mercoledì 26 dicembre 2012

BESTIE E BESTIALITA'

Per caso prima di Natale mi trovavo davanti al televisore. In uno dei talk show c'è l'intervista ad un prete (a me sconosciuto) che fra l'altro sponsorizza un suo libro. Il giornalista gli chiede lumi sul fatto che il papa nel suo ultimo libro parla dell'assenza del bue e dell'asino nei vangeli della nascita.
Il prete gioca a fare il dotto ma è evidente il suo imbarazzo perché mostra di non aver letto il libro del Papa e quindi sconosce  la spiegazione del papa a partire dalla profezia sull'asino e il bue che conoscono il loro padrone a differenza di Israele che non riconosce il suo creatore... Ma se anche non ci fosse stato il libro del papa questa interpretazione è così antica ed evidente che la presenza di bue ed asino la troviamo già nelle raffigurazioni della nascita dei primi secoli, per cui quel prete avrebbe dovuto conoscerla!
E invece? Che sento dire? Che sì, è vero, nei vangeli non c'è traccia di bue ed asino e nessuno prima ne ha parlato o li ha raffigurati: è stata una invenzione di San Francesco che non solo ha inventato il presepe (sic! ancora con queste leggende metropolitane) ma dovendolo ambientare in un stalla (sentite sentite) per creare l'atmosfera da stalla (ri-sic!) ha creduto bene metterci il bue e l'asino!
Vi evito le altre baggianate.
E poi ci meravigliamo che la gente non viene in chiesa: se quel prete predica come parla nelle interviste...
Mi chiedo se non sia il caso di allargare lo spazio nella stalla per metterci un'altra bestia da presepe...

lunedì 24 dicembre 2012

BUON NATALE


Cristo Signore è in eterno senza inizio presso il Padre; eppure tu puoi chiedere oggi:
che è?  E’  il Natale.
Di  chi?  Del Signore.
Ma è nato il Signore? Sì !
Il Verbo che era in principio, Dio presso Dio, è dunque nato? Sì!
Se egli non avesse avuto una generazione umana, noi non saremmo mai pervenuti alla rigenerazione divina.
Egli è nato perché noi rinascessimo.
Cristo è nato: nessuno esiti a rinascere.
Sua madre lo portò in seno: e noi portiamolo nel cuore.
La vergine si è fatta gravida all’incarnazione del figlio: e i nostri cuori siano gravidi della fede di Cristo.
La vergine partorì il Salvatore: la nostra anima partorisca la salvezza.
Partoriamo la lode.
Non restiamo sterili: le nostre anime siano feconde per Dio.


(Sant’Agostino, Discorso sulla nascita del Signore, 189,3) 

martedì 18 dicembre 2012

MESSALE LATINO - ITALIANO: ora ci sono anche i due volumi feriali

Quando l'anno scorso abbiamo recensito la pubblicazione del Messale latino - Italiano per la domenica e le feste, auspicavamo la pubblicazione anche del messale feriale.
Adesso ci è stato fatto questo regalo: sono stati pubblicati, editi dalla LAS (Libreria Ateneo Salesiano), a cura del Pontificium Institutum Altioris Latinitatis  il secondo e il terzo volume del messale romano bilingue che contengono tutti i testi per i giorni feriali e il santorale, così distribuiti: I°) Avvento – Natale – Quaresima – Pasqua – Tempo per annum 1-10 e santorale dicembre-giugno; II°) Tempo per annum 11-34, e santorale giugno-novembre. Inoltre sono presenti tutti i testi delle messe ad diversa e votive e quelle per i defunti.
Così adesso il progetto è concluso. Proprio nell'anno della fede e, diremmo, è il miglior modo per ricordare correttamente l'apertura del Concilio Vaticano II  che, non ci stancheremo di ricordarlo, non ha mai abolito il latino dalle celebrazioni del Rito Romano.
Grazie a chi ha voluto e realizzato quest'opera.
L'augurio è che non rimanga negli scaffali degli studiosi ma diventi lo strumento concreto per l'applicazione corretta della riforma liturgica voluta dal Concilio.

mercoledì 5 dicembre 2012

Il Talmud di Scicli


E’ dal mese di novembre in vendita Il Talmud di Scicli di Massimo Melli, con il contributo di Aharon Nathan, per i tipi della Edizioni Il minutod’Oro.

Debbo ammettere di aver letto con interesse questo strano libro che oscilla tra due generi letterari: il genere epistolare o dialogico che si intreccia con quello di formazione o esperenziale, con le vicende autobiografiche che formano lo sfondo e anche lo stimolo per l’avvio della ricerca esistenziale sulle domande di senso che intersecano la ricerca delle proprie origini…
E del Talmud ha ripreso anzitutto le modalità dello studio: la Chavruta, cioè la compagnia. Termine usato per indicare il partner di studio del Talmud, che, come è risaputo, viene studiato in una forma dialogante, quindi con un compagno di studio. L'importanza di questo "stile" nello studio del Talmud è espresso dal famoso detto talmudico: O chavruta o mituta, o compagno di studio o morte (dello studio, si intende!)
Il libro riprende le eterne domande che, nel linguaggio di san Tommaso d’Aquino costituiscono le quaestiones fondamentali della sua Summa:
an sit Deus, quid sit Deus, quid sit creatio, an possit Deus creare
Quaestio viene da qaerere che significa domandare ma nel senso di cercare, ricercare.
Il libro ha infatti dietro le grandi domande, le grandi ricerche dell’uomo: chi sono? Donde vengo? Dove vado?  Giacchè in fondo, le domande su Dio non sono che un risvolto delle domande sul senso della vita: dalle quali nessun uomo può scappare e dunque ogni uomo è chiamato a ripeterle a se stesso.
E se poi c’è un popolo che ha fatto della domanda e della ricerca quasi la dimensione essenziale della propria esistenza, questo è il popolo ebraico, in cui anche il confronto con la Sacra Scrittura è anzitutto domanda alla Parola divina affinchè dia le sue risposte sempre nuove e adatte ad ogni uomo. Anzi bisogna ricordare che il Paradiso stesso per la tradizione rabbinica sarà una grande jeshivà dove le domande finalmente potranno essere fatte direttamente a Dio!
In questo senso, il libro rivela tutta la mentalità ebraica della ricerca e della domanda ad oltranza: in fondo del Talmud ha preso poi non tanto le domande quanto lo stile della discussione infinita!
Chi conosce il Talmud sa che, anche per la sua composizione a stampa, è costituito dalla domanda centrale su un tema, spesso originata dal confronto con la Bibbia e le sue varie interpretazioni, intorno alla quale si costruiscono quasi a cerchi concentrici le risposte che a loro volta diventano domande per nuove risposte…

Il libro dunque, riprendendo le domande di senso, cerca di comporre insieme il dato originario della Torà, in particolare dei primi capitoli di Bereshit/Genesi sulla creazione, con i più moderni dati della fisica e della scienza moderna.

