sabato 27 febbraio 2016

Il dovere di aggiornarsi

Permettetemi una riflessione ancora una volta sulla storia e sulla nostra incapacità tante volte di non saperla leggere fino in fondo e, soprattutto, sulla nostra incapacità di tenerne il passo. Non mi riferisco al volgare “stare al passo coi tempi” perché non è detto che questo sia sempre una virtù! Mi riferisco alla capacità di quello che Papa Giovanni XXIII chiamava “aggiornamento”: cioè di saper leggere i “segni dei tempi” per riuscire a cogliere al di là delle superficiali contraddizioni il lento cammino di maturazione e di crescita dell’umanità. Aggiornamento perciò significa capacità di non legarsi a schemi fissi, a pregiudizi, a ideologie che la storia stessa spesso ha rivelato erronee o quantomeno superate, e quindi capacità di aprirsi al nuovo, più che alle novità, con onestà intellettuale e senza trasformismi. Aggiornamento che deve prendere le mosse in ambito culturale da un fatto tanto semplice quanto a mio avviso tanto importante: dallo stare attento cioè ai progressi degli studi e delle ricerche delle varie discipline. Mi dà infatti sempre un senso di insofferenza  il riscontrare in tanti una sorta di apatia intellettuale, se non di pigrizia vera e propria, nel rimanere fermi alla quattro cosucce imparate quando si andava a scuola senza poi la minima preoccupazione di accrescere o rivedere criticamente il loro sapere. Esemplifico, chiedendo scusa se mi limito solo al mio ambito di conoscenza, con alcuni fatti riportati non certo per apologia! Già dai tempi del Concilio Vaticano II (e quindi da più di un trentennio) ci fu il reciproco annullamento delle scomuniche tra Roma e Costantinopoli emesse con lo Scisma di Oriente, ma i libri di storia non ne parlano ancora! anni fa è stato firmato un documento storico tra la Chiesa Cattolica e la Chiesa Luterana in cui si riconosce che la dottrina luterana della giustificazione è componibile con la fede della Chiesa con l’annullamento anche qui delle scomuniche reciproche, facendo seguito al riconoscimento della validità delle intuizioni della Riforma di Martin Lutero fatta da Giovanni Paolo II, ma a scuola si continua a insegnare come se la “lite” dogmatica tra cattolici, luterani e ortodossi continuasse e non fosse già finita. Con la revisione del processo di Galileo si è visto come la condanna che subì fu quella di dover recitare una volta alla settimana i sette salmi penitenziali e come alloggio cinque camere con vista sui giardini vaticani e con cameriere personale, tutto a spese della Santa Sede: altro che tortura e carcere! E se il rabbino capo di Roma al tempo del nazismo alla fine della guerra si convertì al cristianesimo e prese il nome di Eugenio in omaggio a quanto aveva fatto Papa Pio XII (Eugenio Pacelli) in favore degli ebrei, ha ancora senso dare più credito alle fantasie di un commediografo di parte sul silenzio della Chiesa per la Shoà? Aggiornamento in questo senso significa allora il permettere alla verità di farsi strada, di ricomporsi dagli strappi a cui spesso viene sottoposta, di venire fuori dalle costrizioni partigiane e dalle tirannia delle opinioni. Perché quando, ad esempio, a non aggiornarsi sono quei “professionisti” della cultura che dovrebbero essere gli insegnanti, il risultato a volte è tragico: infatti si corre il rischio di fornire agli studenti informazioni tendenziose se non addirittura false! Così facendo non si riesce certamente né a fare un buon servizio alla verità e né quindi a saper comprendere le vere ragioni della storia. “Pensare” la storia credo che invece oggi sia un dovere imprescindibile per quanti non si vogliono rassegnare a sentirsi quasi schiavi impotenti di avvenimenti che corrono il rischio di prenderci la mano: e questo un uomo che vuole essere all’altezza del suo ruolo nel mondo non se lo può permettere!


sabato 20 febbraio 2016

dare del tu al proprio computer?

