mercoledì 23 settembre 2015

Padre Pio

Vorrei qui comunicare le riflessioni scaturite da un confronto, per me prete inevitabile, con un’esperienza di fede e di santità come quella dell’umile frate di Petralcina. Confesso di non essere incline a devozionalismi di sorta, né di essere tenero nei confronti di certe espressioni di pietà popolare (al di là delle apparenze : ma chi mi conosce bene lo sa !), come di non  indulgere nell’educazione della fede, mia e dei fedeli affidati alle mie cure pastorali all’attrazione di mode e sensazionalismi vari. Eppure non si può non farsi interrogare dalle tante persone che affollano i pellegrinaggi da P. Pio o verso qualunque altro santuario (si pensi Lourdes) o che frequentano gruppi e movimenti ecclesiali in cui sta venendo fuori un tipo di spiritualità capace forse di dare risposte più concrete di quanto non lo sappiano fare le esperienze proposte dalla normale routine ecclesiale alla ricerca dell’uomo di una salvezza veramente integrale. So che queste modalità (se volete anche ingenue talvolta) fanno storcere il naso a qualcuno in nome di un’esperienza di fede da vivere allo “stato puro” senza le contaminazioni di una certa religiosità definita “naturale” : ma eventuali deviazioni o abusi non possono però esimerci dal prenderle in seria considerazione. Il “fenomeno” di P. Pio o quello degli altri movimenti ecclesiali a mio parere è proprio da interpretare alla luce della domanda su dove si collochi esattamente l’esperienza della fede e come la si possa vivere e proporre oggi alla gente. Dal tipo di risposta data a questa domanda credo spuntino poi fuori le scelte pastorali che un prete ad esempio è chiamato a fare. Il problema è appunto se esista uno “stato puro della fede” ! Io credo di no. Come non è mai esistito uno stato di “natura pura”.  Il protestante Barth teorizza la distinzione (che tanto influsso ha avuto pure in certa teologia cattolica postconciliare) inconciliabile tra religione (naturale) e fede (spirituale), tra natura (tutta peccato) e grazia (tutta salvezza da Dio solo) e in nome di questa distinzione considera peccaminosa ogni esperienza di fede contaminata dalle espressioni della natura umana (ma non crediamo in un Dio che si è fatto uomo ?). Mettete questo insieme a quelle tentazioni (di derivazione gnostiche e  pelagiane) che vogliono ridurre la fede ad una pura esperienza intellettuale di conoscenza (banalizzo e semplifico in uno slogan “se conosci la dottrina sei salvo !”), o al massimo etica (di pure regole di comportamento : “se segui le regole del Maestro sei salvo !”) e avrete la visione completa del problema. Così tutto quello che sa di corporeo, materiale, psicologico, umano, viene neoplatonicamente rigettato perché appunto “umano, troppo umano” ! Non facciamo spesso infatti che organizzare convegni, dibattiti, seminari, scuole di formazione per nutrire appunto la mente, celebriamo liturgie asettiche e disincarnate (in cui è proibito esprimere gioia o dolore o qualsiasi altro sentimento in nome della semplice nobiltà del rito romano, in cui le folle sono sempre snobbate come soggetto vero e proprio dell’azione liturgica, in quanto popolo di Dio) avendo sempre in mente in fondo un modello di Chiesa elitario ( in cui reputo il fatto di essere il piccolo gruppo del sale e del lievito che deve fermentare la massa non c’entri per niente). E allora la gente comune, semplice, spesso proprio quei “poveri di spirito” di cui parla il vangelo sono obbligati a rivolgersi altrove : a crearsi le loro liturgie nelle forme della pietà popolare, a ricercare luoghi ed esperienze dove si sentano veramente accolti per quello che sono, anche nel groviglio dei loro sentimenti tutti ancora da sviscerare. Perché non c’è un uomo fatto solo di testa e intelletto, uno fatto solo di cuore e affetti, uno solo di corpo e di materia : c’è un solo uomo che è fatto di tutte queste dimensioni insieme. La stessa divisione di anima e corpo è platonica, non biblica, la Scrittura sacra ci trasmette la concezione di un unico uomo in tutta la sua unità di spirito, anima e corpo inscindibilmente connessi. E la