E qui debbo confessare di aver seguito con difficoltà le dimostrazioni fatte perchè i richiami alla fisica sono troppo difficili per me e spero che non appesantiscano la lettura anche per gli altri lettori che mi auguro essere più bravi di me in matematica e fisica!

Tuttavia sono riuscito a comprendere quanto basta per avere una visione chiara del progetto dell’autore di voler dimostrare come in fondo, a saperlo leggere, il dato biblico non sia poi così lontano dal dato scientifico.
Anche se forse l’autore non riesce del tutto a trovare una soluzione che sappia comporre insieme l’atto creativo di Dio e il suo prodotto, la creazione, mantenendo tuttavia l’alterità di Dio stesso rispetto al suo creato: pena il ricadere nel monismo panteista del Deus sive natura dello Spinoza, che, ebreo, fu scomunicato dalla comunità ebraica proprio per questa tesi.
Il rischio non è da sottovalutare perché il cadere nel determinismo implicherebbe il negare all’uomo ogni libero arbitrio, che è invece il principio più bello che la tradizione biblica ha regalato tramite l’eredità giudaico-cristiana a tutto il mondo occidentale.
E che provocherebbe la reazione positivista, caduta nel dilemma riproposto da Jacques Monod: o il caso o la necessità!
In questo senso credo che la soluzione proposta della Probabilità, non risolva del tutto le domande poste, perché lascerebbe in definitiva spazio al caso e comunque ad un Dio che non sarebbe in definitiva pienamente Dio!
Comunque sia l'idea è bella ed intrigante e al di là del risultato, merita apprezzamento il tentativo di comporre scienza e fede, anche se rivela un concordismo a volte ingenuo tra il modo di leggere la Bibbia e il suo confronto col dato scientifico.
In fondo, più che ricordare il Talmud, il libro, col ricorso a formule che alla fine più che fisiche o teologiche sembrano teosofiche, sembra richiamare la Kabbalà nel suo insieme di mistica, antropologia, chimica e fisica alchemica.
Il libro infatti vuole essere il tentativo di trovare vie nuove per un approccio al divino e nel riproporre la domanda ultima non solo sull'esistenza di Dio ma anche sulla domanda se si tratti di un Dio personale (quello rivelatosi nella Bibbia) o di un Dio impersonale che in ultima analisi viene ricondotto all'idea del fato o del destino o anche della probabilità!
Per evitare le sponde opposte di Scilla e Cariddi la tradizione biblica ha ben compreso che non ci si può fermare all’idea del Dio Creatore se non la si coniuga con l’immagine di un Dio che sia un Dio-persona, cioè abbia in se le caratteristiche del suo auto-porsi in modo libero sia rispetto a se stesso che alla sua creazione, e che sia quindi in grado di un dia-logos. Di porsi “di fronte” alla sua creazione.
In ciò sta pure l’essere dell’uomo-donna a immagine, secondo una certa somiglianza di Dio.
Recuperare il concetto di un Logos che è capace di esprimere questa dinamica divina è il solo modo per dire la differenza ontologica tra Dio e la sua creazione.
E per comprendere la collocazione dell’uomo nella creazione.
La creazione è fatta dal Davar/Logos divino e tramite il Davar/Logos.
E’ quanto dice Genesi e riprende il prologo di Giovanni.
Se poi si pensa che in ebraico il lemma Davar significa sia Parola che Cosa l'atto creativo di Dio nel suo Fiat... Fiant... non è altro che un "parlare/chiamare all'esistenza" in cui le "cose" create altro non sono che le parole "parlate" di Dio! 
Per cui i cieli narrano la gloria di Dio e l’opera delle sue mani annunzia il firmamento…
Per questo la tradizione biblica, ebraica prima e cristiana dopo, ha parlato di una intelligibilità della creazione perché espressione di una Ratio/logos inscritta nella natura stessa delle cose: è proprio in questa intersezione della Ratio con il creato che Benedetto XVI ribadisce stare la possibilità di un incontro fecondo tra scienza e fede e di un percorso che sappia andare intelligentemente dalla creatura al Creatore. 
Dio ha creato il mondo con 10 parole: sia luce... sia...!
E 10 parole (deca-logo) ha dato all’uomo per vivere nella creazione.
Da qui anche la possibilità di un'etica fondata sulla ratio della stessa natura.
L'incapacità di cogliere il Logos nel suo aspetto ermeneutico circa la creazione e lo stesso essere e agire di Dio porta con sé l'aporia della mancata risposta a quelle domande che nemmeno la stessa teodicea, ad esempio sul senso della vita, del dolore e della morte, sa risolvere pienamente.

Forse questo aspetto andava meglio approfondito, così come  mi sarei aspettato sia una conoscenza più articolata del retroterra ebraico da un lato (specie riguardo alle letture rabbiniche della Bibbia tramite la Torà orale della tradizione), sia una lettura del cristianesimo meno superficiale (più frutto di conoscenze recondite da catechismo da prima comunione che di uno studio vero e proprio). Ma ciò non inficia il valore di base del libro che spero susciti la curiosità dei lettori.
Il libro infatti merita attenzione perchè dimostra  che, contrariamente a quanto si possa pensare, oltre l'orizzonte del nihilismo in cui sembriamo essere tutti immersi, il Dio che, tramite le vicende della vita, pone le sue domande all'uomo, è ancora vivo e vitale!
E se poi le risposte sono cercate anche sotto il cielo stellato di Scicli, ad uno sciclitano, ciò non può che fare piacere! 

