giovedì 31 gennaio 2013

NELL'ANNO DELLA FEDE NEI LUOGHI DELLA FEDE


PARROCCHIA SAN GIUSEPPE - SCICLI

PELLEGRINAGGIO IN TERRASANTA


Dal 22 al 29 agosto 2013  

Quota di partecipazione
€ 1.315,00*
8 giorni in formula tutto compreso:

·        Trasferimento bus da e per l’ aeroporto;
·        Trasporto aereo con voli ITC Sicilia/Tel Aviv e viceversa;
·        Sistemazione in hotel 4 stelle in camere doppie con servizi privati;
·        Trattamento di pensione completa come da programma;
·        Assistenza in loco;
·        Assicurazione medica no-stop e bagaglio;


Supplemento camera singola:  € 350,00

E’ necessario essere in possesso del passaporto individuale.

RIVOLGERSI A PADRE IGNAZIO LA CHINA 3493539515

Anticipo all’atto di iscrizione € 100,00

* più € 35 per ingressi nei siti archeologici da pagare in loco

giovedì 24 gennaio 2013

Del Natale e di altro ancora...


Scrivo ancora sotto l’effetto-choc del Natale, lo so, direte, si ripete ogni anno, ma io non riesco ad abituarmi alla invasione dei babbi natale e alla scomparsa delle cartoline con la natività: proprio per quello che di per sé il Natale dovrebbe significare e che più non significa (ma ci pensate: come si può  pensare alla nascita di un Bambino celebrando un vecchio, che sa dispensare solo regali a comando? Sono i miracoli della civiltà dei consumi a cui cristianamente noi diamo una mano! Ma la fede è un fatto personale e su questo non voglio fare prediche a nessuno.
Ci sono però dei risvolti che credo ci  tocchino al di là del fatto personale per diventare quasi fatti di costume: mi domando però se i costumi sia lecito solo subirli (un po’ come subiamo la moda che ci fa vestire una volta così e una volta cosà ) o se non ci sia data invece la possibilità di sceglierli, di indossarli oppure rifiutarli o, meglio ancora modificarli.
Non capisco ad esempio la pratica generalizzata degli auguri di natale: possiamo scambiarci auguri tra chi non crede che il Dio si sia fatto uomo o che comunque questo gli risulta indifferente? Ma in questo caso cosa dobbiamo augurarci? Chi mi incontra in occasione del Natale sa con quanta ritrosia mi assoggetti a questi riti augurali, con benevoli assalti di baci e abbracci: non per paura di contagi, ma per paura di porre gesti  ipocriti. E così a Natale finisco per augurare solo buon anno! Questo sì, lo faccio volentieri, perché ce sempre da sperare che le cose (e gli uomini che si nascondono dietro le cose) migliorino.
Vivo perciò con insofferenza questi giorni di buonismo, arrabbiandomi per i marciapiedi occupati da vasi ed alberi che ti obbligano fare pericolose gimkane (ma i marciapiedi non erano una volta solo per i pedoni?), o rassegnandomi a vivere in un paese di zombie perché le persone che incontri mostrano le occhiaie e tutti gli altri visibili segni  delle lunghe veglie passate a non attendere più nessuno e niente che non sia una vincita al gioco (ma è tutta qui la speranza?). O al vedere come anche questa sia una buona occasione per fare un po’ di folklore quali certi “presepi viventi” che di presepe hanno solo la grotta della natività appiccicata a scene da museo etnografico delle tradizioni popolari. Rimpiango i grandi dipinti della natività o i presepi dei secoli passati dove l’incarnazione era veramente un inserimento nella storia di un popolo (i dipinti del trecento ci mostrano la civiltà del trecento, quelli del seicento la civiltà del seicento e lo stesso si dica dei presepi: noi nel duemila rappresentiamo l’incarnazione nell’ottocento, non riuscendo a fare né un discorso solo storico, perché dovremmo ricostruire solo l’ambiente giudaico dell’epoca, ma avrebbe  senso?, né un discorso culturale perché quella cultura che noi rappresentiamo, con buona pace di tutti (anche di quelli a cui ancora piace la mangiata della ricotta calda nell’ambiente bucolico) non c’è più. Pensavo proprio questo salendo per le stradine della cavuzza di san Guglielmo, dove le abitazioni e le grotte artificiali si mescolavano a quelle vere, a quelle in cui ancora oggi la gente vive in dignitosa povertà, vedendo come persone per sbaglio entravano in queste piuttosto che in quelle, o vedendo la gioia di un vecchietto nel vedere che tutti si fermavano a guardare il presepe dalla porta spalancata: forse proprio queste case sono state oggi le vere grotte del presepe, lì certamente bisognava cercare come i pastori o i magi il Dio che si è fatto uomo, accanto ad una mamma che ancora allatta, ad una vecchia che più non fila e che forse tesse ormai solo la trama dei ricordi, a quelle persone umili e semplici che sanno che non per due giorni l’anno ma per sempre Dio rende protagonisti della sua storia.
 Ora le feste sono finite (l’Epifania se le porta via si dice) e siamo stati richiamati alla dura realtà della vita quotidiana: e ogni volta il “rientro” non è indolore. Mi domando se questo sia giusto, se proprio non avesse ragione Pascal quando afferma che il problema di tante crisi di identità è proprio del divertessement, del divertimento, del tentativo che continuamente fa l’uomo di divergere, cioè di allontanarsi dal suo centro, dal suo io spesso non accettato, per trasferirsi in qualche paese delle meraviglie o dei balocchi: ma sono paesi dove non si può vivere per sempre. C’è sempre il biglietto di ritorno compreso nel prezzo, a meno che il divertimento non diventi alienazione e qui complichiamo le cose… Ma il divertimento non educa alla responsabilità, anzi: chi è stato a Disneyland ne sa qualcosa del tipo di mondo che viene proposto. Mi domando se la colpa sia di chi cerca il divertissement o di chi glielo offre. La Chiesa in  questo senso forse qualche   peccato deve confessarlo, ma certo non è la sola: tanti altri pensano che al popolo basti offrire alcuni ludi circenses ogni  tanto… ma qui i discorsi vanno sul difficile. Forse è meglio smettere qua e dirci arrivederci alla prossima volta.

