domenica 26 aprile 2015

Il coraggio di riconoscere il genocidio degli armeni

Il Papa parla di "genocidio armeno " e subito la Turchia reagisce duramente come se fosse stato attaccato intenzionalmente lo stato turco. Eppure precedentemente Papa Francesco era stato accolto in Turchia con segni di stima e di amicizia mai visti prima nei riguardi di un pontefice. Cosa è successo? Nel 2016 la nazione armena commemorerà quello che dagli stessi armeni viene definito "il grande male ". Cioè un progetto di distruzione di massa della popolazione armena presente nell'impero ottomano perpetrato un secolo fa. Ricordiamo che i turchi ottomani avevano occupato l'Armenia (ancora oggi quella che viene detta "l'Armenia storica" è inglobata nel territorio dello stato turco e l'Armenia attuale è solo un piccolo residuo del grande regno di Armenia) e tra fine '800 ed inizi del '900 c'è il tentativo turco di creare una grande Turchia che si estendesse fino al Turkmenistan. Per cui cominciarono le prime stragi. A complicare le cose fu anche la prima guerra mondiale in cui i turchi si trovarono alleati della Germania e gli armeni della Russia. Questo fece si che gli armeni presenti in Turchia fossero considerati tendenzialmente come nemici e fosse avviata una "guerra preventiva" nei loro confronti col tentativo di eliminare la loro presenza fisica stessa dalla Turchia. Si cominciò dalle classi dirigenziali, dagli intellettuali, dalle gerarchie ecclesiastiche, per finire poi a tutte le classi del popolo, dagli uomini in grado di combattere per finire a donne e bambini. Si contarono da un milione e mezzo a un milione e ottocentomila caduti. È la cifra dei morti già indica il genocidio. Con coraggio già allora - lo ha ricordato Papa Francesco nella sua omelia - Papa Benedetto XV, che condannò come «inutile strage» la Prima Guerra Mondiale (AAS, IX [1917], 429), si prodigò fino all’ultimo per impedirlo, riprendendo gli sforzi di mediazione già compiuti dal Papa Leone XIII di fronte ai «funesti eventi» degli anni 1894-96. Egli scrisse per questo al sultano Maometto V, implorando che fossero risparmiati tanti innocenti (cfr Lettera del 10 settembre 1915) e fu ancora lui che, nel Concistoro Segreto del 6 dicembre 1915, affermò con vibrante sgomento: «Miserrima Armenorum gens ad interitum prope ducitur», (AAS, VII [1915], 510). Cioè: "la miserissima popolazione armena è condotta quasi all'annientamento". Di fatto è l'allarme per il compiersi di un delitto atroce, quello che poi nel diritto internazionale verrà codificato come genocidio. La Chiesa di Roma è stata sempre vicino a quella Armena e da sempre ha sostenuto gli sforzi del popolo armeno nel veder riconosciuto il genocidio perpetrato nei suoi confronti dalla comunità internazionale. Lo stesso papa Francesco nella sua omelia non fa che riprendere la Dichiarazione Comune, sottoscritta a Etchmiadzin il 27 settembre 2001 da Giovanni  Paolo II e Karekin II quando dice: "Questa fede ha accompagnato e sorretto il vostro popolo anche nel tragico evento di cento anni fa che «generalmente viene definito come il primo genocidio del XX secolo». 
Nell'intento del Papa non c'è dunque nessuna strategia politica né alcun attacco all'attuale stato turco. È un invito, semmai, alla purificazione della memoria da entrambe le parti, perché tali tragedie non si ripetano più, come lui stesso afferma: " Fare memoria di quanto accaduto è doveroso non solo per il popolo armeno e per la Chiesa universale, ma per l’intera famiglia umana, perché il monito che viene da questa tragedia ci liberi dal ricadere in simili orrori, che offendono Dio e la dignità umana. Anche oggi, infatti, questi conflitti talvolta degenerano in violenze ingiustificabili, fomentate strumentalizzando le diversità etniche e religiose. Tutti coloro che sono posti a capo delle Nazioni e delle Organizzazioni internazionali sono chiamati ad opporsi a tali crimini con ferma responsabilità, senza cedere ad ambiguità e compromessi. ...
 Dio conceda che si riprenda il cammino di riconciliazione tra il popolo armeno e quello turco, e la pace sorga anche nel Nagorno Karabakh. Si tratta di popoli che, in passato, nonostante contrasti e tensioni, hanno vissuto lunghi periodi di pacifica convivenza, e persino nel turbine delle violenze hanno visto casi di solidarietà e di aiuto reciproco. Solo con questo spirito le nuove generazioni possono aprirsi a un futuro migliore e il sacrificio di molti può diventare seme di giustizia e di pace."
Il problema nasce oggi dal fatto che la Turchia è pronta a riconoscere le singole stragi dei civili armeni fatte, e per questo Erdogan l'anno scorso ha finalmente fatto le condoglianze al popolo armeno, ma non la definizione di genocidio. Qui forse per problemi di politica interna e di equilibri tra partiti in cui i conservatori nazionalisti e islamisti fanno sentire il loro peso. Ma il coraggioso richiamo di Papa Francesco ricorda che solo la verità farà libere due nazioni che un opposto rancore tiene ancora incatenate al passato e che solo un perdono reciproco e una riconciliazione sincera potrà aprire ad un futuro di pace.