lunedì 5 novembre 2012

IL DECRETO SUL MINISTERO E LA VITA DEI PRESBITERI

Una meditazione sulla natura del presbiterato

Dobbiamo ringraziare Papa Benedetto XVI che ha voluto far coincidere l’indizione dell’Anno della fede con il 50° dell’apertura del Concilio Ecumenico Vaticano II e il 20° della pubblicazione del Catechismo della Chiesa Cattolica, che recepisce tutta l’eredità del Concilio inserendola nel ricco e  immutato patrimonio della Tradizione della Chiesa.
Dobbiamo dunque ritornare alle fonti. E non solo per il desiderio del papa ma perché ciò rappresenta la possibilità di collocare noi stessi e la nostra esperienza di fede nell’orizzonte dell’oggi del mondo e della storia della salvezza con una identità ben precisa.
Certo conosciamo tutti il decreto del Concilio sul ministero e la vita sacerdotale.
Io vi sono in special modo legato giacchè ha rappresentato la traccia degli esercizi spirituali in vista della mia ordinazione sacerdotale e già prima la traccia che ha segnato la maturazione della mia vocazione sacerdotale.
Il motivo è subito detto e chiaro: il documento presenta l’identikit del presbitero diocesano e  delinea le linee fondamentali di una spiritualità sacerdotale che ha nell’ecclesiologia della communio del corpo di Cristo e del servizio al popolo di Dio il suo fondamento, ecco quanto si dice all'inizio del documento:
<<2. […]tutti i fedeli formano un sacerdozio santo e regale, offrono a Dio ostie spirituali per mezzo di Gesù Cristo, e annunziano le grandezze di colui che li ha chiamati dalle tenebre nella sua luce meravigliosa […]
Ma lo stesso Signore, affinché i fedeli fossero uniti in un corpo solo, di cui però « non tutte le membra hanno la stessa funzione » (Rm 12,4), promosse alcuni di loro come ministri, in modo che nel seno della società dei fedeli avessero la sacra potestà dell'ordine per offrire il sacrificio e perdonare i peccati (6), e che in nome di Cristo svolgessero per gli uomini in forma ufficiale la funzione sacerdotale. […]
La funzione dei presbiteri, in quanto strettamente vincolata all'ordine episcopale, partecipa della autorità con la quale Cristo stesso fa crescere, santifica e governa il proprio corpo. Per questo motivo il sacerdozio dei presbiteri, pur presupponendo i sacramenti dell'iniziazione cristiana, viene conferito da quel particolare sacramento per il quale i presbiteri, in virtù dell'unzione dello Spirito Santo, sono segnati da uno speciale carattere che li configura a Cristo sacerdote, in modo da poter agire in nome di Cristo, capo della Chiesa.
Dato che i presbiteri hanno una loro partecipazione nella funzione degli apostoli, ad essi è concessa da Dio la grazia per poter essere ministri di Cristo Gesù fra le nazioni mediante il sacro ministero del Vangelo, affinché le nazioni diventino un'offerta gradita, santificata nello Spirito Santo. È infatti proprio per mezzo dell'annuncio apostolico del Vangelo che il popolo di Dio viene convocato e adunato, in modo che tutti coloro che appartengono a questo popolo, dato che sono santificati nello Spirito Santo, possano offrire se stessi come « ostia viva, santa, accettabile da Dio» (Rm 12,1). Ma è attraverso il ministero dei presbiteri che il sacrificio spirituale dei fedeli viene reso perfetto nell'unione al sacrificio di Cristo, unico mediatore; questo sacrificio, infatti, per mano dei presbiteri e in nome di tutta la Chiesa, viene offerto nell'eucaristia in modo incruento e sacramentale, fino al giorno della venuta del Signore.
A ciò tende e in ciò trova la sua perfetta realizzazione il ministero dei presbiteri. Effettivamente, il loro servizio, che comincia con l'annuncio del Vangelo, deriva la propria forza e la propria efficacia dal sacrificio di Cristo, e ha come scopo che « tutta la città redenta, cioè la riunione e società dei santi, offra a Dio un sacrificio universale per mezzo del sommo Sacerdote, il quale ha anche offerto se stesso per noi con la sua passione, per farci diventare corpo di così eccelso capo ».
Pertanto, il fine cui tendono i presbiteri con il loro ministero e la loro vita è la gloria di Dio Padre in Cristo. E tale gloria si dà quando gli uomini accolgono con consapevolezza, con libertà e con gratitudine l'opera di Dio realizzata in Cristo e la manifestano in tutta la loro vita.
Perciò i presbiteri, sia che si dedichino alla preghiera e all'adorazione, sia che predichino la parola, sia che offrano il sacrificio eucaristico e amministrino gli altri sacramenti, sia che svolgano altri ministeri ancora in servizio degli uomini, sempre contribuiscono all'aumento della gloria di Dio e nello stesso tempo ad arricchire gli uomini della vita divina. E tutte queste cose - le quali scaturiscono dalla pasqua di Cristo - troveranno pieno compimento nella venuta gloriosa dello stesso Signore, allorché egli consegnerà il regno a colui che è Dio e Padre>>.
Confesso che ho sentito sempre con dolore le affermazioni di chi diceva che il presbitero diocesano non ha una sua peculiarità o peggio di chi affermava di aver scoperto o riscoperto la sua identità ministeriale non lungo il suo itinerario vocazionale ma in seguito alla sua appartenenza a questo o a quel cammino o gruppo o associazione: senza nulla togliere a queste esperienze di fede, ho sentito sempre che la mia identità sacerdotale non potesse essere ridotta ad una esperienza, che – seppur bella – rimane sempre di parte.
Credo invece che a fondamento della vocazione presbiterale ci sia il sentirsi sempre parte del popolo di Dio: scelti dal popolo ma per servire il popolo di Dio, giacchè tutto il popolo è sacerdotale, cioè - come dice il decreto - è chiamato ad offrire se stesso come liturgia a Dio per Cristo nello Spirito Santo.
Noi esistiamo ma non per noi stessi: forse dovremmo interrogarci, anche sulla scia del vangelo di domenica, se a volte più che servire il popolo di Dio non ci serviamo del popolo di Dio per sottili autogratificazioni di noi stessi.
E come guidare i fedeli a offrire se stessi se noi non ci educhiamo ogni giorno ad offrire noi stessi e a far si che veramente tutto il nostro agire sia espressione di questo sacrificium laudis che siamo chiamati ad innalzare a Dio?
Il rischio infatti è serio e reale: che da servitori ci trasformiamo in faccendieri.
Perciò credo sia bello ciò che dice il decreto offrendoci la chiave per non disperderci tra le tante attività: avere la consapevolezza che qualsiasi attività si faccia dall’amministrare un sacramento all’atto di carità e foss’anche la gestione della contabilità stia contribuendo all’edificazione della chiesa, alla santificazione dei fratelli e in ultima analisi alla glorificazione di Dio.
E’ questo infatti ci ricorda il decreto il fine a cui tende tutto il ministero e la vita dei presbiteri.
E ce ne indica anche la via e il mezzo: è il mettersi alla scuola dell’eucaristia.
E’ nella celebrazione del sacrificio eucaristico infatti che noi impariamo da Cristo a sacrificare noi noi stessi così da aiutare tutti i fedeli ad offrire anche se stessi nell’unico sacrificio di Cristo.
L’identità sacerdotale è formata dunque dall’eucaristia; un sacerdote si comprende e può essere compreso solo a partire dall’eucaristia.
Confesso che in 25 anni di ministero è stata l’eucaristia la mia ancora di salvezza: quando tutto intorno ti viene a mancare – e prima o poi a tutti i preti succede – e anche lo stesso ministero e la stessa preghiera sembrano diventati aridi deserti, puoi sempre ritornare a dire con Cristo “prendete e mangiate… è il mio corpo dato per voi”…
Io ringrazio il Signore che, per una felice coincidenza col 25° della mia ordinazione, mi sta dando la grazia di ritornare alle sorgenti del mio ministero e della mia vocazione.
Voglio pregare e augurare ad ogni confratello presbitero che gli appuntamenti dell'Anno della fede, prima che pensare alle attività pastorali da fare, siano un modo per scoprire sempre in modo nuovo la nostra identità, la bellezza della fraternità sacerdotale, la gioia di servire il popolo di Dio, la consapevolezza di una vita sacrificata ma non dispersa ma che trova sempre nell’eucaristia la fonte e il culmine del suo ministero.
Dio conduca a compimento quello che ha iniziato in noi. 