mercoledì 23 gennaio 2013

GLI EDUCATORI, I GIOVANI, IL FUTURO


Viviamo in tempi in cui abbiamo assistito - per dirla schematicamente - alla fine degli assolutismi, alla perdita dei valori, al crollo degli ideali, alla  crisi delle istituzioni, al dilagare di una illegalità diffusa a tutti i livelli, al lento ma a prima vista inarrestabile traballare di famiglia, Stato, scuola....e aggiungerei anche Chiesa...
Conseguentemente abbiamo davanti a noi ad esempio giovani sempre più insicuri (vedi l’innalzamento e l’allargamento del periodo adolescenziale), personalità fragili (vedi l’incapacità di fare scelte, specie se durature, e i sacrifici conseguenti alle scelte, o di portarle avanti nel tempo: emblematico è il fallimento di tanti matrimoni di coppie giovani, ),  giovani vittime di manipolazioni ( vedi l’influenza sempre più alta dei mass media),  giovani contesi o dissociati tra le diverse agenzie educative o pseudoeducative ( vedi i giovani che fanno musica, sport, scautismo etc o che appartengono insieme  a gruppi di matrice diversa... incapaci di stabilire una gerarchia di valori o che rispondono ai valori/pseudovalori come Zelig, il personaggio di Woody Allen, che mutava carattere e comportamento a seconda delle situazioni).
Il compromesso così sembra essere diventato la regola, l’incoerenza tra valori e scelte concrete sembra quasi connaturata ad uno stile di vita sempre più illuministicamente dissociato tra il dire e il fare (se è detto è fatto?!).
Risultato di tutto ciò è la frammentazione dell’identità: spesso si vive quasi a compartimenti stagni, incapaci di operare una vera “reductio ad unum”, cioè incapaci di ricondurre la diversità delle esperienze ad un unico punto attorno al quale fare ruotare e dal quale ricevere senso, per leggere se stessi come il soggetto unico della propria storia. Abbiamo bisogno di quel “centro di gravità permanente, che non mi faccia mai cambiare idea sulle cose, sulla gente...” che cercava, cantando, Battiato.
Emblematica, a proposito, è la confusione dei ruoli.
Vedi il rapporto uomo-donna o la crisi  dell’identità personale che sta generando una sorta di “imposizione” culturale della “tipologia” gay a tutti i livelli con il preteso riferimento alla diversità sessuale naturale per una sorta di scelta culturale del proprio “gender” di appartenenza lesbo-gay-bisex-trans ecc. e con la richiesta del matrimonio tra omossessuali intesa come il riconoscimento di un preteso diritto assoluto.
Oppure si veda il relativismo etico (se ogni persona ha la propria verità, allora fa quello che vuole: è il trionfo del “secondo me è così e quindi è così”, del “mi piace, quindi è così”, del “così è bello” o a tutte le riedizioni del “il corpo è mio e me lo gestisco io”) che sfocia, per alcuni aspetti, nella pluriappartenenza (vedi il caso di chi si dice cristiano ed insieme “buddista” ad esempio, o il fenomeno del New Age e di tutti gli altri gruppuscoli sincretistici autodidatti per una religione faidate).
Si veda, per tanti altri aspetti, la privatizzazione dei comportamenti, con il rifugio nel privato e il rifiuto della dimensione pubblica, specie della “demonizzazione” della politica.

Come definire allora un giovane che vive in questa rete, spesso groviglio, di problemi che si riversano nella sua esistenza e che la connotano e la condizionano spesso in modo tragico e irreversibile, specie in situazioni socioculturali quali quelle della Sicilia dominate da piaghe quali la disoccupazione, sacche di povertà ancora estese, micro e maxi delinquenza, criminalità organizzata, mafia, inquinamento sociopolitico ed ecclesiale, diffidenza verso le istituzioni, mancanza di senso civico, religiosità popolare  e costumi ancora fortemente tradizionalistici?
Io lo definirei un “giovane a rischio”, dove però la categoria “a rischio” prima che essere sociologica è esistenziale: quello infatti che si mette a rischio non è qualche aspetto della vita, materiale o no che sia, è anzitutto la vita stessa, nella sua qualità, nella chiamata alla realizzazione piena di sé che ogni vita porta inscritta nella propria esistenza.

Eppure, pur parlando di situazioni a rischio, non vorrei mancare al mio dovere di vecchio scout di saper vedere anche il 5% di buono presente in quest’oggi e in questo mondo (come ammoniva Baden Powell). Sarebbe infatti ingiusto tacere di quelle tante realtà che viaggiano nella direzione opposta a quella precedentemente vista: sono ad esempio l’impegno per la pace di tanti, la cooperazione e lo sviluppo tra i popoli, l’impegno per la salvaguardia del creato, per una società più giusta e solidale e più a misura d’uomo (vedi   le varie forme di volontariato) e poi la rinascita di una coscienza politica seppur ancora incipiente, il fermento antimafia spesso nella declinazione antiracket, e, al livello ecclesiale, il risveglio e l’impegno per una vera esperienza di fede in una Chiesa-Popolo di Dio e Corpo di Cristo che vive nella testimonianza -a volte letteralmente vero e proprio martirio, si pensi al nostro Don Puglisi - il proprio servizio dell’annuncio del vangelo del Regno al mondo.