Qualche tempo fa una mia ‘confessione’ su Dibattito è uscita riportando nel titolo un errore, stravolgendo il famoso detto: “timeo lectorem unius libri”. Un errore nato non da ignoranza (non sarò Cicerone ma, credetemi, almeno il latino della Messa lo conosco!!!) ma dalla fretta e da un eccesso di fiducia nelle facoltà del computer! Confesso infatti che se non ho l’urgenza della stampa del giornale non riesco mai a dare l’ultimo tocco all’articolo. Così poi in fretta mi affido al servizio di revisione e correzione automatica del computer che certo non conosce il latino o, meglio, ha imparato a riconoscere solo le parole che io altre volte ho usato e che ha memorizzato. Quando corregge perciò compie due scelte: o lascia la parola sottolineata in rosso, per indicare quello che secondo lui è un errore, oppure la cambia con un’altra che gli si avvicina e che secondo lui è la forma esatta. Per curiosità sono andato a rivedere l’origine dello sbaglio riscrivendo la frase al computer per seguire il modo come procedeva alla correzione. Vi confesso che la cosa mi ha in un certo senso coinvolto, e ho voluto vedere fino a che punto stiamo diventando interdipendenti noi e queste macchine sui generis! Così ho scoperto che il mio computer ha cambiato il ‘timeo’ in ‘temo’ (parola italiana più somigliante), il ‘lectorem’ in ‘lector’ (perché già usato altrove nel parlare del principio ermeneutico del ‘lector in fabula’ e quindi memorizzato) e ha lasciato ‘unius’ in rosso. Non ha segnalato affatto ‘libri’ perché l’avrà scambiato per il plurale italiano di libro. La mia fretta allora non mi ha fatto sentire il bisogno di dare una guardata alle parole sottolineate in rosso e così è venuto fuori l’errore! Mi scuso per la pedanteria della descrizione, ma è per far comprendere – specie a chi non ha familiarità col computer – la riflessione che ne è scaturita. Il mio errore infatti mi ha ricordato il tentativo di un gruppo di esegeti di far tradurre alcuni brani evangelici al computer per avere una traduzione quanto più neutrale possibile. Ebbene la frase di Gesù al Getsemani “lo spirito è forte ma la carne è debole” fu tradotta con “l’alcool è forte di gradi e la carne è tenera”!!! Che ne capisce un computer di allegorie, similitudini, doppi sensi e cose del genere? Ma ancora di più mi ha ricordato il film di Kieslowski sul I° Comandamento: “non avrai altro Dio all’infuori di me”. Lì un padre ha educato il figlio nel culto dell’intelligenza artificiale che è in grado di gestire tutta la vita domestica (ogni cosa nella loro casa è gestita dal computer) e che sogna essere in grado di gestire in un futuro tutti gli aspetti della vita dell’uomo. Ma la tragedia è dietro l’angolo: nonostante i calcoli del computer che indicavano lo spessore del ghiaccio tale da sopportare il peso di un uomo, il figlio muore proprio annegando nel fiume attraverso l’apertura di una crepa nel ghiaccio ‘sicuro’! La lezione credo sia chiara: la vita non dipende dal computer. Perché fin quando ci vada di mezzo un errore di scrittura o di traduzione tutto finisce con una risata, ma quando questi strumenti sono caricati di attese eccessive, specie quando ci si attende qualcosa che una macchina non può dare, qui cominciano i problemi! Ho letto infatti da qualche parte che aumenta sempre di più il numero delle persone che prendono a “botte” il proprio computer passando dall’insulto alla demolizione totale! Ma insieme cresce anche il numero di chi si rivolge sempre di più al proprio computer quasi con un ‘tu’ da dialogo amicale da ‘Io e lui’ alla Moravia! C’è da pensare che il computer stia diventando davvero il nostro alter ego o un’appendice della nostra personalità di cui non riusciamo più a fare a meno? Con il computer ormai abbiamo un rapporto in cui l’odio e l’amore si alternano e si mescolano in una specie di strano e nuovo sentimento in cui stavolta il destinatario non è una persona ma una macchina! Da quando ho comprato il computer ad esempio mi sono reso conto come tante volte non sia facile proprio capire chi dei due comandi sull’altro! Farne a meno? No, perché sono anche gli strumenti a fare un buon ‘mastro’ ci avverte la sapienza antica e certo non sono di quelli che demonizzano il progresso tout court. Dipende credo dal non riporre un’eccessiva fiducia in quello che appunto non è altro che uno strumento. Perché in fondo è una macchina e dimenticarlo è pericoloso! Quando si pensa che si possa sostituire alla nostra intelligenza, alla nostra attenzione e al nostro lavoro spuntano fuori i guai e allora le tirate di orecchie non se le merita lui ma ce le meritiamo noi!

