giovedì 31 dicembre 2015

anno nuovo vita nuova

Nel tempo che scorre l’uomo può attingere all’eternità di Dio e dalla sua bontà, sperimentata attraverso le cose buone che ha creato, arrivare alla benevolenza verso l’altro. D’altronde la parola “anno” in ebraico ha la stessa radice del numero due, inteso come dualità e ripetizione: è la ripetizione ciclica del tempo che però lungi dal far ripiegare l’uomo su se stesso lo invita sempre ad aprirsi all’altro: il due infatti è il Bet, la casa che ha sempre la porta aperta perché si deve essere pronti ad accogliere gli ospiti e ad uscire per soccorrere i bisognosi. L’anno che ritorna è perciò la possibilità sempre riofferta dell’inizio di una vita nuova. Al di là delle alchimie sulle parole e sui numeri credo però sia importante scoprire allora il vecchio detto “anno nuovo, vita nuova”. Credo infatti che - se inteso nel giusto modo - parlare di buoni propositi e di buone intenzioni non sia all’inizio dell’anno nuovo un gesto “spropositato”. Non perché all’inizio dell’anno nuovo abbiamo bisogno di oroscopi rassicuranti e di debiti scongiuri per esorcizzare la paura del nuovo, del futuro che vogliamo migliore (ma in cosa poi ?) a tutti i costi ! In questo senso anche fare e scambiare auguri sarebbe ancora un rito pagano! Non perché sia poco educato parlare di bontà ed essere buoni per capodanno, né perché “porti sfiga”, come vulgariter si dice, comportarsi altrimenti (e allora meglio premunirsi con i talismani d’occasione, mutande rosse in prima fila !).
Ma perché credo che l’uomo, ogni uomo, debba a se stesso la possibilità di una sempre ulteriore “chance”: non c’è fallimento da cui non si possa uscire, sconfitta da cui non ci si possa risollevare... e non per concessione di altri ma per il rispetto estremo che dobbiamo a noi stessi, e alla dignità e al valore della vita di cui siamo portatori e che per primi siamo chiamati a rispettare. L’uomo è un animale “simbolico”: ha bisogno di simboli per comunicare il proprio intimo e di eventi simbolici che lo stimolino a esprimersi per quello che è. L’inizio del nuovo anno ha appunto questa valenza simbolica: della nuova opportunità di vita che l’uomo da a se stesso e, per chi crede, che Dio prima ancora concede ad ognuno. Di ricominciare : non importa se da zero o da tre o da quattro : l’importante è ricominciare. Ecco perché penso che questa sia un’occasione da non banalizzare : ben vengano feste e brindisi, ma non tanto per scordarci il passato quanto per aprirci positivamente al futuro. E’ bello, per me credente, pensare all’inizio del nuovo anno ad un Dio che ti dice “non preoccuparti del passato : ecco ti è concessa una nuova occasione per fare quello che non hai fatto, per riparare quello che hai fatto male, per costruire qualcosa di nuovo”. Ma credo che sia bello per tutti, anche per chi non crede, sentire che all’inizio del nuovo anno ti venga data dall’Altro (e perciò dagli altri) un supplemento di fiducia. Mi ha fatto sempre impressione quella parabola in cui al contadino che vuole subito tagliare l’albero che non ha dato frutti il Signore del campo risponde : “no, lascialo ancora per un altro anno”. Ecco il punto : abbiamo bisogno di dare e ricevere fiducia. E forse l’inizio del nuovo anno è l’occasione per dirci scambievolmente “io ho fiducia in te” ! E forse le cose nel nuovo anno così andranno meglio ! Ingenuità la mia ? certamente ! Utopia, sogni ? certamente ? Dice però Leonardo Boff: “soltanto l’essere umano sogna nel sonno e nella veglia mondi nuovi, dove esistono rapporti più fraterni e un nuovo cielo e una nuova terra: le utopie non sono meccanismi di fuga facile dalle contraddizioni del presente. Esse appartengono alla stessa realtà dell’uomo come essere che continuamente progetta, disegna il futuro, vive di promesse e si alimenta di speranza. Sono le utopie che impediscono all’assurdo di impadronirsi della storia...”. Perché non sognare allora, all’inizio del nuovo anno, un mondo nuovo ? Perché non sognare con Paolo VI che volle proprio il 1° gennaio di ogni anno la celebrazione della giornata della Pace, proprio per pensare all’inizio del nuovo anno a quella civiltà dell’amore che tutti sogniamo ? L’Utopia, “l’isola-che-non-c’è”, la raggiunge solo chi ha il coraggio dell’avventura :  “Ti piacerebbe correre un’avventura?” Così Peter Pan domanda a Wendy, quell’eterno bambino che non sa resistere alle avventure! La unicità e la irripetibilità delle persone e delle situazioni, le incognite della storia, il mistero dell’uomo e quello ancora più insondabile di Dio -tutte cose che ci fanno scontrare con l’inutilità delle ricette e delle formule precostituite - sono tutte cose queste che ci spingono all’inizio del nuovo anno verso l’avventura (letteralmente appunto ad-ventura: verso le cose che stanno per venire)! E a Wendy che non sa volare, Peter Pan svela il segreto: per saper volare bisogna pensare cose stupende! E la cose stupenda è la bontà di cui ognuno è portatore per sé e per gli altri : e la bontà sa non solo sognare ma anche fare cose stupende ! BUON ANNO a tutti dunque verso l’isola-che-non-c’è, e non dimenticate l’indirizzo: “seconda strada a destra e poi diritto fino al mattino”!!!