martedì 23 ottobre 2012

Un anno della fede a 50 anni dal Concilio vaticano II

Forse non saremo mai sufficientemente grati a papa Benedetto per aver voluto questo Anno della fede e averlo fatto coincidere con il 50° dell’apertura del Concilio Vaticano II e il 20° della promulgazione del Catechismo della Chiesa cattolica che recepisce tutta l’eredità del Concilio inserendola nel ricco e  immutato patrimonio della Tradizione della Chiesa. E sicuramente l’intento del papa non è celebrativo, o, peggio ancora, per il corpo ecclesiale, autocelebrativo: lo si è intuito dallo stesso discorso da lui fatto in memoria dell’altro discorso “della luna” di Papa Giovanni XXIII.
Credo che sia invece l’invito ad un colpo d’ala per volare alto e finalmente uscire da opposte polemiche che non rendono ragione di quello che il Concilio veramente è stato e delle motivazioni per cui è stata voluta la sua celebrazione (da parte di papa Giovanni) e la sua continuazione (da Parte di Paolo VI): e perciò l’appello per andare alle fonti e disseppellire gli stessi documenti conciliari dalla massa di opuscoli e libelli che spesso, come ricorda Papa Benedetto, invece di aiutarne la comprensione, ne sono stati più di ostacolo.
Un ritorno quasi francescano, ai testi del Concilio “sine glossa”, parallelo ad una identica lettura del Vangelo, per riportare alla luce la freschezza del dettato della stessa “lettera” dei testi e coglierne lo “spirito” e viverne nella modalità di un evento che non vuole essere relegato nella memoria ma che domanda ancora prepotentemente di essere vissuto nella attualità ecclesiale.
Perciò non si poteva vivere quest’anniversario come memoria di un evento passato ma come la fonte di un rilancio della stessa esperienza di fede e dell’impegno per la nuova evangelizzazione: è questa la grande intuizione di Papa benedetto nel legare insieme la memoria dei due eventi nell’unico anno della fede.
L’undici ottobre è stato dunque un giorno di celebrazioni a tutti i livelli. Con manifestazioni anche esterne o con il semplice ricordo orante. Nel Vicariato di Scicli la memoria è stata fatta in tutte le messe feriali vespertine e poi soprattutto la domenica seguente, per coinvolgere la stragrande maggioranza dei fedeli in questo rinnovato cammino di fede e impegno di vita, pregando perché la riscoperta del Concilio dia nuovo slancio per l’opera di evangelizzazione: in questo senso in tutte le parrocchie è stato sottolineato il legame col Sinodo voluto dal Papa, proprio in questo mese di ottobre che è anche il tempo dell’impegno per la missione della Chiesa “ad gentes”. Inoltre in questo periodo la recita del Rosario, così come suggerito da papa Benedetto, in tutte le chiese (e in particolar modo il venerdì nel santuario mariano cittadino di santa Maria della Pietà, o a san Bartolomeo in occasione dei “sabati dell’Immacolata”) è stata incentivata e finalizzata all’intercessione e alla protezione di Maria che proprio durante il Vaticano II fu proclamata da Paolo VI Madre della Chiesa. Così come durante l’adorazione eucaristica nelle parrocchie cittadine pur con diverse modalità (e specialmente durante l’adorazione cittadina perpetua tutti i giorni nella chiesa di san Giovanni) una particolare intenzione di preghiera viene elevata per la memoria del Concilio e la sua attuazione e perché l’anno della fede dia frutti di rinnovamento e crescita ecclesiali nella riscoperta dell’Eucaristia che proprio il Concilio definì fonte e culmine della vita della Chiesa e di ogni cristiano. Giovanni XXIII volle poi San Giuseppe, Patrono della Chiesa universale (e il cui nome volle fosse inserito nel Canone romano dopo quello della santissima Vergine), come patrono speciale del Concilio Vaticano II: al Santo Patriarca, nella chiesa di san Giuseppe, a partire da giorno 11 e per tutto l’anno, nei mercoledì a lui dedicati, si rinnoverà la preghiera di affidamento per le sorti del Concilio e la sua corretta applicazione perché la Chiesa viva il suo impegno di continua riforma nella fedeltà al Cristo e alla sua missione.
Ma l’anno è ora tutto davanti a noi: sono diverse le iniziative in cantiere da parte di singole parrocchie, delle comunità di parrocchie e di tutto il vicariato, tramite le varie commissioni (con la proposta dello studio delle Costituzioni conciliari fondamentali Lumen Gentium, Dei Verbum, Sacrosanctum Concilium, Gaudium et Spes), mentre il clero vicariale nell’incontro mensile rifletterà sulla Presbyterorum Ordinis. Perché il Concilio e quest’anno si vivano veramente come occasioni di grazia da non sprecare ma da cogliere nella loro stimolante attualità.