sabato 13 febbraio 2016

Chi educa oggi?

Passavamo davanti ad una casa, due bambine di un quattro anni circa con in braccio ognuna una bambola giocano. Rallentiamo un po’ il passo perché ormai non è più facile incontrare scene del genere. Ma il sapore di quella scena serena dura poco. Una bambola scivola dalla mano di una bimba e cade sul gradino della porta, la vuole raccogliere ma l’altra la ferma: “aspetta facciamo un gioco” dice e io quasi mi fermo curioso. Nel frattempo l’altra bimba si mette accanto alla porta e finge di telefonare: “Pronto polizia? Si? Venite, c’è un maniaco che ha violentato una bimba. E poi le ha staccato le mani e poi i piedi e poi la testa e poi l’ha ridotta in piccoli pezzetti e poi ha pestato tutto coi piedi”. E questo detto con una naturalezza e con un tono disincantato come se stesse ordinando un gelato. Vi confesso che io e l’altro sacerdote che passeggiava con me ci siamo fermati allibiti e sconcertati. Che dire? Che pensare? Immagine dei tempi d’oggi, frutto di ciò che purtroppo si vede e si sente nelle nostre televisioni, evidenza di ciò che la cronaca nera ci riporta tutti i giorni… Ci domandiamo che esempi stiamo dando alle nuove generazioni. Ci interroghiamo sulla responsabilità educativa che ognuno per sua parte dovrebbe sentire. Chi educa oggi? Chi dovrebbe educare oggi? Educare: tra le altre cose significa formare ai valori. Ma nessuno oggi ci pensa. Lo stato laico non può imporre valori, si dice: ma è proprio sicuro che il contrario di uno stato “etico” sia uno stato amorale? La scuola non educa più i giovani né al rispetto reciproco, né a quello per gli insegnanti e comunque per gli adulti, né a tutti quei valori che costituiscono i fondamenti di una civiltà: gli insegnanti scaricano la responsabilità sui genitori che hanno abdicato al loro ruolo, e anche questo è vero. Ormai nessun padre osa dire al figlio che un gesto o un comportamento sono sbagliati. Umilmente devo riconoscere che anche nelle nostre parrocchie il tono si è abbassato di molto, per paura che i giovani scappino via o per un malinteso senso di benevolenza pastorale siamo pronti ad accettare o a subire anche comportamenti al limite dell’educazione e della morale. Che fare? Spesso ne abbiamo parlato e non vogliamo ripeterci né fare gli eterni catoni pronti più a censurare che ad indicare nuove strade. Un educatore tedesco dei primi del novecento diceva che l’educazione delle nuove generazioni è ogni volta come l’inculturazione dei barbari. I grandi devono accettare continuamente la sfida di inculturare, cioè inserire nel solco della tradizione e della civiltà ogni nuova generazione: perché ogni nuovo nato è un “barbaro” che deve essere educato alle regole del gioco civile. Forse ci siamo illusi che questo “incivilimento” avvenisse in modo automatico e senza bisogno di un intervento degli adulti che aiutasse a “razionalizzare e interiorizzare i comportamenti”. Abbiamo dato troppe cose per scontate: me ne accorgo quando do per scontato il fatto che alcune esperienze, solo perché le abbia vissute io le abbiano vissute anche gli altri, i miei alunni o i miei giovani. Poi però vedi che è impossibile parlare di Moro se a quei tempi nessuno di loro era nato e quindi loro la stella a cinque punte te la disegnano sulla lavagna come una decorazione natalizia. Lo stesso, è impossibile parlare del Papa Buono dando per scontato che ci si riferisca a Papa Giovanni se sono tutti sono i quindici anni. Perché il guaio non è della loro piccola età, è dato dal fatto che nessuno ha mai raccontato loro queste storie. Ugualmente nessuno ha mai detto loro come ci si comporta in società. Gli ebrei a Pasqua invece sono obbligati a raccontare ai figli la loro liberazione dall’Egitto: così è come se ogni generazione ripetesse quell’esperienza. Io credo che una strada per uscire dalla barbarie sia il recupero della memoria e della storia che ti fa sentire parte di un popolo e di una civiltà: altrimenti sarà la fine! Immaginate cosa significhi entrare in una classe a Scicli e scoprire che nessuno conosce S. Guglielmo o il perché di altre tradizioni religiose come quella del Venerabile a Pasqua. Ma domani si potrà pure dimenticare Hitler e i suoi efferati crimini, e allora cosa succederà? “Un popolo che dimentica la sua storia è condannato a riviverla” ha detto qualcuno. Mi auguro sinceramente che questo non avvenga.