Come ingiusto sarebbe inoltre non riconoscere nel volto della Sicilia, per rimanere nell’ambiente che ci interessa più da vicino, assieme alle tante rughe che lo deturpano, anche i tratti della intelligenza, della forza e della tenacia con i quali spesso la rassegnazione si trasforma in laboriosità; i tratti della  generosità che si coniuga in termini di solidarietà, ospitalità, accoglienza, tolleranza, integrazione razziale (è questa la lezione della storia!), i tratti dell’ironia che pirandellianamente sa elevare un innato pessimismo ad un  sano realismo ...sono tratti questi che rappresentano una risorsa, una riserva, assieme a quelle realtà di bene cui prima accennavamo più in generale, da cui trarre ricche suggestioni per il futuro.

Che fare dunque? Quale priorità, specie per chi responsabilità educative, avere per aiutare le nuove generazioni ad appropriarsi del proprio futuro? Quali scelte per un genitore, per un insegnante, ma anche per un parroco, un catechista nella loro responsabilità di accompagnare i giovani ad aprirsi al futuro prendendo la vita nelle loro mani?
Una ed una sola: il coraggio.

1) L’educatore è uno che ha anzitutto il coraggio  dell’intelligenza: cioè il coraggio di andare dentro le cose (intus-legere), di superare le apparenze, di andare al nocciolo, alla sostanza delle cose (sub-stantia: ciò che sta sotto), ricordando l’ammonimento della volpe al Piccolo Principe: “l’essenziale è invisibile agli occhi”.
Questo significa, per un educatore, la capacità di superare ogni superficialità, in noi stessi e negli altri, il rifiuto di farci ingannare dagli specchietti per le allodole...per andare alla interiorità: è il rifiuto del “look”, dell’apparenza per ritornare all’essere. Solo così si potrà aiutare gli altri a cogliere la loro interiorità.
2) E chi ha il coraggio dell’intelligenza ha anche il  coraggio del discernimento. Proprio nell’epoca della contraddizione, della confusione e del relativismo il dovere del discernimento si impone più che mai come il coraggio di scegliere e di saper scegliere, distinguendo tra bene e male: “tutto esaminate, ritenete ciò che è buono” ammonisce San Paolo.
Mi sembra che una delle urgenze più grandi per gli educatori sia quella di aiutare a superare l’indifferentismo e di educare alle scelte, alle scelte responsabili. Questo significa, per un educatore, la capacità di un’atteggiamento critico nei confronti di se stesso anzitutto e poi degli altri e della realtà che ci circonda, non per seminare dubbi o zizzania per partito preso, ma per sottoporre ogni cosa al vaglio critico della Parola di Dio, che mettendo in luce le ombre del peccato e le tentazioni al compromesso ci spinge a continua conversione.
3) Ma intelligenza e discernimento si pagano con un altro coraggio: quello di ricercare sempre, senza posa, la verità. Solo infatti chi ha l’umiltà di riconoscere di non essere depositario di verità precostituite, avrà il coraggio di superare ogni dogmatismo, di uscire dalle proprie sicurezze, spesso false, per impegnarsi in un pellegrinaggio alla ricerca della verità, che diventa, per chi ha il coraggio di compierlo fino in fondo, un cammino di liberazione, se vero, come è vero, che la verità ci farà liberi (Gv).
Questo significa, per un educatore che aspira a diventare formatore di personalità autentiche, la capacità anzitutto di mettersi a nudo, di gettare la maschera, di sciogliere i tanti legami dell’ipocrisia per ripartire da una vita sentita e vissuta nella  sincerità del cuore.
4) E dato poi che per noi che ci diciamo cristiani la verità non è un ideale astratto, o peggio un “flatus vocis”, ma una persona ben concreta, Gesù di Nazareth che noi confessiamo come il Cristo di Dio, allora potremo dire che l’educatore cristiano è uno che, oggi più che mai, ha il coraggio  di mettersi con più decisione alla sequela di Cristo, nell’esperienza della fede, nella docilità allo Spirito, nell’obbedienza della Parola, nella appartenenza ecclesiale, nella libertà della coscienza.
Chi deve essere l’educatore cristiano infatti se non colui che nella coerenza della propria vita testimonia una sempre rinnovata fedeltà a Cristo che lo ha liberato? “liberi e fedeli in Cristo” dice P.Haring a proposito della vita dei cristiani: libero e fedele in Cristo deve essere un educatore, per essere a sua volta nella Chiesa e nel mondo segno e strumento di liberazione. Poiché infatti oggi l’educazione non può non coniugarsi in termini di liberazione, di superamento cioè delle contraddizioni tra fede-vita, ideale-reale, interiore-esteriore, pubblico-privato, personale-comunitario, materiale-spirituale... superamento in vista della realizzazione dell’uomo integrale...
5)  Questo significa per un educatore, genitore o catechista, avere il coraggio di una revisione critica del nostro modo di essere e delle nostre scelte: prima di guardare ai ragazzi dobbiamo guardare a noi stessi, con onestà! Ci dice infatti il Vangelo che “se un cieco guida un altro cieco, entrambi finiscono in una fossa”: allora molto onestamente dobbiamo dire oggi che i frutti della nostra educazione dipendono dalla qualità di noi adulti. Dobbiamo allora puntare sulla qualità, come primo impegno: sulla qualità dell’essere che si traduce in termini di una spiritualità cristiana  sempre più sperimentata, vissuta, incarnata... e che sfocia nella qualità del servizio che si traduce in termini di una competenza sempre maggiore (sono finiti i tempi del pressapochismo e delle buone intenzioni: anche a fare i genitori si deve imparare!!!).
Noi purtroppo siamo figli e vittime di quello che in filosofia oggi viene detto il “pensiero debole”: cosa viene insegnato oggi? Che non esistono valori-certezze e che è inutile cercarle e che se anche esistessero la nostra  mente non riuscirebbe a coglierli in pieno dati  i suoi limiti, e che se anche riuscisse a capire qualcosa non saprebbe né comunicarla né viverla: e allora? Allora – ci dicono - accontentiamoci di vivere alla giornata, di non pensare a mete irraggiungibili: gli ideali? E chi li ha mai visti o toccati? Meglio altre mete che, guarda caso, devono essere tangibili: beni, denaro, potere... si potrebbe continuare, ma credo che ci siamo capiti: oggi assistiamo al trionfo della mediocrità, al ripiego dell’uomo su se stesso, al rifiuto della sua chiamata a d essere Altro, e alla conseguente tragedia della perdita dell’identità stessa dell’uomo. Eppure il Poeta (!) ci aveva ammoniti: “fatti non foste per viver come bruti ma per seguir virtute e canoscenza...”: A parte la citazione dotta, dobbiamo osare pensare in grande, dobbiamo liberare i sogni e ritornare a giocare con le stelle come direbbe la fata a Peter Pan. Non per alienarci, non ma perché i sogni, gli ideali, di cui noi parliamo, non sono quelli delle favole né quelli illusori di Amici di X Factor o di chi ti promette il successo a buon mercato. E’ il raggiungimento della aspirazione di ogni uomo, scritta nel cuore di ogni uomo: Dio. La gioia di sentirsene figli. La dolcezza di sapersi amati. Questa è la meta. L’unica meta per cui vale sacrificare la vita.
Confessiamolo: quante volte anche noi adulti non abbiamo avuto il coraggio di guardare così in alto? E abbiamo ripiegato su altre mete più “accessibili”.
Ecco si tratta di recuperare questo coraggio.
Di saper scegliere per noi Dio, di saper indicare agli altri Dio. E niente altro. 

