giovedì 20 luglio 2017

Grazie dei caffè: ovverossia del prete e dell'amicizia

Un mio amico mi ha riportato il commento di un conoscente che, tra le altre cose, credeva di aver scoperto il perché il bilancio dello Stato italiano è in deficit: “troppi preti in Italia: non solo non fanno niente per tutta la vita e poi pretendono pure la pensione! Qual è la loro utilità? Nessuna! E lo stato li deve pure pagare!”
Premesso che non è lo Stato che ci paga e che non toglie di tasca un centesimo ai cittadini, perché i miei 727 Euro mensili sono il frutto della generosità dei fedeli che firmano la devoluzione dell’otto per mille delle loro  tasse alla Chiesa Cattolica, e che per la misera pensione, che spero di arrivare a ricevere anch’io, il Fondo clero, che ci paghiamo direttamente noi preti, non prende niente a nessuno, la domanda sulla utilità dei preti non è da prendere sottogamba. Sia perché è indice di una mentalità ignorante, se non distorta, in materia: a Zappulla, ad esempio, una lettera anonima (il che è tutto dire) mi rimproverava che dopo anni di parroco ancora non avessi  fatto niente per la contrada e cioè non mi ero battuto per l’illuminazione delle strade, o per la piazzetta da asfaltare o per la sezione scolastica che volevano chiudere né mi ero schierato in occasione delle quote latte o della sede della discarica. Stranamente però si taceva dell’amministrazione dei sacramenti! Non è la prima volta che scrivo di questo argomento perché mi convinco sempre di più che la gente (e passi chi di fede non ne vuol sapere ma è scandaloso per la gente che si reputa di Chiesa e frequenta le nostre sacrestie) ha del prete una visione secolare, mondana e spesso opportunistica, ma non guarda al prete certo come Cristo lo ha voluto e come il Magistero della Chiesa insegna.  Purtroppo la mentalità attivistica è entrata anche in ambito ecclesiale per cui siamo spesso anche noi preti ad insinuare quell’idea che il prete è ciò che fa. Ma un  prete anzitutto vale per ciò che è. Confesso che il passare del tempo mi ha confermato ancora di più in questa idea. La domanda giusta non è cosa fa o a che serve un prete, ma sul suo essere. E il prete è l’Eucaristia che celebra. Non è qui il luogo di discettazioni teologiche in proposito, ma il senso del ministero sta tutto qui. Il prete è tutto in quella sua vita donata. In Cristo e come Cristo: “non c’è amore più grande di chi da la vita per i propri amici”. Sono stato nella chiesa di Sant’Ignazio a Praga, dove un curvo gesuita ottantenne, sostenuto dal sacrista, ha cantato in latino tutta la Messa e poi ha fatto la predica in ceco. Non ho capito una parola di quell’omelia, ma ne sono uscito edificato più di tante altre logorroiche esternazioni  fatte in casa nostra: da quegli occhi che si posavano sulla pagina evangelica e ne traevano sorridente ispirazione traspariva come   quella Messa era il canto d’amore di quel prete per il suo Dio e per i suoi fratelli a cui provava a comunicare quest’amore. Cosa avrà potuto fare negli anni dell’oppressione comunista questo