lunedì 20 aprile 2015

del nascere...

C’è chi crede alle coincidenze e chi no, c’è chi pensa che le cose accadano per caso e chi invece vi legge il disvelarsi di un progetto divino. Senza cadere in visioni deterministiche, tuttavia penso che il nascere in un giorno piuttosto che in un altro, un qualche significato debba pure averlo. 
Io, ad esempio, sono nato a Scicli, in casa, di Venerdì santo, durante la processione tradizionale, mentre i simulacri dell’Addolorata e del Cristo morto della Chiesa di San Giovanni erano fermi davanti alla mia abitazione: e non credo che questa sia solo una coincidenza. Mi piace infatti credere che le “cifre” della mia storia, personale e sacerdotale, siano già state impresse nella mia vita a partire dal giorno della mia nascita: in tutta umiltà confesso che se non ci fosse il comune denominatore della mia nascita il venerdì santo, non saprei spiegare altrimenti le vicende della mia vita. Anzitutto infatti, nel mio nascere il venerdì santo, leggo la chiamata a condividere nella mia vita la stessa vicenda dolorosa del Servo sofferente che dà la vita per i molti: e questo sia attraverso il ministero sacerdotale, sia attraverso la partecipazione personale all’esperienza della croce, soprattutto della sofferenza spirituale. Non so quello che il Signore mi riserva per il futuro, ma so per certo che sarà inscritto nel mistero della croce e nel mistero dell’iniquità che la croce mette a nudo. Come già successo finora. Il Signore infatti mi ha dato una grazia particolare, quella che spesso la mia azione o la mia presenza riesca a far venire allo scoperto il peccato che si annida nell’animo dell’uomo, nel mio e in quello degli altri, e questo talvolta comporta sofferenza e lacerazioni. Ma è una grazia che si vive appunto nella partecipazione alla croce di Cristo. Chiamato a stare ai piedi della croce di Cristo, ho però avuto la grazia di trovarmi, come il discepolo prediletto, in compagnia della Madre Addolorata: è come se Cristo stesso il giorno della mia nascita mi avesse affidato a Maria. Potrei  dire che la devozione alla Madonna, nella mia vita, è nata con me.
Qualcuno potrebbe chiedersi perché abbia raccontato oggi tutto questo: l’ho fatto perché, se la confessione, per un cristiano, come ci ricorda il grande sant’Agostino, è anzitutto confessione di lode, narrazione delle “gesta di Dio” che si sono sperimentate nella propria vita, anch’io, con queste mie - piccole e povere - confessioni ad alta voce, vorrei dare lode al Signore per le cose grandi che  ha operato in mio favore: non è proprio questo che il grande Agostino ci testimonia appunto nelle sue confessioni ? Non ho la pretesa di paragonarmi al Santo di Ippona, ma vorrei offrire umilmente la mia testimonianza perché anche altri possano essere aiutati a rileggere nella propria storia la presenza di Dio: se nella Bibbia ci viene testimoniato come il Dio che entra nella storia dell’uomo ed è presente nella vicenda esistenziale di questi fin dal suo essere concepito nel grembo della madre, allora già la nascita di un uomo (anche nelle sue modalità di tempo e luogo) porta inscritti i segni della sua  vocazione e della sua missione. Sta a noi poi riuscire a decifrarli.