martedì 22 gennaio 2013

MA QUAL E' LA VERA POSTA IN GIOCO? Il Papa, la lettera di Mons. Di Noia e la FSSPX

Quando uscì il Motu proprio del Papa Benedetto con la "liberalizzazione" della liturgia prodotta dalla riforma tridentina, il mio vescovo mi interpellò chiedendomi che ne pensassi, nella mia veste di canonista.
Risposi che era la mossa più brillante e astuta che il papa potesse fare e che qui le attribuite simpatie del papa per il tradizionalismo non ci entravano.
Chi mi ascoltava rimase interdetto perché sembrava solo una mia difesa d'ufficio del Papa.
Ma spiegai.
Il papa è stato quello che ha condotto le trattative con Mons. Lefebvre e quindi conosce bene le posizioni della Fraternità di san Pio X.
Orbene, una delle richieste era di poter celebrare col rito di Pio V come segno di non voler affossare la Tradizione.
Ma il Papa si è spinto oltre: ha concesso di celebrare tutti i sacramenti e sacramentali nel rito tridentino e ha dato l'opportunità a chi lo volesse, preti e laici, di partecipare o di celebrare secondo i precedenti rituali senza bisogno di altre autorizzazioni.
Non è una resa: è una vittoria!
Perché così facendo il Papa ha spuntato le armi dei contestatori togliendo loro un motivo pretestuoso: perché ormai chi vuole può celebrare secondo il rito antico e rimanere nella chiesa cattolica!
Non c'è bisogno di altre fughe o di altri scismi, anzi: se quella era la motivazione vera,data la concessione, la FSSPX doveva rientrare subito e in massa nella Chiesa Cattolica.
Così non è stato. Perché? Perché la liturgia in fondo è una scusa, le motivazioni sono altre e non certo spirituali e liturgiche. C'è in gioco una certa visione di Chiesa e di rapporto col Magistero, come finalmente è venuto a galla dopo il Motu Proprio, grazie proprio a Papa Benedetto.
Che da Papa, come ogni Papa, si preoccupa dell'unità della Chiesa e quindi deve compiere ogni sforzo per non lasciare persa fuori dall'ovile ogni pecorella, sia di destra come di sinistra.
Ma la tensione alla riconciliazione non può non tener conto delle esigenze della verità cattolica.
Per questo il Papa si mostra altrettanto fermo nel difendere il Magistero e la Tradizione, nella sua continuità (comunque poi la si voglia interpretare) fino al Concilio Vaticano II e nel pretenderne il pieno riconoscimento.
Per un cattolico non ci sono altre vie possibili. Perché porsi fuori dalla comunione ecclesiale e criticare la Chiesa è troppo comodo ma ingiusto e scorretto: le critiche alla propria famiglia si fanno finchè si rimane in famiglia!
Se te ne vai sbattendo la porta e ti arroghi il diritto di giudicare la Catholica e il Papa che differenza c'è fra te e Martin Lutero?
Le esigenze della communio sono altre. Da entrambe le parti: in verità e in carità.
E' quanto ha spiegato la lettera di Mons. Di Noia alla FSSPX.
Con abbondanti motivazioni teologiche, spirituali e canoniche.
Che dire di più?
Che dopo le scuse liturgiche sono cadute pure le scuse dottrinali: adesso c'è in gioco solo l'orgoglio.
Ma  la Chiesa non ha bisogno di orgogliosi.
Ha bisogno di fedeli veri che sappiano soffrire per la sua vita e la sua continua riforma.
Fuori dalla Chiesa la FSSPX diventerà sempre più uno sparuto gruppo di fedeli sempre più diviso in se stesso e sempre più arroccato su posizioni estremistiche.
Dentro la Chiesa potrebbero riprendere il loro ruolo propositivo ed essere la testa di ponte di un vero rinnovamento ecclesiale.
Lo ha ricordato loro Mons. Di Noia.
Significativamente la lettera è stata inviata loro in Avvento con l'augurio che il Natale portasse il dono di un esame di coscienza e di una scelta, l'unica veramente possibile: quella del rientro.
Noi preghiamo perché Mons. Fellay e la FSSPX sappiano cogliere il chairòs che si presenta loro.
Potrebbe non essercene un altro.


