / et vinum in sánguinem. 
Ai Cristiani è dato il dogma: che il pane si muta in carne, e il vino in sangue. 
- Ciò che non capisci, ciò che non vedi, lo afferma pronta la fede, oltre l’ordine naturale.   - Sotto specie diverse, che son solo segni e non sostanze, si celano realtà sublimi.   - La carne è cibo, il sangue bevanda, ma Cristo è intero sotto l’una e l’altra specie.
Si, noi confessiamo oggi di credere che nel pane e nel vino consacrati c’è la presenza vera del corpo e del sangue di Cristo.
Mistero della fede! Diremo tra poco.
Mistero della fede, ma anche mistero della Chiesa:
perché è a partire dall’Eucaristia che si genera la Chiesa, è dall’Eucaristia che nasce la Chiesa, è l’Eucaristia che fonda la Chiesa.
E dunque oggi siamo qui per confessare che mentre siamo qui a celebrare l’Eucaristia, è questa stessa eucaristia che ritorna a generarci e a sostenerci come Chiesa nel dono e con la forza di quel pane dei pellegrini, di quel pane eucaristico che diventa per noi il viatico, pane del cammino, segno del Cristo stesso, pastore e guida che si fa nostro compagno di viaggio.
Ecce Panis Angelórum, / factus cibus viatórum: / vere panis filiórum,
Cari confratelli sacerdoti,
Cari diaconi,
cari religiosi e religiose,
cari laici e laiche consacrati,
cari membri dei terzi ordini, delle confraternite, delle associazioni, dei movimenti e di tutte le aggregazioni laicali di ogni genere,
cari laici e laiche che vivete o avete vissuto nel sacramento del matrimonio,
cari genitori e figli,
cari fratelli e sorelle che siete in una situazione di prova, di fallimento, di solitudine,
cari ammalati e sofferenti nel corpo e nello spirito,
mi piace pensare e voglio pregare perché ciò si realizzi con sempre più autenticità,
che il nostro essere qui oggi sia davvero il riconoscimento che l’Eucaristia, come desidera il Concilio vaticano II, è, e deve sempre più, diventare la fonte e il culmine di tutta la vita della Chiesa: la fonte da cui promana ogni energia per la testimonianza di vita, il culmine a cui tende ogni nostra azione.
L’eucaristia al centro dunque della vita delle parrocchie, dei gruppi, ma anche di ogni famiglia e di ogni singolo credente.
Ringraziando il Signore, dobbiamo riconoscere, a Scicli, che una buona percentuale di fedeli partecipa ancora all’Eucaristia domenicale, che nelle nostre chiese l’impegno a celebrare l’Eucaristia con decoro è sentito con grande responsabilità, che tanti chiedono ancora di celebrare l’eucaristia in occasione degli eventi particolari della loro vita, così come in tutte le parrocchie si vivono giorni di adorazione eucaristica a scadenza regolare, le quarantore e altre adorazioni scandite dal calendario della tradizione, e come anche tanti gruppi ecclesiali hanno messo l’eucaristia e l’adorazione eucaristica periodica come impegno peculiare tra le loro attività; senza dimenticare l’adorazione eucaristica continuata nella Chiesa di san Giovanni che è offerta alla cittadinanza tutta come oasi di silenzio e di preghiera nel mezzo di una vita di molti, sempre più frastornata e frenetica.  
Se ciò ci riempie di soddisfazione e di gioia, tuttavia non può non diventare per noi fonte di stimolo ad un impegno sempre maggiore. E non solo per quanto riguarda l’intensità e il decoro del culto liturgico.
Giacché l’esigenza dell’autenticità della fede ci spinge, ci deve spingere ad un sempre più stretto raccordo tra la fede professata e celebrata e la fede vissuta.
Se è vero come è vero che la lex credendi e la lex orandi si inverano a vicenda, che cioè quello che si celebra è ciò che si crede e ciò che si crede è ciò che si celebra, allora è ancor più vero che ciò che si crede e ciò che si celebra deve essere poi vissuto e incarnato in una vita coerente con la fede.
Credo che sia per questo che la Chiesa oggi ci abbia fatto proclamare il vangelo della moltiplicazione dei pani e dei pesci.
Non solo perché la Chiesa, come ci è testimoniato già negli affreschi delle antiche catacombe romane, nel segno della benedizione e della frazione del pane, delle folle sfamate e dei dodici cesti di pane rimasto vi abbia colto sempre dei richiami al mistero eucaristico, ma perché la stessa logica eucaristica del dono del pane vero e vivo richiama l’appello alla Chiesa, indicata dai discepoli invitati a dar loro da mangiare, a farsi coinvolgere nella logica del dono del suo Signore.
Oggi, mentre facciamo memoria del Cristo che ci dona il suo corpo come pane da mangiare, il Cristo stesso invita anche noi come Chiesa a perpetuare il miracolo del dono del pane. Non solo continuando a celebrare l’eucaristia. Ma a diventare anche noi, come Chiesa, luogo e strumento del dono che il Cristo fa di se stesso, e in questo ad offrire anche il nostro poco, la nostra povertà, i cinque pani e due pesci, perché il Cristo li moltiplichi e ce li restituisca come dono di grazia da distribuire alle folle.
E’ in questo che sta la stessa ragione di esistere della Chiesa, e non per se stessa: Papa Francesco, al quale ancora una volta manifestiamo i nostri sentimenti di affetto e di comunione, ci ricorda che una Chiesa autoreferenziale, che guarda a se stessa, dimenticando di guardare con gli occhi di Cristo alle folle affamate, è una Chiesa che ha tradito la sua missione.
Cogliamo questo mistero nei verbi di raccordo tra lui e i discepoli con cui San Luca ci racconta il miracolo: Accogliere – Condividere - Distribuire
Accogliere: il Cristo precede e poi accoglie le folle, e nell’invito fatto ai discepoli che volevano mandarle vie, c’è l’invito fatto anche a noi di essere accoglienti. Domandarsi se le nostre comunità esprimano davvero accoglienza, se chi è malato e ferito nel corpo e nello spirito trovi in noi chi se ne prende cura, potrebbe essere per noi oggi un modo per non lasciar passare invano ciò che lo Spirito vuol dire oggi alla nostra comunità ecclesiale di Scicli.