sabato 6 febbraio 2016

Scambiare il cavallo per il cavaliere

A Modica gira un racconto: ‘Un modicano di campagna si recò per la prima volta al duomo di San Giorgio e al sacrista -  davanti alla sua statua del Santo cavaliere - mostrando grande interesse per il simulacro chiese al sacrista: “Bello davvero S.Giorgio! Ma quello sopra il cavallo chi è?”. Il campagnolo aveva riconosciuto il cavallo – questo rientrava nella sua esperienza – ma non aveva riconosciuto il santo che cavalcava il cavallo, perché - così si scusò – il santo non l’aveva mai incontrato prima! Il guaio non è stato la sua inesperienza in fatto di santi, quanto il voler leggere a partire dalla propria limitata esperienza un fatto più grande di lui col risultato di confondere il cavaliere col cavallo! Dove è stato lo sbaglio? Nel non confessare la propria ignoranza e così la sua stessa esperienza si è rivelata un pregiudizio, un fattore che cioè lo ha ingannato nell’accrescersi del suo processo conoscitivo dando luogo ad un errore. Risibile errore in questo caso. Solo che in tanti altri casi gli esiti dei pregiudizi danno luogo ad esiti drammatici. Mi veniva in mente questo aneddoto a proposito della preparazione della festa di San Giuseppe e della Cavalcata: c’è chi purtroppo ogni anno si ferma ai cavalli e non riesce ad andare al di là del cavallo! Fuor di metafora c’è chi crede che la Cavalcata sia una manifestazione equina (al massimo arriva alla sua dimensione folkloristica) ma non riesce a cogliere il suo aspetto fondamentale che è quello religioso. Come per la statua di San Giorgio, per bello che sia il cavallo quello che conta è il Santo che lo monta, così la cavalcata non ha ragione di esistere senza San Giuseppe e la rievocazione della fuga in Egitto! Chi vuole separare le due cose volendo fare la festa al solo cavallo di San Giorgio credo che abbia le idee confuse [ ma – detto per inciso - i miei cari lettori (e in questo caso i devoti di San Giuseppe ) non devono temere: finché il parroco sarò io la Festa e la Cavalcata saranno “di San Giuseppe”!].  Anche qui il guaio sta nella mancanza di una conoscenza esatta o in una conoscenza parziale ed errata che però rimane inconfessata ma che viene creduta esaustiva e quindi dà luogo ad una lettura preconcetta delle cose. Perché scrivo questo? Per raccontare anzitutto il modo con cui nascono le mie riflessioni.  Spesso infatti  mi viene chiesto il perché dei miei articoli, se scrivo perché ce l’abbia con qualche persona in particolare o se sono dettati da qualche episodio particolare. Voglio soddisfare la parte legittima della curiosità di chi mi ha fatto queste domande. Le mie confessioni nascono sempre da esperienze personali, questo però non vuol dire che “sic et simpliciter” siano trasposte nei miei scritti, né tantomeno che usi i miei articoli per attaccare indirettamente qualcuno. Mi sembra di aver dato ampiamente prova che quando voglio dire qualcosa a qualcuno so benissimo chiamarlo per nome e cognome. Ma non credo che il giornale o il blog debbano servire per combattere le mie battaglie. Se ho accettato l’invito a scrivere e ho deciso di collaborare attraverso lo strumento delle mie “confessioni” sul periodico “Dibattito” di Scicli è perché invece credo che forse a qualcuno le mie riflessioni sui più vari accadimenti possano interessare, dato che penso