Dunque il confessarsi è sempre un qualcosa che va al di là del semplice raccontare se stesso o le proprie idee o le proprie vicissitudini , è il mostrare come storia di Dio e storia dell’uomo si intrecciano nell’unica storia della salvezza 
Perché la croce non è mica uno scherzo. Ma il Signore ha voluto aiutarmi: si dice che chi nasce di venerdì sia “senza fiele”, dato che  il venerdì è il memoriale della morte del Cristo (e il fiele del peccato se 'è preso lui) e quindi del perdono per tutti i peccatori, chi nasce il venerdì si dice che non sappia odiare o tenere rancori. E meno male che io sono nato il venerdì santo: altrimenti come fare a perdonare il fratello o il confratello che ti pugnala alle spalle ?   
Ma Pasqua non è solo il venerdì santo: c’è il sabato santo, ed è il giorno del riposo nel sepolcro, del silenzio, della riflessione...
E poi c’è la domenica di Pasqua : il giorno della gioia e del rinnovamento. Anche qui il Signore mi ha voluto bene : mi ha fatto nascere il venerdì santo, ma almeno mi ha fatto nascere in un paese dove la domenica di pasqua “il gioia” della resurrezione si celebra davvero !


domenica 19 aprile 2015

CONTRO LE MISTIFICAZIONI SUL MATRIMONIO E LA FAMIGLIA


E’ inutile negare che sia in atto una grave mistificazione sul concetto di matrimonio e di famiglia. Da più parti infatti si sente affermare che il concetto di matrimonio quale unione tra uomo e donna sia un concetto legato ad una idea peculiare della tradizione ebraico-cristiana e che ci sarebbero poi altre concezioni egualmente rispettabili di matrimonio slegate dalla identità sessuale dei partner. Ma se si guarda, senza lasciarsi fuorviare da alcun pregiudizio, alle varie tipologie socioculturali e religiose, sia a livello diacronico che sincronico, che nei vari luoghi del pianeta hanno dato vita all’istituto matrimoniale, si vede come tutte queste hanno sempre compreso il matrimonio come l’unione sponsale tra l’uomo e la donna. Di fatto sarebbe meglio dunque parlare di famiglia naturale. Nel senso più proprio del termine, cioè parliamo di una definizione di famiglia che non ha niente di sovrastruttura ideologica ma che non fa altro che prendere atto di un dato oggettivo, quello della natura, appunto, in cui il dato originario in cui il rapporto affettivo è intrinsecamente legato alla dimensione biologica (e quindi anche genitale) e antropologica nel suo complesso.
Ed è inutile negare che questa mistificazione parte da certe lobby culturali che vorrebbero slegare la sessualità (nel senso anche della identità genitale corrispondente) e il suo esercizio dalla dimensione antropologica e affettiva. Come dire che chiunque potrebbe scegliere di essere chiunque e di amare (anche sessualmente) chiunque, al di là della identità naturale che lo caratterizza.
Non più maschio e femmina, ma l’interpretazione di ruoli maschili e femminili (e di una variegatissima lista di “gender” diversi) al di là dello stesso essere maschi o femmine.
E’ dunque in atto una rivoluzione, la pretesa di imporre questi nuovi modelli culturali “praeter naturam” se non addirittura “contra naturam” a discapito dei tradizionali modelli antropologici “secundum naturam”.  
E per far ciò si sta concentrando l’attacco sul livello più vulnerabile della società che è quello educativo.
Col tentativo di servirsi delle strutture educative dello Stato, la scuola anzitutto, per far crescere le nuove generazioni secondo questi nuovi convincimenti, dando per assodato come sia più facile “educare” un bambino che “rieducare” un adulto alle nuove teorie.
