lunedì 17 novembre 2014

CONFESSARE I TALENTI E LA GRAZIA

Tengo una rubrica su un mensile locale dal titolo “Confessioni ad alta voce”.
Decidere di “confessarsi in pubblico” è sicuramente per certi versi un’operazione - mi si passi il termine - “spudorata” : è un presentarsi “nudi” all’occhio del lettore che può essere a volte benevolo, a volte spietato.
 “Confessione”: è proprio il meccanismo che, credo, oggi ci possa far uscire non solo da una sorta di buio anonimato in cui come si dice “tutte le mucche sono nere”, ma anche da un certo solipsismo spirituale che ci fa rinchiudere ognuno nella coltivazione del proprio “hortus conclusus”.
Non per fare buonismo: ma se ognuno di noi “confessasse” (nel senso etimologico del termine proprio di rendere testimonianza) il bene che c’è in noi e nel mondo (per chi crede: che Dio ha messo in noi e nel mondo) coinvolgendo gli altri in questa testimonianza, credo che nei giornali troveremmo meno cronaca nera (e di tanti altri colori) e più sentimenti autentici. Meno bruttura e più bellezza : non sarà proprio quest’ultima che Dostoievskj dice dovrà salvare il mondo? Confessarsi a partire dai richiami al vissuto e al duro mestiere di vivere illuminato tuttavia dalla Grazia, credo si possa inscrivere proprio su questa linea.
E solo così credo si possa avviare un vero dialogo con gli altri compagni di viaggio, viatores con meta o in cerca di meta.

Anche se questo comporta l’impegno di continuare a parlare il “patois” di Canaan, cioè il dialetto di Palestina che - fuor dai veli - è lo stile semplice e immediato che privilegia i rapporti umani prima che le dotte elucubrazioni: è lo stile del Cristo pellegrino fra le strade di Galilea che prego giorno dopo giorno di far mio. Confesso che non è facile parlarlo, per chi come me, è più impastato di latino e greco, di “lettere e filosofia” ! Ma ho scelto di servire un Dio che spesso si rivela ai semplici e irride le intellighentie: per questo mi è gradito l’esercizio di un ministero in una parrocchia in cui sono costretto ogni volta a rimettere i piedi a terra e la testa fuori dalle nuvole ! Se sia umiltà  la mia non spetta a me dirlo (potrebbe pure essere bencelato orgoglio): certo per me è un’occasione di maturazione e...senza timore di ripetermi, di Grazia!

mercoledì 12 novembre 2014

Per il futuro? Ritornare a scommettere sull'educazione.