salvezza, la pace (Shalòm) biblica è uno stato di benessere fisico, sociale, spirituale insieme ! E Dio si prende cura di tutto l’uomo ! A Cristo si sono  presentati  l’intellettuale Nicodemo, ma anche lo stuolo dei malati fisici, e il gregge dei peccatori a cui spesso non mancava né la conoscenza, né il cibo, né la salute ma l’affetto (valgano per tutti gli incontri con le donne del vangelo : la samaritana, l’adultera, la peccatrice...). E proprio il Cristo inviterà tutti gli affaticati e gli oppressi ad andare a lui per trovare ristoro per le loro vite. E il vangelo non ci riporta mai un rimprovero fatto da Cristo a quelli che gli chiedevano la guarigione del corpo e che magari pensavano ancora ad un rapporto magico con lui come la donna che gli vuole toccare la frangia del mantello per essere sanata : semmai proprio a partire da queste richieste prendeva lo spunto per richiamare ad una fede più grande. Ma se noi impediamo questa consegna della propria umanità malata nelle mani del Salvatore, la massa dei poveri dove va a finire ? A volte ingrossa le file dei pellegrinaggi, a volte però cade spesso vittima di filibustieri che tra oroscopi, filtri e sortilegi vari succhiano l’anima insieme al corpo e ai piccoli risparmi, o si infila in esperienze sempre più aleatorie ed alienanti quali quelle delle nuove sette più o meno orientaleggianti. Che fare allora ? Forse proprio il miracolo più grande di P. Pio sta in questo : nel richiamare tutta la Chiesa ad una attenzione maggiore verso i poveri, che prima di essere una categoria socioeconomica, rappresentano una categoria spirituale. E’ facile infatti organizzare centri di accoglienza, distribuire soldi, cibo e vestiario in una sorta di burocratica filantropia che però misconosce il rapporto umano : il povero che soffre cerca soprattutto affetto, comprensione, e insieme la proposta di un’esperienza di fede in cui piangere nel grembo del Padre e sentirsi accolti nonostante il proprio peccato. Le lunghe file davanti al confessionale di P. Pio credo indichino appunto questo. Poi verranno anche gli ospedali e le case di sollievo della sofferenza. Ma il primo sollievo da dare è quello della fede : a questo credo di essere richiamato anzitutto io prete dalla testimonianza di P. Pio.  E lo confesso qui in pubblico come espressione di una mia sofferta ricerca, nella consapevolezza di itinerari di sacerdoti approdati invece ad altre conclusioni che pure rispetto nella libertà dei figli di Dio per la  coerenza evangelica con cui sono vissute. L’attenzione alle folle affamate che corrono il rischio di venir meno lungo la via, a cui sento che il prete debba rivolgere il proprio ministero, per me allora diventa un modo per cercare (per quanto mi è stato dato di leggere nel progetto di Dio su di me) di partecipare alla missione di Cristo : “Lo Spirito del Signore è sopra di me, mi ha mandato a portare il lieto annunzio ai poveri, la libertà ai prigionieri, agli afflitti la gioia...” Non per fare demagogismi né populismi (dai cui pericoli mi mette sempre in guardia il mio buon vescovo), né per richiamare le gente con illusorie speranze di salvezza a buon mercato, né per conquistare centralità e attenzione davanti all’opinione pubblica. L’umile esempio di un P. Pio, grande non per le sue stigmate, ma perché le ha vissute nella consumazione obbediente di una vita spesa nell’accoglienza e nell’ascolto dei fratelli anzitutto nell’Eucaristia e nella Confessione credo che a noi preti abbia tanto da insegnare e che insieme possa contribuire a togliere qualche illusione o precomprensione a tanti che non hanno forse ancora ben chiaro il ministero del prete e che vorrebbero da noi preti quello che non possiamo dare (compilando magari poi le graduatorie tra i preti impegnati e non, moderni o antichi e via dicendo...) e che perciò non rendono giustizia di quello che in fondo, al di là delle singole opinioni e scelte, un prete, ogni prete, è chiamato ad essere.  Perché noi solo una cosa siamo chiamati a dire, come Pietro al paralitico : “Non ho né oro né argento, ma quello che ho te lo do : nel nome di Cristo, alzati e cammina !”.