mercoledì 10 ottobre 2012

Il Concilio Vaticano II e la sua ermeneutica: un esempio circa l'ecumenismo

Papa Benedetto XVI, col suo Motu proprio Porta Fidei, ha indetto un anno della fede, per commemorare insieme il 50° del  Concilio Vaticano II e il 20° della promulgazione del Catechismo della Chiesa Cattolica. Lo apriremo domani.
Gli anniversari, si sa, sono l’occasione per fare dei bilanci. Certo durante l’anno ci saranno occasioni per riflettere in modo più ampio ed articolato sul Concilio in sé, sulla sua ricezione e sui suoi frutti. Ma credo che sia bene fin da adesso, per uscire da quella lettura di un evento conciliare di discontinuità rispetto al passato, tesi questa formulata da opposte sponde ma con il medesimo effetto di leggere questo evento come rottura con la Tradizione precedente, seguire il criterio ermeneutico suggerito dallo stesso Papa Benedetto di una lettura del Concilio in continuità con tutta l’eredità cattolica precedente.
Più fecondo sarà dunque lo sforzo di cogliere invece la lettura del dato originale dei documenti conciliari, e dei documenti magisteriali ad essi connessi, per superare letture pregiudiziali e precostituite dei documenti stessi che hanno dato luogo anche ad esiti ed applicazioni parziali ed indebite degli stessi intenti conciliari. Per questo il papa Benedetto ha parlato stamani di liberare i documenti del Concilio da quella caterva di libri che dicendo di volerli spiegare in realtà vi si sono sovrapposti impedendo ai fedeli di cogliere il dato originale.
E da qui una divaricazione tra il Concilio e quanto operato nel postconcilio.
E’ mia impressione infatti che spesso la critica contro il  Vaticano II e le sue scelte dovrebbe essere indirizzata più che allo stesso  Vaticano II, al modo di leggere e concretizzare queste scelte.
In definitiva, prima di lasciarsi andare a pronunziare discorsi sul Concilio, converrebbe anzitutto chiedersi e conoscere cosa ha detto veramente il Concilio su una determinata materia. Credo che sia questione di una corretta ermeneutica e di…onestà intellettuale!
Si veda ad esempio l’impegno ecumenico per l’unità dei cristiani.
Si è detto che il Concilio non ha più pensato all’ecumenismo come ad un ritorno dei fratelli separati nella Chiesa Cattolica, ma come conversione di tutti i cristiani verso l’unica Chiesa di Cristo: niente di più distorto!
Già Giovanni XXIII nell’Humanae salutis, con cui si indiceva il  Concilio, affermava: “Noi sappiamo che molti di questi figli [ = cristiani separati] sono ansiosi di un ritorno di unità e di pace con la Sede Apostolica” e ancora nel discorso di apertura del Concilio[1] Gaudet Mater Ecclesia parlava degli “ardenti desideri, con cui i cristiani separati da questa Sede Apostolica aspirano ad essere uniti a noi”.[2]
Da dove deduceva Giovanni XXIII il fatto che i fratelli separati fossero ansiosi di un ritorno a casa? Dal fatto che l’impegno ecumenico e le stesse iniziative di preghiera, quali l’ottavario per l’unità dei cristiani fossero nati in ambito protestante e recepiti poi nel mondo ortodosso e quindi fuori dall’esperienza cattolica: in ciò il papa vedeva i segni del desiderio del rientro nell’unica Chiesa Cattolica. Giovanni XXIII, forse un po’ ingenuamente, era fiducioso che uno dei primi frutti del Concilio sarebbe stato il ritorno a casa dei fratelli separati. E per  favorirlo aveva indicato pure il metodo: mettiamo in evidenza anzitutto ciò che ci è comune, prima di notare ciò che ci divide”.
Paolo VI, con l’Enciclica Ecclesiam Suam, farà sua l’aspirazione giovannea dell’impegno ecumenico e nel suo primo discorso ai padri conciliari[3] indica come 3° scopo del concilio l’unità dei cristiani. Paolo VI riprende la lettura di Giovanni XXIII, per cui legge nell’impegno ecumenico dei fratelli separati, ma anche nella stessa attenzione con cui tante chiese e comunità ecclesiali hanno accolto e seguito il concilio anche con l’invio di propri osservatori, il desiderio dei fratelli separati di un ritorno nella comune patria.
E perciò Paolo VI rinnoverà l’appello alle pecore che sono fuori dell’ovile di voler far ritorno a casa perché si realizzi la volontà del Signore di un unico ovile sotto un unico pastore. Paolo VI a tal fine offre e chiede perdono per le cause della separazione, afferma che l’unità è conciliabile con la pluriformità, assicura i fratelli separati che la chiesa cattolica non ha volontà egemonistiche sui fratelli e, consapevole che la strada del ritorno non sarà facile, invita almeno ad incentivare la conoscenza reciproca, la stima e la preghiera, così come invita i cattolici a dare sempre più chiara testimonianza di fede e di unità nella stessa chiesa cattolica per essere di stimolo, esempio ed attrattiva per i fratelli separati.
Come si vede, in entrambi i papi la consapevolezza che l’impegno ecumenico è volto a favorire il rientro dei fratelli separati nell’unica Chiesa Cattolica non è mai venuto meno.
Il Concilio ribadendo nella Lumen Gentium che l’unica Chiesa di Cristo si realizza nella Chiesa di Roma col Papa e in quelle in comunione con lui, espresse nel Decreto Unitatis Redintegratio il desiderio e l’impegno a che le chiese e le altre comunità ecclesiali separate da Roma ritornassero a far parte dell’unico ovile di Cristo di cui è guida il vescovo di Roma. Qui è chiaro il sillogismo, anche quando si volesse parlare di ecumenismo come ritorno/conversione all’unica chiesa di Cristo: se questa Chiesa di Cristo si realizza, si concretizza (il famoso “subsistit” si deve intendere in questo modo) qui sulla terra nella Chiesa Cattolica, allora un ritorno alla Chiesa di Cristo non significa altro che ritorno alla Chiesa Cattolica e alla comunione col papa di Roma.
E così il decreto conciliare Unitatis redintegratio stesso indicherà quali sono le cose comuni con le varie confessioni e cosa invece ci separa: ma proprio in vista di tale ritorno, indicando perciò poi in cosa deve consistere un vero e serio impegno ecumenico.
In questi cinquantanni gran parte dello sforzo ecumenico è stato finalizzato dunque nell’impegno per riconoscere il patrimonio che ci accomuna, ma forse irenisticamente, non si è voluto notare anche cosa ci separa, fermandosi solo alla prima parte del metodo giovanneo. Perciò tanti  hanno poi avuto l’impressione di essere passati ad una situazione di stasi ecumenica.
In verità il vero ecumenismo, nello studio e nel riconoscimento delle cause delle separazioni, delle diversità originatesi, delle  identità peculiari createsi, e nello sforzo per superare la stessa abitudine fatta alla vita separata delle varie confessioni e far risvegliare in tutti l’anelito al ritorno alla vera Chiesa di Cristo che Giovanni XXIII presentiva, sta cominciando proprio ora, in un rinnovato impulso, magari poco eclatante ma tanto più efficace, che papa Benedetto XVI  sta dando all’impegno ecumenico, sia come testimonianza personale, sia come insegnamento magisteriale, nel non sottacere le differenze ma insieme nel rispettare e stimare le specifiche identità, richiamando tutti al comune patrimonio della Tradizione della Chiesa indivisa. E perciò, dove altri vedono solo il buio della notte, noi intravediamo i primi riflessi della luce dell’aurora. Nella consapevolezza che alla fine l’unità sarà un dono dall’alto e non il frutto di alchimie umane dal basso. E per questo bisogna pregare. E poi studiare: per sapere veramente quali sono i passi che il Concilio, cioè la Chiesa, vuole che si compiano, personalmente e a tutti i livelli ecclesiali, perché la preghiera di Cristo ut unum sint si realizzi.


[1] GME 60* EV/1
[2] HS 8* EV/1
[3] Apertura II sessione concilio 168*-182* EV/1

venerdì 21 settembre 2012

E FINALMENTE CI SI SVEGLIA: E IN ITALIA CHE SI FARA' PER QUELLI CHE CHIEDONO LO "SBATTEZZO"?

Decreto della Chiesa tedesca su quanti dichiarano all'anagrafe di non essere più cattolici

venerdì 31 agosto 2012

Giorgio Agamben, intervista rilasciata a Peppe Savà. Riprendiamo un testo che fa molto riflettere e che ci ricorda da vicino il monito di non poter servire insieme Dio e mammona

Giorgio Agamben, intervista a Peppe Savà: Amo Scicli e Guccione

 


Scicli - E’ uno dei più grandi filosofi viventi. Amico di Pasolini e di Heidegger, Giorgio Agamben è stato definito dal Times e da Le Monde una delle dieci teste pensanti più importanti al mondo. Per il secondo anno consecutivo ha trascorso un lungo periodo di vacanza a Scicli, concedendo una intervista a Peppe Savà.