povero prete? Niente! Ma è stato là a testimoniare la gratuità di una grazia che salva. E’ stato la testimonianza di un’amicizia. Perché è questo che Dio vuole: farsi amico, farci amici. E’ ciò che provo ad essere anch’io: amico, nonostante i miei limiti. Perché so che la via dell’amicizia (ma quella vera, non quella contrabbandata come tale ma che puzza di falso lontano un miglio) è la via maestra della testimonianza di fede: “vi ho chiamato amici” ci dice Gesù ed è quanto vorrei provare a ripetere a tutti quelli che mi è  dato di incontrare sulla mia strada. Per questo il peccato più grande per me è il tradimento di un’amicizia, in qualunque modo sia fatto. E confesso che la mia sofferenza più grande è il veder rifiutata la mano tesa in amicizia. Ho ricevuto dai miei genitori il grande dono del non saper tenere nessun rancore verso chi mi ha fatto del male e da loro ho appreso la grande lezione sull’amicizia: “meglio cento amici in piazza che cento onze in cassa”. Un mio altro vecchio amico venuto per le vacanze se ne è andato senza potermi offrire un caffè: in ogni bar dove entravamo c’era sempre qualcuno già pronto a farlo. Me lo ha fatto notare, dicendo che al Nord sarebbe impensabile! Ho risposto di esserne consapevole: sono anni che provo anch’io ma non c’è verso di pagare un caffè! E a volte provo un senso di timore e magari non entro nel bar o ci vado di nascosto! Però poi ringrazio il Signore e accetto il caffè non come atto di semplice cortesia ma come un vero e proprio gesto di amicizia. E prego di poter essere sempre segno di amicizia. Tanto ormai i miei parrocchiani e le brave suore ci sono abituati: sanno che i miei ritardi sono sempre dovuti  a quanti incontro lungo il  cammino e a cui credo sia giusto fare un cenno di saluto (“u salutu u lassau u Signori” mi ripetevano i miei e camminare con loro era sempre fare una via “a stazioni”), scambiare con loro qualche parola, ascoltare senza fretta quanto ti vogliono dire. Fosse per me, farei meno incontri e convegni e dibattiti e più chiacchierate con gli amici. Non è forse questo lo stile di Gesù di Nazareth a cui noi facciamo  fatica a ritornare?
Questa mia confessione ad alta voce vuole essere allora anche un grazie a tutti gli amici e compagni di strada e di piazza! Per tutti i caffè offerti e i passaggi con la macchina (ormai tutti sanno che sono uno dei due preti della diocesi di Noto che non ha patente) e anche per i semplici sorrisi e il saluto amichevole con cui sono sempre accolto quando ci incontriamo e le cortesie di cui spesso sono oggetto immeritatamente. Mi piace pensare che questi gesti provengano da una seppur a volte quasi inconsapevole consapevolezza (!) che l’essere del prete e quindi anche il rapporto con il prete si giochi tutto nella dimensione dell’amicizia. E di questo sono grato a voi e al Signore. Vi assicuro che tutti siete presenti nelle mie Messe più di quanto possiate immaginare. E’ il mio modo di ricambiare, per i miei fratelli e i miei amici “alzerò il calice della salvezza e invocherò il nome del Signore”