Viviamo in tempi in cui abbiamo assistito - per dirla schematicamente - alla fine degli assolutismi, alla perdita dei valori, al crollo degli ideali, alla  crisi delle istituzioni, al dilagare di una illegalità diffusa a tutti i livelli, al lento ma a prima vista inarrestabile traballare di famiglia, Stato, scuola....e aggiungerei anche Chiesa...
Conseguentemente abbiamo davanti a noi ad esempio giovani sempre più insicuri (vedi l’innalzamento e l’allargamento del periodo adolescenziale), personalità fragili (vedi l’incapacità di fare scelte, specie se durature, e i sacrifici conseguenti alle scelte, o di portarle avanti nel tempo : emblematico è il fallimento di tanti matrimoni di coppie giovani, ),  giovani vittime di manipolazioni ( vedi l’influenza sempre più alta dei mass media),  giovani contesi o dissociati tra le diverse agenzie educative o pseudoeducative ( vedi i giovani che fanno musica, sport, scautismo etc o che appartengono insieme  a gruppi di matrice diversa...incapaci di stabilire una gerarchia di valori o che rispondono ai valori/pseudovalori come Zelig, il personaggio di Woody Allen, a seconda delle situazioni).
Il compromesso così sembra essere diventato la regola, l’incoerenza tra valori e scelte concrete sembra quasi connaturata ad uno stile di vita sempre più illuministicamente dissociato tra il dire e il fare (se è detto è fatto?!).
Risultato di tutto ciò è la frammentazione dell’identità: spesso si vive quasi a compartimenti stagni, incapaci di operare una vera “reductio ad unum”, cioè incapaci di ricondurre la diversità delle esperienze ad un unico punto attorno al quale fare ruotare e dal quale ricevere senso, per leggere se stessi come il soggetto unico della propria storia. Abbiamo bisogno di quel “centro di gravità permanente, che non mi faccia mai cambiare idea sulle cose, sulla gente...” che cercava, cantando, Battiato.
Emblematica, a proposito, è la confusione dei ruoli (vedi il rapporto uomo-donna o la crisi  dell’identità personale), oppure il relativismo etico (se ogni persona ha la propria verità, allora fa quello che vuole: è i trionfo del “secondo me”, del “mi piace, quindi è così”, del “così è bello” o del “il corpo è mio e me lo gestisco io”) che sfocia, per alcuni aspetti, nella pluriappartenenza (vedi il caso del Baggio “buddista” o il fenomeno del New Age) e, per altri aspetti, nella privatizzazione dei comportamenti.
Come definire allora un giovane che vive in questa rete, spesso groviglio, di problemi che si riversano nella sua esistenza e che la connotano e la condizionano spesso in modo tragico e irreversibile, specie in situazioni socioculturali quali quelle della Sicilia dominate da piaghe quali la disoccupazione, sacche di povertà ancora estese, micro e maxi delinquenza, criminalità organizzata, mafia, inquinamento sociopolitico ed ecclesiale, diffidenza verso le istituzioni, mancanza di senso civico, religiosità popolare  e costumi ancora fortemente tradizionalistici?
Io lo definirei un “giovane a rischio”, dove però la categoria “a rischio” prima che essere sociologica è esistenziale: quello infatti che si mette a rischio non è qualche aspetto della vita, materiale o no che sia, è anzitutto la vita stessa, nella sua qualità, nella chiamata alla realizzazione piena di sé che ogni vita porta inscritta nella propria esistenza.
In questo senso  i giovani della Sicilia oggi sono a rischio, perché il mondo è a rischio: la Sicilia è specchio di quello che oggi è il mondo!
Eppure, pur parlando di situazioni a rischio, non vorrei mancare al mio dovere di scout di saper vedere anche il 5% di buono presente in quest’oggi e in questo mondo. Sarebbe infatti ingiusto tacere di quelle tante realtà che viaggiano nella direzione opposta a quella precedentemente vista: sono ad esempio l’impegno per la pace di tanti, la cooperazione e lo sviluppo tra i popoli, l’impegno per la salvaguardia del creato, per una società più giusta e solidale e più a misura d’uomo (vedi   l’AVS, il servizio civile, il volontariato) e poi la rinascita di una coscienza politica, il fermento antimafia, e , al livello ecclesiale, il risveglio e l’impegno per una vera esperienza di fede in una Chiesa-Popolo di Dio e Corpo di Cristo che vive nella testimonianza -a volte letteralmente vero e proprio martirio - il proprio servizio dell’annuncio del vangelo del Regno al mondo.
Come ingiusto sarebbe inoltre non riconoscere nel volto della Sicilia, per rimanere nell’ambiente che ci interessa più da vicino, assieme alle tante rughe che lo deturpano, anche i tratti della intelligenza, della forza e della tenacia con i quali spesso la rassegnazione si trasforma in laboriosità; i tratti della  generosità che si coniuga in termini di solidarietà, ospitalità, accoglienza, tolleranza, integrazione razziale (è questa la lezione della storia!), i tratti dell’ironia che pirandellianamente sa elevare un innato pessimismo ad un  sano realismo ...sono tratti questi che rappresentano una risorsa, una riserva, assieme a quelle realtà di bene cui prima accennavamo più in generale, da cui trarre ricche suggestioni per il lavoro che ci apprestiamo a fare.
A questo punto, chi deve essere e come un cristiano che vuole scommettere sulla formazione e sull’educazione delle nuove generazioni?