Il governo Monti invoca la crisi e lo stato di necessità, e sembra essere la sola via di uscita sia dalla catastrofe finanziaria che dalle forme indecenti che il potere aveva assunto in Italia; la chiamata di Monti era la sola via di uscita o potrebbe piuttosto fornire il pretesto per imporre una seria limitazione alle libertà democratiche?
“Crisi” e “economia” non sono oggi usati come concetti, ma come parole d’ordine, che servono a imporre e a far accettare delle misure e delle restrizioni che la gente non ha alcun motivo di accettare. “Crisi” significa oggi soltanto “devi obbedire!”. Credo che sia evidente per tutti che la cosiddetta “crisi” dura ormai da decenni e non è che il modo normale in cui funziona il capitalismo nel nostro tempo. Ed è un funzionamento che non ha nulla di razionale.
Per capire quel che sta succedendo, occorre prendere alla lettera l’idea di Walter Benjamin, secondo la quale il capitalismo è, in verità, una religione e la più feroce, implacabile e irrazionale religione che sia mai esistita, perché non conosce redenzione né tregua. Essa celebra un culto ininterrotto la cui liturgia è il lavoro e il cui oggetto è il denaro. Dio non è morto, è diventato Denaro. La Banca –coi suoi grigi funzionari ed esperti- ha preso il posto della Chiesa e dei suoi preti e , governando il credito (persino il credito degli Stati, che hanno docilmente abdicato alla loro sovranità), manipola e gestisce la fede –la scarsa, incerta fiducia- che il nostro tempo ha ancora in se stesso. Del resto, che il capitalismo sia oggi una religione, nulla lo mostra meglio del titolo di un grande giornale nazionale qualche giorno fa: “salvare l’Euro a qualsiasi costo”. Già “salvare” è un concetto religioso, ma che significa quell’ “a qualsiasi costo”? Anche a prezzo di “sacrificare” delle vite umane? Solo in una prospettiva religiosa (o, meglio, pseudoreligiosa) si possono fare delle affermazioni così palesemente assurde e inumane.

La crisi economica che minaccia di travolgere buona parte degli Stati europei è riconducibile alla condizione di crisi di tutta la modernità?
La crisi che l’Europa sta attraversando non è soltanto un problema economico, come si vorrebbe far credere, è innanzi tutto una crisi del rapporto col passato. La conoscenza del passato è la sola via di accesso al presente. E’ cercando di comprendere il presente, che gli uomini -almeno noi uomini europei- ci troviamo costretti a interrogare il passato. Ho precisato “noi europei”, perché mi sembra che, ammesso che la parola “Europa” abbia un senso, esso, com’ è oggi evidente, non può essere né politico, né religioso e tanto meno economico, ma consiste forse in questo, che l’uomo europeo –a differenza, ad esempio, degli asiatici e degli americani, per i quali la storia e il passato hanno un significato completamente diverso- può accedere alla sua verità solo attraverso un confronto col passato, solo facendo i conti con la sua storia. Il passato non è, cioè, soltanto un patrimonio di beni e di tradizioni, di memorie e di saperi, ma anche e innanzitutto una componente antropologica essenziale dell’uomo europeo, che può accedere al presente solo guardando a ciò che di volta in volta egli è stato. Di qui il rapporto speciale che i paesi europei (l’Italia, anzi la Sicilia è, da questo punto di vista, esemplare) ha con le sue città, con le sue opere d’arte, col suo paesaggio: non si tratta di conservare dei beni più o meno preziosi, ma comunque esteriori e disponibili: in questione è la realtà stessa dell’Europa, la sua indisponibile sopravvivenza. Per questo distruggendo col cemento, le autostrade e l’Alta Velocità il paesaggio italiano, gli speculatori non ci privano soltanto di un bene, ma distruggono la nostra stessa identità. La stessa dicitura “beni culturali” è ingannevole, perché suggerisce che si tratti di beni fra gli altri, che possono essere sfruttati economicamente e magari venduti, come se si potesse liquidare e mettere in vendita la propria identità.
Molti anni fa, un filosofo che era anche un alto funzionario dell’Europa nascente, Alexandre Kojève, sosteneva che l’homo sapiens era giunto alla fine della sua storia e non aveva ormai davanti a sé che due possibilità: l’accesso a un’animalità poststorica (incarnato dall’american way of life) o lo snobismo (incarnato dai giapponesi, che continuavano a celebrare le loro cerimonie del tè, svuotate, però, da ogni significato storico). Tra un’America integralmente rianimalizzata e un Giappone che si mantiene umano solo a patto di rinunciare a ogni contenuto storico, l’Europa potrebbe offrire l’alternativa di una cultura che resta umana e vitale anche dopo la fine della storia, perché è capace di confrontarsi con la sua stessa storia nella sua totalità e di attingere da questo confronto una nuova vita.

La sua opera più nota, Homo Sacer, indaga il rapporto tra potere politico e nuda vita e evidenzia le difficoltà presenti nei due termini, qual è il punto di mediazione possibile tra i due poli?
Quel che le mie ricerche hanno mostrato è che il potere sovrano si fonda fin dall’inizio sulla separazione fra nuda vita (la vita biologica, che in Grecia, aveva il suoi luogo nella casa) e vita politicamente qualificata (che aveva il suo luogo nella città). La nuda vita viene esclusa dalla politica e, nello stesso tempo, inclusa e catturata attraverso la sua esclusione. In questo senso, la nuda vita è il fondamento negativo del potere. Questa separazione raggiunge la sua forma estrema nella biopolitica moderna, in cui la cura e la decisione sulla nuda vita diventano la posta in gioco della politica. Quel che è avvenuto negli stati totalitari dl novecento, è che è il potere (sia pure nella forma della scienza) a decidere in ultima analisi che cosa è una vita umana e che cosa non lo è. Contro questo, occorre pensare una politica delle forme di vita, cioè di una vita che non sia mai separabile dalla sua forma, che non sia mai nuda vita.

Il fastidio, per usare un eufemismo, col quale l'uomo comune si pone di fronte al mondo della politica è legata alla specifica condizione italiana o è in qualche modo inevitabile?
Credo che siamo oggi di fronte a un fenomeno nuovo che va al di là del disincanto e della diffidenza reciproca fra i cittadini e il potere e che riguarda l’intero pianeta. Quel che sta avvenendo è una trasformazione radicale delle categorie con cui eravamo abituati a pensare la politica. Il nuovo ordine del potere mondiale si fonda su un modello di governamentalità che si definisce democratica, ma che non ha nulla a che fare con ciò che questo termine significava ad Atene. Che questo modello sia, dal punto di vista del potere, più economico e funzionale è provato dal fatto che è stato adottato anche da quei regimi che fino a pochi anni fa erano dittature. E’ più semplice manipolare l’opinione della gente attraverso i medi e la televisione che dover imporre ogni volta le proprie decisioni con la violenza. Le forme della politica che noi conosciamo –lo stato nazionale, la sovranità, la partecipazione democratica,i partiti politici, il diritto internazionale- sono ormai giunte alla fine della loro storia. Esse rimangono in vita come forme vuote, ma la politica ha oggi la forma di una “economia”, cioè di un governo delle cose e degli uomini. Il compito che ci attende è dunque pensare integralmente da capo ciò che abbiamo finora definito coll’espressione, del resto in sé poco chiara, “vita politica”.