E’ vero: il prete non lavora ed economicamente non rende. Non è utile. Come utilitaristicamente non è utile la grazia o la fede. C’è un libro a proposito dal titolo “La necessità dell’inutile”. Paradossalmente anche l’inutilità di Dio e della fede e della grazia a volte ci possono essere necessarie più del pane: perché “non di solo pane vive l’uomo”! L’inutilità della vita di un prete esprime, credo, questa paradossalità. E’ la lezione della gratuità, quanto può essere bello e gratuito un  caffè offerto in amicizia!

venerdì 14 luglio 2017

Insegnare agli ignoranti

Siamo in tempi in cui l’ignoranza circa le realtà religiose, specie anche da parte dei cristiani, e comunque circa eventi di storia che lo si voglia o meno fanno parte de facto del nostro patrimonio culturale, si sta travasando dalla sfera privata ( dove non farebbe che il danno di un impoverimento culturale del soggetto) alla sfera pubblica (dove invece i danni che gli ignoranti continuano a fare sono sempre più gravi). E specie poi quando più che mera assenza di nozioni, è, oserei dire quasi, ignoranza colpevole e ricercata da parte di chi per ruolo e mestiere dovrebbe sapere e invece non sa (e se non si sa c’è l’obbligo dell’aggiornamento e dello studio!) e piuttosto che riconoscere la propria ignoranza, dall’alto della sua prosopopea “detta legge” come si suol dire e impone scelte di un controsenso evidentissimo a chi abbia un minimo di ragionevolezza e, soprattutto, onesta intellettuale! “Ignorantia docet” sottolineava un mio caro insegnante di teologia quando qualcuno (fosse anche un rettore di università!) invece che riconoscere umilmente la propria mancanza di conoscenza circa una materia, saliva ancora più in alto sulla cattedra a pontificare su cose sconosciute! E da lui ho appreso che spesso il più grande gesto di carità è appunto far rilevare all’altro la sua ignoranza, perché ne diventi consapevole e ne voglia uscire: Insegnare agli ignoranti non è forse una delle sette opere di misericordia spirituale? E oggi, per rimanere nel mio campo (ma ho la sensazione che anche in altri campi la situazione non sia rosea),  c’è una grande ignoranza del fatto religioso sia da parte del mondo laico (quanti strafalcioni in giornali e televisioni anche da parte di firme illustri!) sia (il che è tragico) da parte del mondo cristiano-cattolico. E a volte ho il grande dubbio che i laici siano ignoranti perché neanche noi cattolici conosciamo e facciamo conoscere bene in cosa veramente noi crediamo, in cosa speriamo, cosa amiamo! Altre volte mi sono riferito all’ignoranza circa le Scritture sacre (e San Girolamo ricordava che ignorare le Scritture è ignorare Cristo) ma adesso purtroppo devo rincarare la dose riguardo agli altri aspetti della fede cristiana: quanta ignoranza circa la dottrina in campo sociale o morale! Chi sa quali sono veramente i fondamenti della dottrina sociale della Chiesa o della vera morale ad esempio nei settori legati alla sessualità, all’affettività, ai nuovi problemi della bioetica o delle biotecnologie? A volte neanche alcuni sacerdoti in verità lo sanno: tanti problemi sono nuovi, ma proprio questo significa che anche dopo essere usciti dal Seminario si deve continuare a studiare! Quando si celebrava in latino si celiava dicendo che il prete novello alla prima Messa cominciasse dicendo Introibo ad altare Dei: vi saluto libri miei!  Ma questo è un lusso che oggi non ci si può più permettere a meno che non si voglia ridurre il proprio ministero alla direzione di alcune pie pratiche buone forse per altri tempi ma che adesso non aiutano a comprendere criticamente la complessità del mondo e quindi anche il ruolo della Chiesa.  Don Giussani ha detto che se a volte è il mondo ad abbandonare la Chiesa è dolorosamente vero che spesso è la Chiesa che abbandona il mondo: nonostante l’alto magistero di Giovanni Paolo II ho oggi veramente l’impressione che tra Chiesa e mondo lo scollamento sia più che mai evidente e tragico! Papa Giovanni XXIII volle il Concilio Vaticano II per aggiornare la Chiesa, cioè proprio letteralmente per riportarla al passo con l’oggi: purtroppo a tutti i livelli debbo confessare con amarezza che è sempre più facile rifugiarsi nel già fatto e già visto che certo da più sicurezza (“se si è sempre fatto così perché cambiare?” si chiede) piuttosto che aprirsi a ricercare vie nuove al soffio dello Spirito! Lo sperimento a volte nel piccolo quando, tentando di far uscire il mio sparuto gregge da un ghetto isolato e isolante, mi sento chiedere “ma lei dove li apprende queste cose? Dove li trova? Perché gli altri nelle altre chiese non le dicono? Perché celebra a volte in modo diverso?” Senza farmi giudice di nessuno purtroppo però debbo rispondere che le apprendo nel più normale dei modi: giornali, televisione (cum grano salis), riviste specializzate e, per le celebrazioni, niente altro che le rubriche del Messale e dei Rituali (se solo si avesse la pazienza di leggerle e studiarle e non solo la fantasia esuberante per stravolgerle!). Così ogni volta debbo tranquillizzare i miei parrocchiani che non siamo noi a sbagliare ad esempio le alzate e le sedute durante la Messa ma che forse in qualche altra parrocchia non si sono ancora accorti che la Editio Typica Tertia  del Messale Romano è stata promulgata dal Papa nel 2003! Ma il ritardo di poco più di quattordici anni cosa volete che sia davanti agli altri ritardi del mondo ecclesiale? Qualcuno si chiederà come un prete possa affermare ciò, ma se volete è un mio modo per augurare alla Chiesa, alla mia Chiesa che amo più di qualsiasi altra cosa al mondo, che ritorni alla sua vera essenza nello stare nel mondo.  E spero che sia un augurio condiviso anche da chi credente non è: perché se la Chiesa fa bene il suo dovere certo il mondo ne risentirà in meglio! Credetemi!          

IO ACCUSO…

Tra epidemia e calura estiva è passato sotto silenzio un importante responso della Congregazione della Dottrina della fede e approvato in pr...