E’ uno che ha anzitutto il coraggio  dell’intelligenza: cioè il coraggio di andare dentro le cose (intus-legere), di superare le apparenze, di andare al nocciolo, alla sostanza delle cose (sub-stantia:ciò che sta sotto), ricordando l’ammonimento della volpe al Piccolo Principe: “l’essenziale è invisibile agli occhi”.
Questo significa, per un educatore, la capacità di superare ogni superficialità, in noi stessi e negli altri, il rifiuto di farci ingannare dagli specchietti per le allodole...per andare alla interiorità: è il rifiuto del “look”, dell’apparenza per ritornare all’essere.
E chi ha il coraggio dell’intelligenza ha anche il  coraggio del discernimento. Proprio nell’epoca della contraddizione, della confusione e del relativismo il dovere del discernimento si impone più che mai come il coraggio di scegliere e di saper scegliere, distinguendo tra bene e male: “tutto provate, ritenete ciò che è buono” ammonisce San Paolo.
Mi sembra che una delle urgenze più grandi per gli educatori sia quella di aiutare a superare l’indifferentismo e di educare alle scelte, alle scelte responsabili. Questo significa, per un educatore, la capacità di un atteggiamento critico nei confronti di se stesso anzitutto e poi degli altri e della realtà che ci circonda, non per seminare dubbi o zizzania per partito preso, ma per sottoporre ogni cosa al vaglio critico della Parola di Dio, che mettendo in luce le ombre del peccato e le tentazioni al compromesso ci spinge a continua conversione.
Ma intelligenza e discernimento si pagano con un altro coraggio: quello di ricercare sempre, senza posa, la verità. Solo infatti chi ha l’umiltà di riconoscere di non essere depositario di verità precostituite, avrà il coraggio di superare ogni dogmatismo, di uscire dalle proprie sicurezze, spesso false, per impegnarsi in un pellegrinaggio alla ricerca della verità, che diventa, per chi ha il coraggio di compierlo fino in fondo, un cammino di liberazione, se vero, come è vero, che la verità ci farà liberi (Gv).
Questo significa, per un educatore che aspira a diventare formatore di personalità autentiche, la capacità anzitutto di mettersi a nudo, di gettare la maschera, di sciogliere i tanti legami dell’ipocrisia per ripartire da una vita sentita e vissuta nella  sincerità del cuore.
E dato poi che per noi che ci diciamo cristiani la verità non è un ideale astratto, o peggio un “flatus vocis”, ma una persona ben concreta, Gesù di Nazareth che noi confessiamo come il Cristo di Dio, allora potremo dire che l’educatore cristiano è uno che, oggi più che mai, ha il coraggio  di mettersi con più decisione alla sequela di Cristo, nell’esperienza della fede, nella docilità allo Spirito, nell’obbedienza della Parola, nella appartenenza ecclesiale, nella libertà della coscienza.
Chi deve essere l’educatore cristiano infatti se non colui che nella coerenza della propria vita testimonia una sempre rinnovata fedeltà a Cristo che lo ha liberato? “liberi e fedeli in Cristo” dice P. Haring a proposito della vita dei cristiani: libero e fedele in Cristo deve essere un Capo, per essere a sua volta nella Chiesa e nel mondo segno e strumento di liberazione. Poiché infatti oggi l’educazione non può non coniugarsi in termini di liberazione, di superamento cioè delle contraddizioni tra fede-vita, ideale-reale, interiore - esteriore, pubblico-privato, personale-comunitario, materiale-spirituale...superamento in vita della realizzazione dell’uomo integrale...
Questo significa per noi in questa sede, avere il coraggio di una revisione critica del nostro modo di essere e delle nostre scelte: prima di guardare ai ragazzi dobbiamo guardare a noi stessi, con onestà! Ci dice infatti il Vangelo che “se un cieco guida un altro cieco, entrambi finiscono in una fossa”: allora molto onestamente dobbiamo dire oggi che i frutti del nostro servizio dipendono dalla qualità di noi Capi. Dobbiamo allora puntare sulla qualità, come primo impegno: sulla qualità dell’essere che si traduce in termini di una spiritualità cristiana sempre più sperimentata, vissuta, incarnata... e che sfocia nella qualità del servizio che si traduce in termini di una competenza sempre maggiore (sono finiti i tempi del pressappochismo e delle buone intenzioni!!!).
Noi purtroppo siamo figli e vittime di quello che in filosofia oggi viene detto il “pensiero debole”: cosa viene insegnato oggi? Che non esistono valori - certezze e che è inutile cercarle e che se anche esistessero la nostra  mente non riuscirebbe a coglierli in pieno dati  i suoi limiti, e che se anche riuscisse a capire qualcosa non saprebbe né comunicarla né viverla: e allora? Allora accontentiamoci di vivere alla giornata, di non pensare a mete irraggiungibili: gli ideali? E chi li ha mai visti o toccati? Meglio altre mete che, guarda caso, devono essere tangibili: beni, denaro, potere...si potrebbe continuare, ma credo che ci siamo capiti: oggi assistiamo al trionfo della mediocrità, al ripiego dell’uomo su se stesso, al rifiuto della sua chiamata ad essere Altro, e alla conseguente tragedia della perdita dell’identità stessa dell’uomo. Eppure il Poeta (!) ci aveva ammoniti: “fatti non foste per viver come bruti ma per seguir virtute e canoscenza...”: A parte la citazione dotta ,
Dobbiamo osare pensare in grande, dobbiamo liberare i sogni e ritornare a giocare con le stelle: come paradossalmente veniva suggerito a Peter Pan per crescere, per riuscire a volare!


IO ACCUSO…

Tra epidemia e calura estiva è passato sotto silenzio un importante responso della Congregazione della Dottrina della fede e approvato in pr...