domenica 13 gennaio 2013

Maria, lo Spirito Santo, il battesimo e noi: per non dimenticare di essere tempio di Dio

Maria è la piena di grazia, ancor meglio: la riempita di grazia.
Cioè riempita della presenza del Signore, come la saluta l'angelo: Rallegrati o riempita di grazia, il Signore è con te!
E' la grazia del Signore che infiamma il suo cuore e la rende pronta e disponibile a fare la volontà di Dio: eccomi sono la serva del Signore, si faccia in me secondo la tua parola!
E il Signore prenderà dimora in lei, nel suo intimo, con la forza della Spirito Santo.
Maria, accettando di far parte del piano divino, diventerà così la Madre del Verbo incarnato per mezzo dell'opera dello Spirito Santo: lo Spirito Santo scenderà su di te, su te stenderà la sua ombra la Potenza dell'Altissimo.
Perciò si può dire veramente che Maria è dimora, tempio, dello Spirito Santo.
E' quanto esprimiamo invocando Maria come Domus aurea, vas spirituale.
E guardando a Maria la Chiesa, ogni cristiano, contempla ciò che ognuno è chiamato ad essere e spera di diventare.
Così infatti ci fa pregare la liturgia della Chiesa nella colletta della memoria del Cuore Immacolato di Maria: O Signore che hai preparato nel cuore di Maria una degna dimora dello Spirito Santo, fà che i tuoi fedeli siano sempre tempio della tua gloria.
Il cuor edi Maria, come dimora dello Spirito Santo richiama dunque il mistero della inabitazione divina in noi.
Non si deve dimenticare in fatti che, a partire dal battesimo, anche noi siamo diventati tempio di Dio, dimora dello Spirito Santo.
San Paolo lo ricorda spesso nelle sue lettere, quando richiama i battezzati a non dimenticare di essere tempio di Dio, dello Spirito di Dio, a non mortificare lo Spirito di Dio che abita in noi.
Forse spesso dimentichiamo il grande miracolo che il battesimo opera in noi: il dono della figliolanza adottiva divina; forse non abbiamo compreso  fino in fondo le conseguenze della adozione filiale: se siamo figli adottivi di Dio, allora lo Spirito del Figlio abita in noi, siamo tempio dello Spirito: tutto il nostro essere è tempio dello Spirito: l'anima è tempio dello Spirito, il corpo è tempio dello Spirito.
E perciò anche noi siamo chiamati a vivere una vita come figli di Dio, santi e immacolati nella carità.
Questo significa vivere anzitutto una vita di grazia come Maria.
Ma come vivere oggi questa vita di grazia?
La grazia, ci ricorda il catechismo è la vita di Dio in noi.
Questa ci è donata nel battesimo.
Ma come rimanere in questa vita divina?
Solo la vita sacramentale ci garantisce il permanere nella grazia.
Ci è necessaria l'Eucaristia.
Ci è necessaria la Penitenza.
La vita sacramentale infatti fa sì che non solo si rimanga tempio dello Spirito Santo, ma che si rimanga tempio, dimora pulita, pura, santa, immacolata.
Certo, a partire dal battesimo si diventa e si rimane per sempre tempio di Dio, ma questo tempio può essere sporcato, insozzato dal peccato.
Non dobbiamo dimenticare che per noi la vita è una continua lotta col peccato.
Se siamo tempio di Dio, anima e corpo, non possiamo non impegnarci a vivere una vita nella dimensione della purezza, della pulizia interiore, del cuore pulito, di una vita vissuta pura insieme nel corpo e nell'anima, nei pensieri e nelle azioni. 
Oggi paradossalmente si vive in due dimensioni opposte ma ugualmente peccaminose: da un lato si dice di valorizzare l'anima, i sentimenti, il cuore e quindi si afferma che l'importante è avere buone intenzioni, che contano gli affetti... ma così facendo spesso il corpo diventa solo oggetto con cui giocare: si veda la banalizzazione della sessualità con la pornografia, la separazione del rapporto sponsale dalla dimensione procreativa con l'uso di anticoncezionali, la stessa deformazione del corpo con tatuaggi, piercing e simili, dimenticando l'ammonimento di san Paolo: Non sapete che il corpo è tempio del Signore?
Ma c'è anche l'opposto: c'è oggi una cura idolatrica del corpo (diete, massaggi, cure, trucchi...) che fa dimenticare il vero culto dovuto al creatore e l'altrettanta cura dovuta all'anima: quali cure e "diete" spirituali riserviamo oggi all'anima? Un tempo c'erano i digiuni, le penitenze, le preghiere...
Dimenticare di essere tempio santo di Dio spesso significa dimenticare che siamo chiamati ad essere coerenti tra quanto si afferma di credere, tra quanto si pensa e tra quanto si vive.
Un cristiano non può pregare in chiesa in un modo, esprimersi in un altro modo fuori di chiesa e vivere in un altro modo ancora.
Un cristiano non può pensare che la fede e la vita agiscano secondo principii diversi e spesso opposti e contraddittori: basti pensare a qualche esempio.
Oggi è facile lamentarsi dei politici, ma un commerciante, un professionista, un impiegato, un lavoratore, un medico, un insegnante, che non fa il suo dovere, che imbroglia, che pensa solo ai suoi interessi, che vìola la dignità della persona... se è battezzato, può dirsi ancora cristiano?
Maria ci ricorda che non si può seguire e amare il Signore se non con cuore indiviso: non si possono servire due padroni, o si amerà l'uno e si odierà l'altro.
Maria ci ricorda che le mani pulite di cui si è parlato tanto devono essere il frutto di un cuore pulito: chi salirà il monte del Signore? chi ha mani innocenti e cuore puro!
Dobbiamo chiedere allora anche noi oggi che lo Spirito  Santo che nel cuore di Maria iniziò la nuova creazione, soffi nei nostri cuori di pietra e li trasformi in cuori di carne: quel soffio che ci è dato nell'esperienza sacramentale e ci dona la grazia che rinnova l'universo.
Solo un'autentica vita sacramentale è dunque garanzia di una vera vita spirituale.
Oggi si parla tanto di spiritualità, di vita dello spirito, dimenticando che per un cristiano l'unica spiritualità, l'unica vita dello spirito è la vita nello Spirito Santo, come si esprime San Paolo: o la vita di un fedele cristiano è vita nello Spirito o non è vita cristiana, giacchè siamo tempio dello Spirito.
E' lo Spirito che suscita in noi il volere e l'operare, così che si può dire che le stesse opere non sono altro che il frutto dello Spirito Santo che abita in noi.
Chiediamo la gioia di poter cogliere sempre in noi di questi frutti dello Spirito.