Condividere: i discepoli sono chiamati a condividere quanto hanno e qui si scopre come nessuno è così povero da non poter condividere niente con gli altri. Come scrive Enzo Bianchi l’appello di Gesù non può essere compreso né come un vago appello alla generosità né <<come un invito a un’efficiente e adeguata organizzazione assistenziale della carità. Quel comando contesta l’indifferenza e il disimpegno verso l’altro nel bisogno e suscita l’obiezione dei discepoli che vedono la loro povertà come impedimento ad assolverlo. Il comando evangelico urta, ieri come oggi, contro i parametri di buon senso, razionalità, efficienza che pervadono anche la Chiesa. Paradossalmente, proprio la povertà che i discepoli vedono come ostacolo, è per Gesù lo spazio necessario del dono e l’elemento indispensabile affinché quel dar da magiare non sia solo dispiegamento di efficienza umana, ma segno della potenza, della benedizione e della misericordia di Dio e luogo di instaurazione di fraternità e di comunione>>.
Distribuire: nel mettere quanto siamo e abbiamo nelle mani di Cristo, è lui che compie il miracolo della moltiplicazione dei doni. I discepoli, oggi la Chiesa, è così chiamata a farsi serva, a distribuire i doni non più suoi ma del Cristo nella gioia del banchetto messianico.
Signor Sindaco, gentili autorità civili e militari, che saluto con deferenza e rispetto,
se oggi voi siete qui e noi vi abbiamo invitato, non è per volontà di una maggiore maestosità e appariscenza mondana dei nostri riti: non sarebbe stato né giusto né necessario.
Voi siete qui, in quanto rappresentanti di quelle istituzioni cittadine e perciò di tutta la nostra città, che rappresenta per la nostra comunità ecclesiale di Scicli l’orizzonte e il senso della nostra missione.
Noi siamo qui, parrocchie e ogni altra aggregazione ecclesiale, per dire davanti a tutti che siamo qui a Scicli per accogliere, condividere, servire.
L’anno scorso, proprio nell’occasione del Corpus Domini, abbiamo voluto dare l’annuncio dell’apertura del centro di ascolto della Caritas cittadina. Con soddisfazione possiamo dire che il centro si è affermato pian piano come il punto di riferimento per tanti fratelli e sorelle, non solo di Scicli, ma anche per immigrati di varie culture straniere; così anche i tanti centri di ascolto delle parrocchie che si pongono sempre più come le sentinelle di guardie per avvistare i casi di necessità più urgenti; o anche i punti di distribuzione di aiuti alimentari che sono venuti incontro ad un numero sempre crescente di famiglie, dovuto al perdurare della crisi economica in cui versa tutta l’Europa.
Tanti i casi seguiti, ma tanti i casi che non siamo riusciti a seguire o a risolvere.
Tanti i casi in cui, con grande dignità, tante persone più che a chiedere pane, sono venute a chiedere un lavoro onesto e decoroso.
Tanti i casi di bontà e di generosità che abbiamo registrato, ancor più ammirevoli quelli provenienti da persone povere eppure solidali con altrettanti poveri; mentre purtroppo dobbiamo anche registrare l’indurimento di cuore di alcuni, ancor più da stigmatizzare se con certa disponibilità economica, che invece che aprirsi alla solidarietà dalla crisi economica hanno tratto motivo per diminuire il salario o aumentare lo sfruttamento degli operai.
La comunità ecclesiale di Scicli, i parroci per primi, caro Signor Sindaco e gentili amministratori e autorità, non può e non vuole restare indifferente davanti alle tante serre, fonte prima della nostra economia, che non sono più coltivate, ai terreni incolti, alla crescente disoccupazione, al futuro sempre più incerto dei nostri giovani costretti ad emigrare sia per lo studio e per la ricerca di un lavoro dopo la laurea.
Il Vangelo di oggi spinge tutti a non rimanere indifferenti davanti alla gente affamata e perciò oggi siamo qui a gridare tutto il nostro dolore per le sorti future incerte della nostra città.
Ma l’attenzione ai bisogni del popolo, al bene comune, è e deve essere anche al centro dell’azione politica di ogni buon amministratore.
Proprio per ciò, noi siamo convinti che nel servizio dell’uomo e del cittadino, nella promozione del bene comune, stia l’ambito di collaborazione tra comunità ecclesiale e comunità civile e perciò rinnoviamo la nostra disponibilità ad una collaborazione sempre maggiore tra di noi, certo nel rispetto ognuno delle proprie competenze.
Stiamo cercando di farlo tra la Caritas e l’Assessorato ai servizi sociali del Comune di Scicli, e ciò sarà bene.
Ma dobbiamo certo uscire dalla logica dei piccoli e pronti interventi per passare a dei progetti comuni e condivisi: certo sarà quello l’ambito di quel patto sociale di solidarietà che è in progetto di sottoscrivere tra il Comune di Scicli, il Vicariato di Scicli e la curia di Noto.
Ma credo che forse bisognerà pensare anche ad una riflessione comune sul futuro di Scicli che coinvolga tutte le energie vive sociali, politiche, religiose e culturali della nostra città.
Il Signore benedica i nostri piccoli sforzi.
La processione col Santissimo Sacramento per le vie della nostra città sia dunque pegno di ogni fame saziata e della sovrabbondanza dei doni celesti per la rinascita religiosa e civile della nostra città:
Scicli affamata oggi è invitata al banchetto delle nozze dell’Agnello.
Si sazi ognuno di quel Corpo e di quel Sangue che estingue ogni fame e ogni sete.
Tu, Buon pastore, vero pane, o Gesù, pietà di noi:
nutrici e difendici, portaci ai beni eterni