Lo Stato di Eccezione che lei ha connesso al concetto di sovranità oggi pare assumere il carattere di normalità, ma i cittadini rimangono smarriti dinanzi all'incertezza nella quale vivono quotidianamente, è possibile attenuare questa sensazione?
Noi viviamo da decenni in uno stato d’ eccezione che è diventato la regola, proprio come nell’economia la crisi è la condizione normale.Lo stato di eccezione- che dovrebbe essere sempre limitato nel tempo- è oggi invece il modello normale di governo e questo proprio negli stati che si dicono democratici. Pochi sanno che le norme introdotte in materia di sicurezza dopo l’11 settembre (in Italia si era cominciato già a partire dagli anni di piombo) sono peggiori di quelle che vigevano sotto il fascismo. E i crimini contro l’umanità commessi durante il nazismo sono stati resi possibili proprio dal fatto che Hitler, appena assunto il potere, aveva proclamato uno stato di eccezione che non è mai stato revocato. Ed egli non aveva certo le possibilità di controllo (dati biometrici, telecamere, cellulari, carte di credito) proprie degli stati contemporanei. Si direbbe che oggi lo Stato consideri ogni cittadino come un terrorista virtuale. Questo non può che deteriorare e rendere impossibile quella partecipazione alla politica che dovrebbe definire la democrazia. Una città le cui piazze e le cui strade sono controllate da telecamere non è più un luogo pubblico: è una prigione.


La grande autorevolezza che tanti riconoscono a studiosi che come lei indagano la natura del potere politico può farci sperare che, per dirla banalmente, il futuro sia migliore del presente?

Ottimismo e pessimismo non sono categorie utili per pensare .Come scriveva Marx in una lettera a Ruge, “la situazione disperata dell’epoca in cui vivo, mi riempie di speranza”.


Possiamo porle una domanda sulla lectio che lei ha tenuto a Scicli? qualcuno ha letto la conclusione che riguarda Piero Guccione come un omaggio ad una amicizia radicata nel tempo, altri vi hanno visto una sua indicazione su come uscire dallo scacco nel quale l'arte contemporanea sembra incatenata.
Certo si trattava di un omaggio a Piero Guccione e a Scicli, una piccola città in cui risiedono alcuni fra i più importanti pittori viventi. La situazione dell’arte oggi è forse il luogo esemplare per comprendere la crisi nel rapporto col passato di cui abbiamo parlato. Il solo luogo in cui il passato può vivere è il presente e se il presente non sente più il proprio passato come vivo, il museo e l’arte, che di quel passato è la figura eminente, diventano luoghi problematici. In una società che non sa più che cosa fare del suo passato, l’arte si trova stretta fra la Scilli del museo e la Cariddi della mercificazione. E spesso, come in quei templi dell’assurdo che sono i musei di arte contemporanea, le due cose coincidono. Duchamp è stato forse il primo a accorgersi del vicolo cieco in cui l’arte si era chiusa. Che cosa fa Duchamp quando inventa il ready-made? Egli prende un qualsiasi oggetto d’uso, per esempio un orinatoio, e, introducendolo in un museo, lo forza a presentarsi come un’opera d’arte. Naturalmente –tranne che per il breve istante che dura l’effetto dell’estraneazione e della sorpresa- in realtà nulla viene qui alla presenza: non l’opera, perché si tratta di un oggetto d’uso qualsiasi prodotto industrialmente, né l’operazione artistica, perché non vi è in alcun modo poiesis, produzione – e nemmeno l’artista, perché colui che sigla con un ironico nome falso l’orinatoio non agisce come artista, ma, semmai, come filosofo o critico o, come amava dire Duchamp, come “uno che respira”, un semplice vivente. In ogni caso è certo che egli non intendeva produrre un’opera d’arte, ma sbloccare la via dell’arte, chiusa fra il museo e la mercificazione. Come sapete, quel che invece è avvenuto è che una congrega, purtroppo tuttora attiva, di abili speculatori e di gonzi ha trasformato il ready-made in opera d’arte. E la cosiddetta arte contemporanea non fa che ripetere il gesto di Duchamp, riempiendo di non-opere e di performances dei musei, che non sono altro che organi del mercato, destinati ad accelerare la circolazione di merci, che, come il denaro, hanno ormai raggiunto lo stato della liquidità e vogliono tuttavia ancora valere come opere. Questa è la contraddizione dell’arte contemporanea: abolire l’opera e insieme pretenderne il prezzo.

 

venerdì 22 giugno 2012

IO STO CON BENEDETTO


In vista del 29 giugno, festa dei Santi Pietro e Paolo, patroni di Roma e della Chiesa Romana, un gruppo di giovani utilizzano le "nuove tecnologie" per far sentire al Santo Padre il loro supporto di fedeli schierati con il loro Papa, senza se e senza ma. Invitano tutti con questi semplici slogan: "Unisciti a noi" e "Io sto con Benedetto".
Propongono di mandare auguri al Papa in occasione della festività patronale e di pubblicare su Twitter con l'hastag: #NoiPerBXVI 


L'appuntamento è per una grande manifestazione di vicinanza a Benedetto XVI da tenersi in piazza san Pietro proprio il 29 giugno

Qui trovate il loro sito internet/manifesto con le precisazione delle attività, del "chi siamo" e dei contatti per saperne di più: www.noixbenedetto.it

E qui sotto il video promozionale delle iniziative di vicinanza-supporto al Papa. Un video bello, fresco, giovane e cattolicamente multilingue! Senza dubbio da far girare per la rete e i social network.