martedì 1 settembre 2015

Ricordi sessantottini!

“Settembre, andiamo è tempo di migrare...” Se la memoria non mi inganna inizia così una famosa poesia che oggi possiamo usare come un  richiamo alla ripresa delle attività dopo la pausa estiva. Significa che vacanze, sole, spiaggia e bagni rimarranno solo dei bei ricordi... Settembre ci richiama alla realtà, è ora di prepararci a quello che stando alle previsioni sarà un autunno “caldo”... I sogni dell’estate sono finiti ! Sogni che spesso aprono il cuore alla marea dei ricordi... Chissà infatti perché proprio l’estate per me in modo particolare è la stagione dei ricordi (quelli lieti, perché quelli tristi si rimuovono), e specialmente dei ricordi d’infanzia, quelli legati alla radio o ai primi mangiadischi che suonavano nel solleone l’Azzurro dell’italico Celentano o le esotiche e ammalianti nenie che ci facevano sognare l’isola di Whigt (si scrive così l’isola di chi ha negli blu della gioventù... ?) e ci davano la gioia di sentirci accomunati tutti, amanti dei Beatles e dei Rolling Stones, quando anche nelle Messe ci si domandava con Bob Dylan quante strade dovesse fare un uomo per essere più uomo e con Joan Baez si rispondeva We shall over come e si pregava (unica intenzione di preghiera dei fedeli per anni ! ! !) che finisse la guerra nel Vietnam...
Per me la bellezza del ’68 comincia e finisce qua ! Ho avuto infatti in sorte di nascere e di vivere la mia fanciullezza negli anni ’60, di assistere alle tragedie degli anni ’70, di sperimentare sulla mia pelle il riflusso e il vuoto, compresi i loro rigurgiti degli anni ’80 e ’90: dal maggio del ’68, data di inizio della cosiddetta rivoluzione giovanile (ricordo uno dei primi cortei studenteschi di Scicli che parodiava la processione del Venerabile !), al maggio ’78 in cui l’assassinio di Moro manifestava il clou della pretesa rivoluzione proletaria delle brigate rosse (e ricordo ancora con orrore un mio compagno di scuola indottrinato dagli slogan della sinistra gioire alla notizia del rapimento prima e dell’uccisione poi). Non voglio qui entrare in considerazioni politiche, non mi spettano e non mi interessano : confesso che per un po’ l’ideale di una palingenesi del mondo a forza d marce di protesta ha irretito anche me, per lasciarmi poi con la sensazione del vuoto dentro...e per questo la mia ricerca si è diretta Altrove. Perciò qui voglio solo manifestare quello che tutte queste esperienze mi hanno lasciato : amarezza e insofferenza, e basta. Amarezza perché ci hanno dato l’idea che il mondo si costruisce sempre contro qualcosa (istituzioni, governo, scuola, famiglia...) e qualcuno (dai genitori all’avversario politico) proprio mentre a parole si fantasticava di fraternità anarchiche situate nel migliore dei mondi impossibili ! Insofferenza  poi verso la pretesa che c’è alla base di queste presunte rivoluzioni, a partire dalla madre di tutte le false rivoluzioni quale è stata la rivoluzione francese (e della quale,  credo che tutto sommato siano  figlie tutte le rivoluzioni dell’Occidente moderno). E cioè la pretesa di ogni rivoluzionario di voler azzerare la storia, di buttare via (bruciando e distruggendo e saccheggiando praticamente ogni cosa che viene a tiro) tutto il passato e ciò che lo rappresenta. E’ l’ingenua pretesa che tutto il vecchio è marcio e sporco e che solo il nuovo sia immacolato. Pretesa che spunta fuori dalla convinzione che si abbia in tasca la verità e che questa la si