di non essere il solo a cercare di dare continuamente senso alle più varie esperienze che la vita ci propone, come d’altronde io sono grato a quanti, aprendomi il loro cuore e mettendomi a parte dei loro pensieri, mi consentono di usufruire della loro ricchezza spirituale per la mia crescita personale. Ritornando alla storia del cavallo di San Giorgio: il problema del pregiudizio è il tema della stupidità di cui abbiamo parlato la volta scorsa. Perché? Perché il problema – e se ne era accorto già Platone nella sua Apologia di Socrate – è che spesso chi è ignorante o ha una conoscenza parziale, invece di aprirsi ad una conoscenza più ampia, si chiude in una sorta di compiacimento autosufficiente e si crede invece già saggio e sapiente, ritenendo di non aver niente da imparare dagli altri, anzi la sua conoscenza parziale, se assolutizzata si rivela come un pregiudizio insanabile. Lo stupido di cui parlavo in qualche altro scritto precedente è di questo genere: avrebbe tutti gli strumenti di cui l’ha dotato madre natura per conoscere non superficialmente ma dal di dentro le cose (intelligenza, intelligere, non viene proprio da intus – leggere : leggere dentro?) ma non li usa o li usa male! E li usa male perché è viziato da pregiudizi insuperabili che gli fanno leggere in modo distorto la realtà. Un antico detto ammonisce “timeo lectorem  unius libri”: temo il lettore di un solo libro. Come dire, temo chi si è chiuso nelle proprie idee e vuole sentir suonare solo la propria campana. L’altro articolo si chiudeva con l’accenno al fatto che la stupidità si risolve da un lato con la responsabilità e dall’altro con la qualità della propria esistenza. Ebbene, qualità significa qui appunto la capacità di saper uscire dalla propria mediocrità, dalla propria ignoranza, aprendosi alla cultura, al confronto con le ragioni degli altri, all’intelligenza che non si fa abbagliare dagli specchietti per le allodole. Confesso che per me è sempre una gioia stimolante incontrare e parlare con persone di cultura che magari combattono in campi diversi e talora opposti al mio ma la cui intelligenza  ti permette un incontro vero con l’altro e una comune ricerca della verità, piuttosto che a volte sopportare la pena di gente vuota e insignificante che non sa andare al di là dei propri pregiudizi e del pettegolezzo e che pure dice di essere dalla tua parte e d’accordo con te! Per questo non amo i talk – show e rifiuto gli inviti a parteciparvi. Perché spesso sono solo una sfilata di gente che monologa e ognuna a partire dal proprio pregiudizio. Alla fine ognuna ritorna a casa così come era prima: e allora cosa ci ha guadagnato? La qualità della vita invece credo dipenda dalla propria onestà intellettuale con cui uno si mette alla ricerca della verità e della sapienza. Partendo però da un ammissione: il sapere di non sapere! Cioè il non credere di sapere tutto. Si può conoscere la propria arte eppure non essere sapienti! Proprio come Socrate: allora si arriverà alla “dotta ignoranza” di cui parlano mistici religiosi e laici. E credo che, in tempi in cui è facile scambiare il cavallo per il cavaliere, un po’ di saggezza e di intelligenza non guastino a nessuno!

IO ACCUSO…

Tra epidemia e calura estiva è passato sotto silenzio un importante responso della Congregazione della Dottrina della fede e approvato in pr...