sabato 5 gennaio 2013

Maria e la sapienza del cuore


Maria è la donna che apprende nel suo cuore la sapienza di Dio.
Dio rivela anzitutto la sua sapienza nella creazione e saggio è chi sa leggere le sue vestigia e la sua unicità nelle opere del creato: “Sappi dunque e conserva bene nel tuo cuore che il Signore è Dio lassù nei cieli e quaggiù sulla terra e non ve ne è un altro” (Dt).
La stessa sapienza di Dio è alla base della sua legge e dei suoi precetti: è beato e saggio chi pone le sue parole  nel suo cuore: “questi precetti ti stiano fissi nel cuore”; “porrete dunque nel cuore queste mie parole”.
Ma Dio rivela la sua sapienza soprattutto nel suo progetto salvifico, attraverso la storia della salvezza, una storia salvifica le cui tappe non devono essere dimenticate e devono essere sempre ricordate: “guardati dal dimenticare le cose che hai visto, non ti sfuggano dal cuore” (Dt); “beato chi medita queste cose ( = le vicissitudini di Israele): le fissi bene nel suo cuore e diventerà saggio”.
Maria ha certamente messo in pratica tutto ciò, ne siamo sicuri: cosa altro è il magnificat se non l’indice che Maria, da donna saggia, ha compreso e assimilato lo svolgersi della sapienza di Dio nella storia della salvezza?
Ma Dio non rivela la sua sapienza, il suo progetto solo nella grande storia, ma anche nella storia personale, nelle vicende personali di ognuno, come ha ben compreso Maria.
Per ben due volte ce lo ricorda l’evangelista Luca: “Ma maria conservava queste cose meditandole nel suo cuore” (Lc 2,19: hé dé Marìa pànta synethèrei ta rhémata symballousa èn thé kardìa authés) ; “E Maria sua Madre conservava queste cose nel suo cuore” (Lc 2,51).
Maria oggi insegna anche a noi come essere saggi, come acquisire la sapienza di Dio: a quanti dicono che oggi Dio non parla, Maria ricorda che Dio parla a noi tramite gli eventi quotidiani e tramite quanto egli permette che accada a noi, ogni giorno, in bene e in male!
Maria ci insegna a riflettere sugli avvenimenti della nostra vita quotidiana per scoprire in essi Dio che si rivela nella nostra storia.
Come Maria, davanti a quello che ci accade, siamo chiamati non ad opporre il rifiuto dell’incredulità ma l’accoglienza della fede: anzi, Maria ci ricorda che la comprensione della Parola non è un fatto automatico, magico, ma è il frutto di un cammino lento e paziente, un cammino silenzioso, un cammino anticonformista: “Maria invece (in greco = dè) conservava…”.
Un cammino che consenta l’opera del raccogliere, conservare, custodire le parole/eventi (in greco rhémata: ma di chiaro substrato ebraico: ricordiamo che in ebraico il termine DABAR significa sia parola, sia cosa, sia evento) per non perderne alcuna, per non dimenticare, per non disperdere le parole, ma anzi per tenerle insieme, raccoglierle e mantenerle come un tesoro caro (è questo il significato del verbo greco syneterei/dieterei usato in Lc: conservare, preservare, mettere in salvo, tenere in mente, custodire diligentemente).
E da qui il difficile compito del meditare: cioè il mettere insieme i fatti, confrontarli, verificarli, coglierne le implicazioni per la vita!
Synballousa: raccogliere, discutere, dibattere, disputare, considerare, esaminare le implicazioni, meditare, riflettere, soppesare, ponderare: tutto questo è il lavoro che ci aspetta nella meditazione!
Solo così, come a Maria, si potrà rivelare a noi la sapienza di Dio, che è una sapienza sub-contrario:
è la sapienza del magnificat, come abbiamo detto, ma è anche la sapienza della croce, come Maria apprenderà a sue spese: “E a te una spada trapasserà il cuore”.
E’ dunque una sapienza che agli occhi degli uomini, come dirà san Paolo, è considerata stoltezza, follia!
Poiché la sapienza di Dio in definitiva altro non è che il Figlio stesso: Cristo è la sapienza di Dio.
E noi , come Maria, per essere saggi, dobbiamo imparare a Christum sapere.
Dobbiamo imparare Cristo- sapienza, vivere nella sua sapienza, della sua sapienza, che è la sapienza del vangelo e della croce.
E per farlo guardiamo a Maria: Maria Sedes sapientiae, ora pro nobis.