Testo preso da: Cantuale Antonianum http://www.cantualeantonianum.com/#ixzz1yWFnHNxl
http://www.cantualeantonianum.com

mercoledì 30 maggio 2012

BENEDETTO XVI E LA FEDE

Da fine teologo qual è Benedetto XVI ci ha parlato sempre della fede come di un'esperienza viva, di quel rapporto personale con il Cristo che supporta dal di dentro ogni nostro pensiero, azione, sentimento, emozione, scelta... E che non siano parole lo ha dimostrato nei sofferti anni del suo pontificato. Ma lo sta dimostrando ancor più in questi giorni, in cui è stato toccato nel vivo della sua umanità e del suo ministero. Se ce ne fosse stato di bisogno, lo ha dimostrato nell'udienza di stamani, col coraggio della parresia, della franchezza, di esporre se stesso in pubblico con umiltà e aprire il suo cuore ai fedeli, e non solo a quelli presenti, senza niente negare, ma affidandosi unicamente a quella verità, la sola capace di farci liberi, perchè è la stessa persona di Cristo. Come Pietro, è Roccia, e sa che nè vento nè marosi potranno far vacillare la Chiesa costruitavi sopra. Pietro non vacilla perchè è sostenuto dalla preghiera della Chiesa, ma soprattutto dalla stessa preghiera di Cristo. Benedetto XVI sembra sempre più piccolo, sembra quasi ritirarsi per far spazio all'altro, a Colui che deve crescere, e davanti al quale ogni altro deve diminuire. E per questo la statura cristiana di Benedetto ci appare sempre più grande. Benedetto "Magno". Oportet ut scandala eveniant: non ci scoraggiamo per questo. Quanto sta accadendo in questi giorni può essere l'inizio di una grande opera di purificazione e rinnovamento nella Chiesa. Per questo offriamo la nostra piena disponibilità ai disegni dello Spirito. Papa Benedetto non sei solo. Papa Benedetto, con te noi siamo Chiesa, vogliamo essere Chiesa. Le porte degli inferi non prevarranno. Come non notare che il giorno della scoperta del tradimento era anche il giorno di Maria Ausiliatrice? Allora liberò Pio VI. Oggi viene in aiuto di Benedetto. Maria accorre. Maria soccorre. Maria salva.

lunedì 14 maggio 2012

ECCO DA COSA CI HA SALVATO LA CHIESA Una riflessione col sorriso sulle labbra

Confesso che a volte rimango perplesso, davanti a tante affermazioni campate in aria, frutto quanto meno di ignoranza se non proprio di un pregiudizio non proprio benevolo nei riguardi della Chiesa e di quanto questa avrebbe fatto nel corso secoli per nascondere – così si dice – la pura verità del vangelo – ai propri adepti, preferendo mostrare una versione annacquata del messaggio di Gesù e usata strumentalmente per fondare e consolidare il potere di papi e cardinali! Già! Un tempo si cercava di negare l’esistenza stessa di Cristo, ora che questa non è più negabile, si cerca di separare il Cristo dalla Chiesa, riducendolo all’ebreo “marginale” Gesù di Nazaret, che nulla ha avuto a che fare con la successiva Chiesa che a lui si ispira. Un modo per condurre a termine questa operazione è insinuare che la Chiesa abbia mantenuto i soli quattro vangeli canonici (Matteo, Marco, Luca, Giovanni) perché funzionali ai suoi interessi, negando valore a tutti gli altri vangeli perché avrebbero presentato un Cristo contrario alle manovre politiche della Chiesa. E così adesso si assiste ad un ritorno di interesse verso i vangeli apocrifi, considerati come la quintessenza del messaggio evangelico, che la chiesa terrebbe nascosti o avrebbe distrutto per non rivelare i veri insegnamenti di Gesù. A parte il fatto che tanti vangeli apocrifici sono scritti gnostici che di vangelo hanno solo il titolo che funziona da “captatio” per il lettore e sono stati scritti tra il IV e il VII secolo dopo Cristo, e pertanto mi si dovrebbe spiegare come la Chiesa ha fatto ad escluderli dal canone dei quattro vangeli ufficiali che si formò già intorno al I –II secolo quando ancora gli altri dovevano essere scritti! Ma anche se fossero stati contemporanei la Chiesa ha operato una cernita in base alla congruenza con i dogmi cristologici e teologici riconosciuti fin dall’inizio, e anche in base ad un criterio di ordine storico per cui sono stati rigettati i vangeli che contenevano racconti di evidente sapore leggendario e favolistico. Proprio per questo la maggioranza di questi vangeli apocrifi di derivazione gnostica sono stati rigettati: perché la gnosi è un movimento filosofico che ad esempio ritiene come buono solo lo spirito e rigetta quanto è materiale e carnale. Alla gnosi interessa l’anima e non il corpo: ma la Chiesa non poteva accettare un vangelo del genere perché significava contraddire la bontà della creazione e di ogni creatura e la stessa positività del corpo e della sessualità così come insegna nella Bibbia il libro della Genesi. Non è questo il luogo di fare una disamina del rapporto tra vangeli canonici ed apocrifici, ma voglio dare un piccolo esempio, anche per sorridere un po’, del pensiero gnostico e di cosa ci sarebbe potuto succedere se la Chiesa avesse considerato canonico il cosiddetto “Evangelo della pace di Nostro Signore Gesù Cristo” attribuito anch’esso all’apostolo Giovanni (ed. Szelely – Mauro, ed. Cacciari, Bologna 1972/1981). Il vangelo in questione sembra quasi uno scritto ispirato alla moderna New Age, o a quella sorta di francescanesimo che canta ad ogni piè sospinto il “dolce sentire” di Baglioni, per i suoi richiami alla Madre terra e alla legge della Vita che dentro ognuno di noi. Per arrivare alla pace evangelica i seguaci di Gesù devono seguire gli insegnamenti dell’angelo dell’aria e dell’angelo dell’acqua e dell’angelo della luce. Bene o male sono le solite tiritere sullo spirito e la luce interiore, l’illuminazione da raggiungere con digiuni e mortificazioni, e di per sé non c’è nulla di originale. Tranne una cosa. Sentite la descrizione del metodo per raggiungere la purificazione interiore: "Io ve lo dico in verità, altresì patite che l’angelo dell’acqua vi battezzi ugualmente all’interno, affinchè voi siate liberati da tutti i vostri peccati trascorsi. … Per far questo, procuratevi una zucca grossa e lunga, avente un gambo rampicante della altezza di un uomo. Svuotate la zucca del suo contenuto e riempitelacon l’acqua del fiume che il sole abbia riscaldata. Sospendete la zucca al ramo di un albero, inginocchiatevi sul suolo davanti all’angelo dell’acqua e patite che l’estremità del gambo della zucca penetri nel vostro sedere, affinchè l’acqua possa scorrere attraverso tutti i vostri visceri. Poi restate inginocchiati sul suolo davanti all’angelo dell’acqua e pregate il Dio della vita che Egli vi perdoni tutti i vostri peccati trascorsi e domandate all’angelo dell’acqua di liberarvi i corpi da tutte le sozzure e da tutte le sue malattie. Quindi lasciate che l’acqua scorra dal vostro corpo di guisa che, con essa, sia eliminato dal vostro interno tutto ciò che proviene da Satana, tutto ciò che è impuro e maleodorante. E voi vedrete con i vostri occhi e sentirete col vostro naso tutte le abominazioni e le impurità che insozzavano il tempio del vostro corpo… Ogni giorno del vostro digiuno rinnovate questo battesimo d’acqua e persistete…". Ecco, la Chiesa magari avrà nascosto questo vangelo per altri scopi: ma come non ringraziarla per averci salvato, mi si permetta la battuta, dal nostro clistere quotidiano? (da DIBATTITO, maggio 2012)

IO ACCUSO…

Tra epidemia e calura estiva è passato sotto silenzio un importante responso della Congregazione della Dottrina della fede e approvato in pr...