Ma può davvero uno stato democratico permettere tutto ciò? No, a meno che non si voglia trasformare esso stesso in uno Stato “etico” (che antinomia con la realtà dei fatti!) con la pretesa di imporre una dottrina antropologica particolare, sostituendosi in questo al ruolo originale e primario della educazione dei figli che spetta ai genitori, nel luogo educativo fondamentale che è la famiglia.
In Italia ciò è riconosciuto dalla stessa Costituzione repubblicana, basti pensare ai seguenti articoli:
<<Art. 2 - La Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell'uomo, sia come singolo sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità, e richiede l'adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale.
Art. 29. La Repubblica riconosce i diritti della famiglia come società naturale fondata sul matrimonio. Il matrimonio è ordinato sull’eguaglianza morale e giuridica dei coniugi, con i limiti stabiliti dalla legge a garanzia dell’unità familiare.
Art. 30. È dovere e diritto dei genitori mantenere, istruire ed educare i figli, anche se nati fuori del matrimonio>>.
Ai quali fa eco il conosciutissimo art. 147 del codice civile letto in ogni celebrazione di matrimonio, la cui nuova formulazione è la seguente: 
 <<Il matrimonio impone ad ambedue i coniugi l’obbligo di mantenere, istruire, educare e assistere moralmente i figli, nel rispetto delle loro capacità, inclinazioni naturali e aspirazioni, secondo quanto previsto dall’articolo 315-bis>>.
Ciò presuppone dunque non solo la rinuncia di uno Stato a imporre una sua ideologia educativa (gli Stati che nel ‘900 hanno fatto questo, hanno generato esiti drammatici, dal comunismo al nazismo al fascismo …) e a vigilare perché nessuno, singoli o gruppi, vogliano usare lo Stato per prevaricare sugli altri, generando di fatti una dittatura ideologica e dettando così la fine delle regole del gioco democratico; ma suppone anche di converso, l’impegno dello stesso Stato perché risulti difeso e mantenuto il concetto oggettivo e naturale di matrimonio e famiglia.
Uno stato serio dovrebbe impegnare tutte le sue energie proprio nel riconoscimento del ruolo primario della famiglia e quindi nel riconoscimento del diritto- dovere primario dei genitori circa l’educazione dei figli secondo le loro convinzioni e credenze, compresa la sfera sessuale ed affettiva. E proprio nel rispetto di tale diritto – dovere hanno il diritto di essere coinvolti dalla scuola, e da tutte le agenzie educative nella educazione dei propri figli: il futuro della famiglia si gioca infatti tutto nella capacità di recupero della dimensione educativa con cui i genitori passano ai figli il testimone della vita e la gioia di assumerne la relativa responsabilità senza fughe e timori.
 Il recupero e/o la difesa di un concetto vero e reale di famiglia interessa infatti anche la società civile e la salvaguardia del bene comune, cosa di cui si dovrebbe occupare principalmente uno stato e una classe politica e dirigente seria. Perché anche in uno stato laico (autenticamente e non ideologicamente laico) per il principio di sussidiarietà su cui si fonda la convivenza sociale, la salvaguardia del matrimonio e della famiglia significa la salvaguardia del primo mattone su cui si regge tutta la società.
Anche chi è laico e non credente sa che la salvaguardia della famiglia è la premessa per la salvaguardia di uno stato civile.