giovedì 3 gennaio 2013

“De noche iremos de noche…"


Di notte andremo di notte
per ritrovar la fonte,
solo la sete c’illumina, solo la sete c’illumina.”
(San Giovanni della Croce),

E’ notte.
E cerchiamo nella notte.
E’ la ricerca di ogni uomo, la ricerca del suo Dio, la ricerca del suo Amato.

E’ notte,
e siamo qui anche noi a cercare, nella notte.
Noi stasera ti cerchiamo, Signore, nella nostra notte.

C’è buio nel nostro cuore.
Noi stessi forse siamo la notte,
rinchiusi nei nostri tradimenti come Giuda il traditore:
“e uscì fuori. Era notte.
Ipse enim nox erat: egli stesso era la notte”. (Sant’Agostino)

Noi siamo la notte
Quando non vediamo più il senso della nostra fatica e del nostro dolore
E ci arrendiamo ciechi allo scorrere vuoto dei giorni;
Noi siamo la notte
Quando cadiamo oppressi dallo scoraggiamento
E rifiutiamo di alzarci;
Noi siamo la notte
Quando sperimentiamo il tradimento e l’abbandono degli amici
E non riusciamo a perdonare;
Noi siamo la notte
Quando i nemici ridono di noi
E ci avviliamo dubitando di noi stessi;
Noi siamo la notte
Quando le tenebre del peccato ci avvolgono
E ci rinchiudiamo in noi stessi senza aprirci alla grazia;
Noi siamo la notte
Quando le prove e le tentazioni ci vincono
E rinunciamo a combattere;
Noi siamo la notte
Quando ci sentiamo falliti
E non sappiamo più sperare;
Noi siamo la notte.

E’ notte
E noi stasera ci uniamo al grido di quanti, pur a tentoni, nel buio ti cercano:
“Signore, è notte!
Signore, sei presente nella mia notte?”

E’ notte nella nostra vita Signore e noi vaghiamo.
Ma con quel poco di fede che ci resta
Noi stanotte ti imploriamo
Noi stanotte ti preghiamo:
“Tu, Signore, sei nostro padre,
da sempre ti chiami nostro redentore.
Perché, Signore, ci lasci vagare lontano dalle tue vie
e lasci indurire il nostro cuore, cosi che non ti tema?
Ritorna per amore dei tuoi servi,
per amore delle tribù, tua eredità.
Se tu squarciassi i cieli e scendessi!
Davanti a te sussulterebbero i monti.”
(Isaia)

Abbiamo paura Signore:
Paura che i nostri occhi si abituino alla notte
Paura che le nostre pupille comincino ad amare il buio
Paura che il nostro cuore si indurisca nel male
Paura di non cercarti più
Paura di non amarti più
Paura che altri ci seducano col loro ingannevole fascino.
Paura di allontanarci da te.

“Eppure dove andare lontano dal tuo volto
Dove fuggire lontano dalla tua presenza?” (Salmo)

E’ notte nella nostra vita, Signore, e noi vaghiamo.
Ma con quel poco di fede che ci resta
Noi stanotte ti imploriamo
Noi stanotte ti preghiamo:
Signore, se non riusciamo più neanche a cercarti
Se non riusciamo più a trovarti
Cercaci tu Signore!
Cercaci!
“Ritorna a noi e noi ritorneremo a te.” (Isaia)
“Oh se tu squarciassi i cieli e scendessi!”
Si piegherebbero davanti a te i monti del nostro orgoglio
Si colmerebbero gli abissi della nostra debolezza
Si spianerebbe la via dell’incontro.


E se in questa notte noi vaghiamo
Vienici tu incontro, cercaci, chiamaci!
In questa notte noi cerchiamo la tua parola:
Vieni allora Signore, e parlaci.
In questa notte noi ti preghiamo:

“A te grido, Signore; non restare in silenzio, mio Dio, perché, se tu non mi parli, io sono come chi scende nella fossa.