nella terra dei viventi. Amen

domenica 2 giugno 2013

Galli della Loggia ci fa riflettere sulla libertà religiosa minacciata in occidente

Una libertà minacciata
Una grande rivoluzione sta silenziosamente giungendo al suo epilogo in Europa. Una rivoluzione della mentalità e del costume collettivi che segna una gigantesca frattura rispetto al passato: la rivoluzione antireligiosa. Una rivoluzione che colpisce indistintamente il fatto religioso in sé, da qualunque confessione rappresentato, ma che per ragioni storiche, e dal momento che è dell'Europa che si parla, si presenta come una rivoluzione essenzialmente anticristiana.

Ormai, non solo le Chiese cristiane sono state progressivamente espulse quasi dappertutto da ogni ambito pubblico appena rilevante, non solo all'insieme della loro fede non viene più assegnato nella maggior parte del continente alcun ruolo realmente significativo nel determinare gli orientamenti delle politiche pubbliche - non solo cioè si è affermata prepotentemente la tendenza a ridurre il cristianesimo e la religione in genere a puro fatto privato - ma contro il cristianesimo stesso, a differenza di tutte le altre religioni, appare oggi lecito rivolgere le offese più aspre, le più sanguinose contumelie.

Ecco alcuni esempi, tra gli innumerevoli che potrebbero farsi, di quanto sto dicendo (tratti in parte da una dettagliata denuncia pubblicata su un recente numero di Avvenire ). In Irlanda le chiese sono obbligate ad affittare le sale per le cerimonie di loro proprietà anche per ricevimenti di nozze tra omosessuali; a Roma, nel corso del concerto del Primo Maggio un cantante ha mimato il gesto rituale della consacrazione dell'ostia durante l'eucarestia avendo però tra le mani un preservativo al posto dell'ostia; in Danimarca il Parlamento ha approvato una legge che obbliga la Chiesa evangelica luterana a celebrare matrimoni omosessuali nonostante un terzo dei ministri di questa si siano detti contrari; in Scozia due ostetriche cattoliche sono state obbligate da una sentenza a prendere parte a un aborto effettuato dalle loro colleghe, mentre dal canto suo l'Ordine dei medici inglese ha stabilito che i medici stessi «devono» essere preparati a mettere da parte il proprio credo personale riguardo alcune aree controverse.