In questo senso le famiglie cristiane e le stesse parrocchie e aggregazioni ecclesiali, nell’impegno di una cittadinanza leale e veritiera nella vita democratica dello stato hanno sicuramente un ruolo da svolgere nell’offerta di una proposta educativa umanizzante e non ideologica e rispettosa di ogni identità particolare. 

domenica 5 aprile 2015

SCICLI O LA CITTA’ DEL GIOIA



Solo chi non è sciclitano può pensare che nel nostro titolo ci sia un errore : sì, perché non è della gioia astratta che stiamo parlando, ma dell’appellativo che tradizionalmente viene dato al Cristo Risorto nella nostra città. Oggi è Pasqua e sappiamo tutti cosa questa parola rappresenti per la cristianità, ma sappiamo anche cosa significhi per Scicli. Dire Pasqua a Scicli significa non solo richiamare il Cristo Risorto in generale, ma indicare un simulacro - quello del Cristo Risorto - e la sua esposizione alla venerazione dei fedeli nella notte di Pasqua ( “a risuscita” che non comprendiamo perché non si faccia più durante la veglia pasquale) e soprattutto la sua traslazione nella Chiesa del Carmine nel mezzogiorno della Domenica : un simulacro che, insieme a quello dell’Addolorata, rappresenta nell’immaginario collettivo sciclitano un forte e fondamentale momento di coesione e di rappresentazione di una identità particolare. Non si può essere sciclitani senza sentirsi ribollire il sangue nelle vene alla vista del Cristo Risorto, specie se accompagnata dalle note musicali della marcia di Busacca. Perché la Pasqua a Scicli è tutta sintetizzata in questo simulacro e in quello che è il momento “clou” della festa : cioè l’attimo in cui “il Gioia”  dall’antro buio della Chiesa di Santa Maria La Nova esce balzando fuori trasportato  dall’incontenibile fercolo di mani e braccia nerborute, quasi a rappresentare plasticamente il momento della resurrezione, della vita che non si lascia trattenere dalla morte ! Il resto del giorno e della festa non è che commento, esplicitazione, variazioni su tema e contrappunto di questa esperienza fondamentale che si vorrebbe quasi prolungare all’infinito nel moto perpetuo dei giri in Piazza Busacca e dell’avanti-indietro  per le strade adiacenti per succhiarne fino in fondo forza ed energia per tutto l’anno ! Pasqua è quindi la data che più di ogni altra ha fatto e continua a far fare conti alla rovescia a generazioni di giovani e adolescenti che aspettano con ansia il momento in cui potranno dar prova della loro forza e resistenza alle prese con la “vara” del Cristo Risorto. E’ l’appuntamento atteso da un’intera città che aspetta  questo giorno per far  esplodere  nel suo cuore tutta la voglia di nuovo che si porta dentro.
E’ il giorno in cui la voglia di gioia, pace, serenità che ogni uomo si porta dentro può essere messa fuori e gridata e invocata al di là della stessa consapevolezza che si ha. Ogni anno,  si dice ed è vero, c’è sempre più gente che viene ad assistere a questa celebrazione. Folklore ? Certo, anche. Ma se anche dai paesi vicini vengono in tanti lasciando altre manifestazioni pasquali a loro dire più fredde e compassate, per farsi coinvolgere dalla passione e dall’esuberanza degli sciclitani, crediamo che sia non solo per una nota di colore. Proprio nel momento in cui la “pena di vivere” , come qualcuno ha chiamato il difficile compito di realizzare ogni giorno la sua umanità, sembra frustrare i desideri più intimi e autentici di ogni uomo mortificandone giorno dopo giorno la dignità, crediamo venga quasi spontaneo guardare a Colui che invece viene salutato come l’Uomo Vivo, quasi a dire l’Uomo per eccellenza. “Ecco l’uomo” sembra sentirsi ripetere chi guarda il Gioia. L’Uomo Vivo che è uscito vincitore dalla lotta con la vita e con la morte. E allora ognuno è spinto a non cercare fra i morti colui che è vivo, a non cercare, a non lasciarsi ancorare dal vecchiume di una vita che vuole, che deve continuamente rinascere, risorgere, rinnovarsi. E’ la Pasqua tempo allora in cui - mentre le situazioni politiche, sociali, economiche del mondo intero come delle vicende personali di ognuno vorrebbero indurci nella tentazione della disperazione - siamo invitati ad aprirci alla speranza, anche contro ogni speranza : e questo è quello che ci testimonia il Cristo Risorto. Oggi più che mai l’uomo ha bisogno di modelli di umanità vera : per questo l’Uomo Vivo ha la capacità di riproporsi ogni anno come “l’uomo riuscito” a cui ognuno può guardare con speranza. E solo questa speranza può essere fonte di gioia : perché la gioia non ha prezzo e non si acquista e non consiste nelle frivolezze del mondo, è il frutto di un incontro con qualcuno capace di aprirti il cuore e aiutarti a rileggere la tua storia, in positivo, nel segno della speranza appunto, come fece il Risorto con i due discepoli di Emmaus. Perciò a Scicli il Risorto è Il Gioia : mai appellativo fu più azzeccato ! E a Scicli ogni anno abbiamo la ventura di rivivere questo “dramma sacro” in cui tutto il popolo è protagonista, in cui - superata la distanza di spazio e di tempo - siamo riportati a quell’evento che duemila anni fa ha sconvolto la storia : di chi crede come di chi non crede ! Scicli come Gerusalemme (non l’aveva intuito già forse Vittorini ?) : Gerusalemme, città della pace, Scicli città del Gioia : non sembri un accostamento azzardato ! Vuole essere solo un augurio : di pace e di gioia, oggi più che mai per Scicli e gli sciclitani e per quanti vengono a condividere la Pasqua con noi, ma insieme e - oggi più che mai ce n’è di bisogno - per tutto il mondo. Buona pasqua !
   

IO ACCUSO…

Tra epidemia e calura estiva è passato sotto silenzio un importante responso della Congregazione della Dottrina della fede e approvato in pr...