Il peso della notte è il silenzio.
La pena della nostra notte è il tuo silenzio.
E’ la fame della tua parola che ci spinge
E’ la sete della tua parola che ci guida

Eppure ci avevi ammonito:
“Ecco, verranno giorni,
- dice il Signore Dio -
in cui manderò la fame nel paese,
non fame di pane, né sete di acqua,
ma d'ascoltare la parola del Signore.
Allora andranno errando da un mare all'altro
e vagheranno da settentrione a oriente,
per cercare la parola del Signore,
ma non la troveranno.
In quel giorno appassiranno le belle fanciulle
e i giovani per la sete.” (Amos)
  
Noi non abbiamo più parole
Sono vuote le nostre parole
Non hanno più senso
Forse il tuo silenzio
È per educarci all’attesa
All’attesa della tua parola
Poiché la tua parola è “una sottile voce di silenzio”
Tu parli, ma il tuo “non è linguaggio, non sono parole di cui si ode il suono”

Parlaci dunque Signore, nel tuo silenzio.
Così noi ti preghiamo:
“Se tu non mi parli
riempirò il mio cuore del tuo silenzio
e lo sopporterò.
Resterò qui fermo ad aspettare come la notte
nella sua veglia stellata
con il capo chino a terra
paziente.

Ma arriverà il mattino
le ombre della notte svaniranno
e la tua voce
in rivoli dorati inonderà il cielo.
Allora le tue parole
nel canto
prenderanno ali
da tutti i miei nidi di uccelli
e le tue melodie
spunteranno come fiori
su tutti gli alberi della mia foresta.”
Rabindranath Tagore
Eccoci dunque a te
Nella nostra notte
Nel nostro cercare
Nel nostro silenzio
Nel tuo silenzio

Attendiamo la tua Parola
Per non vagare più nelle tenebre
Perché “la tua parola nel rivelarsi illumina”:
“lampada ai miei passi è la tua parola Signore
luce al mio cammino”.

Oppressi dalla stanchezza dei giorni,
Noi vegliamo;
Temendo che il sonno ci colga,
Noi attendiamo la tua venuta;
pregustando l’arrivo del giorno,
Aspettiamo la fine della notte.

Vieni dunque Signore, vieni nella nostra notte.
Noi cerchiamo e vegliamo
Noi vegliamo ed attendiamo
Noi attendiamo e chiediamo:
“Shomèr ma mi-llailah, shomèr ma mi-lell?”
«Sentinella, quanto resta della notte?
Sentinella, quanto resta della notte?».
La sentinella risponde:
«Viene il mattino, se volete domandare, domandate,
convertitevi, venite!». (Isaia)

E noi siamo qui stanotte
Nell’attesa della luce, della tua luce.
E vogliamo domandare
Sicuri che presto risponderai
“Rispondici prestro Signore e salvaci, per la tua misericordia”
E noi ci convertiremo a te mentre tu verrai
a visitarci dall’alto come sole che sorge
Per illuminare coloro che giacciono nelle tenebre
E nell’ombra della morte
E dirigere i nostri passi sulla via della pace.” (Luca)

Ce l’hai promesso: “Ecco vengo presto”
E allora “vieni Signore, vieni
Maranathà” (Apocalisse)

 “Nel quieto silenzio che avvolgeva ogni cosa,
mentre la notte giungeva a metà del suo corso,
il tuo Verbo onnipotente, o Signore,
è sceso dal cielo, dal trono regale. (Sap 18,14-15)”
Nel cuore della notte
Della notte della storia
Nel cuore delle nostre notti
Il Signore è venuto
Dal cuore del silenzio
Il Signore ha parlato
Il suo Verbo si è manifestato
è sceso fra noi
ha messo la tenda della sua carne in mezzo a noi
e noi abbiamo contemplato la sua gloria
gloria come di Unigenito dal Padre pieno di grazia e di verità.
La luce che brilla in questa notte è la luce del Verbo
E’ la luce della vita.
Ci credevamo sperduti, abbandonati:
gli angeli ci annunciano che siamo destinatari della benevolenza divina:
Non siamo più soli:
Dio è con noi
Egli è l’emanuele.
“il Natale è la risposta di Dio al dramma dell’umanità in cerca della vera pace. "Egli stesso sarà la pace!" – dice il profeta riferendosi al Messia. A noi spetta aprire, spalancare le porte per accoglierlo. Impariamo da Maria e Giuseppe: mettiamoci con fede al servizio del disegno di Dio. Anche se non lo comprendiamo pienamente, affidiamoci alla sua sapienza e bontà.” (Benedetto XVI)
E la sua sapienza e la sua bontà ci rivelano l’arcano:
“apparve l’umanità del Signore nostro Gesù Cristo” (San Paolo)
Dio si fa uomo perché l’uomo diventi Dio.
“O admirabile commercium, o meraviglioso scambio!” (Gregorio Magno)
Cristo, vero Dio e vero uomo
Ci indica la via per realizzare noi stessi come uomini veri:
“Chi segue Cristo, uomo perfetto diventa anche lui pienamente uomo” (GS)
Crsito:
Insegnaci ad accettare la nostra umanità
Insegnaci ad accettare la debolezza della nostra carne
Insegnaci la via dell’umiltà, del nascondimento, della povertà
Insegnaci il cammino della condivisione, della comunione, dell’unità
Insegnaci o Cristo a essere uomini
Uomini della tua umanità
Uomini nella tua umanità
per essere anche figli di Dio,
In te figli santi del Padre, a cui oggi e sempre diamo lode con te e nello Spirito. Amen.



IO ACCUSO…

Tra epidemia e calura estiva è passato sotto silenzio un importante responso della Congregazione della Dottrina della fede e approvato in pr...