Ancora: in un recente video di David Bowie, in cui la celebre rockstar è abbigliato in modo che ricorda Gesù, la scena mostra un prete che dopo aver percosso un mendicante entra in un bordello e qui seduce una suora sulle cui mani subito dopo si manifestano le stigmate; in Inghilterra, a un'infermiera è stato proibito di portare una croce al collo durante l'orario di lavoro, mentre una piccola tipografia è stata costretta ad affrontare le vie legali per essersi rifiutata di stampare materiale esplicitamente sessuale commissionatole da una rivista gay; in Francia, in base alla legislazione vigente, è di fatto impossibile per i cristiani sostenere pubblicamente che le relazioni sessuali tra persone dello stesso sesso costituiscono secondo la loro religione un peccato. E così via in un profluvio impressionante di casi (per informarsi dei quali non c'è che andare sul sito wwww.intoleranceagainstchristians.eu ).

Senza contare che ormai in quasi tutti i Paesi europei, al fine proclamato di impedire qualunque pratica discriminatoria, è stata cancellata l'erogazione di fondi alle istituzioni cristiane, così come è stata cancellata la clausola a protezione della libertà di coscienza nelle professioni mediche e paramediche. Non si contano infine in tutte le sedi più o meno ufficiali, a cominciare da quelle scolastiche, i casi di cancellazione, a proposito delle relative festività, della parola Natale, sostituito dal neutrale «vacanze invernali» o simili.

Ce n'è abbastanza da suscitare la preoccupazione di qualunque coscienza liberale. Qui infatti non si tratta tanto di cristianesimo, di Chiesa, o di religione, bensì di qualcosa di ben più importante: si tratta di libertà. E di storia. Di consapevolezza cioè che in Europa la libertà religiosa ha rappresentato storicamente l'origine (e la condizione) di tutte le libertà civili e politiche. Essere assolutamente liberi di adorare il proprio Dio, di propagarne la fede, di osservarne i comandamenti, di aderire alla visione del mondo e al senso dell'esistere che questi definiscono, di praticarne pubblicamente il culto; ma anche naturalmente essere libero di non avere alcun Dio e alcun culto: da qui è partito il cammino della libertà europea. E c'è bisogno di ricordare che si è trattato del Dio cristiano?

La libertà religiosa vuol dire alla fine null'altro che la libertà della coscienza, cioè il non essere obbligati per nessuna ragione ad abbracciare idee o comportamenti contrari ai dettami accettati nel proprio foro interiore. Che è appunto la libertà di autodeterminarsi: e pertanto anche di parlare, di scrivere, di discutere a sostegno delle proprie convinzioni, così come di ascoltare quelle altrui e magari farsene convincere.
Insomma, libertà religiosa da un lato e dall'altro libertà di opinione e di parola - che sono i due pilastri della libertà politica - vanno all'unisono. È innanzi tutto da questo punto di vista, dunque, che è quanto mai preoccupante il fatto che oggi, in Europa, in molti luoghi e per molti versi, la libertà dei cristiani appaia oggettivamente messa in pericolo. E non importa che ciò avvenga per il proposito di proteggere da supposte discriminazioni questa o quella minoranza. È anzi semplicemente paradossale, dal momento che nell'attuale panorama del continente sono i cristiani in quanto tali che appaiono una minoranza. Lo sono di certo - e massimamente i cristiani cattolici e la loro Chiesa - rispetto al mainstream dell'opinione e del costume dominanti e culturalmente accreditati.

Basta vedere come nelle materie più scottanti alcuna voce autorevole, riconosciuta generalmente come tale, si alzi quasi mai a sostegno del loro punto di vista; come ogni accusa nei confronti loro e del loro clero raccolga sempre larghissimo favore; come ogni attribuzione di responsabilità storica per qualunque cosa negativa del passato, anche la più fantasiosa, sia invece sempre di primo acchito giudicata fondatissima.
È forse ora che l'Europa che si dice e si vuole «Europa dei diritti» - ma che finisce troppo spesso per essere solo l'Europa del pensiero unico politicamente corretto - ricordi il celebre ammaestramento di una grande figlia dell'ebraismo rivoluzionario, Rosa Luxemburg. La quale si può presumere che come ebrea e rivoluzionaria sapesse bene ciò di cui parlava: «La libertà è sempre e solo la libertà di chi la pensa diversamente».

Ernesto Galli della Loggia

IO ACCUSO…

Tra epidemia e calura estiva è passato sotto silenzio un importante responso della Congregazione della Dottrina della fede e approvato in pr...