possa imporre con la forza a tutti, imponendo il rinnovamento (che credo sia un problema di mente e di cuore) a forza di coazioni esterne. Non interessa se questo è fatto con la violenza delle armi o solo con il deterrente dell’ostracismo e dell’emarginazione : interessa che chi non si allinea viene automaticamente marchiato come nemico dei giovani, del proletariato, dei poveri, della pace, del progresso... E’ questa pretesa illuministica che io non ho mai condiviso : perché fa buttare via il bambino insieme all’acqua sporca. Certo, è innegabile che la giustizia, specie nell’ambito dei diritti umani, della solidarietà sociale e della pace nel mondo, abbia ancora un lungo cammino da percorrere, e che questo richiede impegno da parte di tutti : ma io mi sono sempre chiesto quali siano le vere conquiste, ad esempio, che i figli di papà (ché questi in realtà erano i nostri sessantottini : giustamente Pasolini ha scritto che i veri poveri e figli di proletari erano i carabinieri contro cui i “nostri” lanciavano pietre e molotov) hanno apportato alla nostra società. La possibilità di girare con l’ombelico di fuori e di fare sesso con chiunque e dovunque è una conquista ? Il sei e il diciotto “politico” o il fatto di promuovere anche gli ignoranti, di declassare la cultura e la scuola (e conseguentemente anche la professionalità)  sono una conquista ? Un certo pacifismo a senso unico perpetuato fino ai nostri giorni che fa protestare solo contro gli americani in Vietnam o in Iraq, dimenticando di farci protestare per la guerra in Bosnia o per i massacri nello Zaire, è una conquista ? Il ritorno al principio del “s’ei piace, ei lice”, fondamento di ogni soggettivismo e relativismo etico è una conquista ? Stranamente le uniche conquiste della maggior parte dei sessantottini di allora sono i posti migliori per sé e i loro figli all’interno di quell’entourage borghese che pure a parole si combatteva : ma allora era solo un problema di rivalsa sociale ? Confesso che non ho mai sopportato queste pretese conquiste e chi le propugnava, come confesso di non riuscire a digerire ancora oggi chi vagheggia il mitico ’68 e chi gli ha tenuto la candela o gliela tiene ancora, anche in ambito ecclesiale. Come mi fanno pena adesso gli squatters dei centri sociali e affini : le vere e uniche creature del ’68 sono in fondo dei disadattati, persone cioè che non sanno assumere nella propria vita la reale concretezza drammatica eppur bella del presente : e lo scrivo veramente con dolore perché significa che una tragedia si è consumata sulle spalle dei giovani senza che questi si accorgessero della vera portata della posta in gioco. Per questo la mia rabbia è diretta non contro i giovani (di allora o di oggi : in fondo sempre le vittime) quanto contro quei cattivi maestri che hanno seminato i germi insani senza assumersene spesso neanche la responsabilità. Qualcuno forse penserà che questo è il classico discorso del cinquantenne pompiere che è stato incendiario a vent’anni : e forse sarà vero. Ma, se lo è, è solo perché gli anni che passano mi fanno scoprire sempre più la bellezza della vita  e la voglia di combattere la vera battaglia, quella del cuore contro noi stessi : a chi è più giovane di me dico che ne vale la pena, ai più grandi l’appello di testimoniarlo con più forza.

IO ACCUSO…

Tra epidemia e calura estiva è passato sotto silenzio un importante responso della Congregazione della Dottrina della fede e approvato in pr...