sabato 26 dicembre 2015

Laicità o anticlericalismo?

L’Italia è il paese delle dietrologie (“chissà quali progetti politici ci stanno sotto - qualcuno si chiede, ad esempio, non appena i cattolici scendono in piazza, o – forse la ricostituzione del partito cattolico? Quanti voti stanno raccogliendo per le prossime elezioni?” ), è la nazione in cui non si riesce assolutamente ad uscire dal “particolare” e a pensare un po’ più in grande e al di là dei propri interessi , è la patria di un preteso laicismo che in realtà è solo sinonimo di anticlericalismo! Certe espressioni e certe prese di posizione ricordano l’atteggiamento massone e liberale che si respirava al tempo dell’unità d’Italia. In Italia la Chiesa fa comodo solo quando si allinea sulle posizioni degli altri “illuminati”, se invece si azzarda a rimanere fedele al suo mandato e canta “fuori dal coro” allora non ha più diritto di parola! Bella libertà e democrazia! Un esempio: in qualsiasi libreria della laica Francia si possono trovare Bibbie e le pubblicazioni delle editrici cattoliche; in Italia questo non avviene nemmeno per sogno: noi cattolici abbiamo dovuto creare le librerie “cattoliche” per poter vendere i nostri libri ( con le conseguenze economiche che si possono immaginare). Allora di quale laicità si parla? Di quale valori dell’Illuminismo cui molti si richiamano si discute? Peccato: spesso in tante situazioni si perde l’occasione di fare silenzio e, meglio ancora, di dare mostra di non essere schiavo dei propri pregiudizi. Perché si sbaglia sempre la domanda di fondo: non è detto che si debba essere  necessariamente “contro” qualcuno! Lo ha ribadito lo stesso Papa Giovanni Paolo II nella sua ultima giornata dei giovani a Roma, quando ha ricordato ai giovani che il secolo uscente ha visto tante altre adunate oceaniche: chiamati a raccolta per essere mandati contro qualcuno, seminando odi e rancori. Stavolta – ha detto il Papa – non è così: voi non siete mandati contro qualcuno, voi siete mandati “per” qualcuno, per il fratello, ogni fratello, che voi incontrerete sul vostro cammino, per creare un mondo di fraternità, una civiltà dell’amore. Il fuoco da accendere è ben diverso da quello dei nazionalismi, da ogni particolarismo che inevitabilmente sfocia in conflitti e guerre, è il fuoco dell’amore: citando Caterina da Siena (e chi può negare alla mistica la sua “passione civile”?) il Papa ha detto ai giovani “se avrete il coraggio di essere quello che dovete essere, brucerete il mondo”! Perché chi parla di libertà, fraternità e uguaglianza invece non è contento di questo?


sabato 19 dicembre 2015

La cavalcata di san Giuseppe: parliamone prima con calma. Ecco cosa scrivevo nel 2000. Cosa rimane e cosa è cambiato?

Confesso di essere stato il primo  a stupirmi del dibattito animato intorno alla Calvalcata. E non per il solito rumore che si fa intorno a questo evento, a volte attento solo a note marginali o negative, quanto invece per la positività con cui - a mio parere - una collettività intera si è interrogata in fondo sulle proprie origini e sulle proprie tradizioni. Che nei crocicchi delle strade, nei bar, nei circoli, nei servizi televisivi  si parli di cavalli e bardature, ci si interroghi se bisogna rimanere fermi al modo tradizionale di cucire ‘u balucu’ nei ‘manti’ o se bisogna aprirsi a nuove tecniche, se conta di più il cavallo o il manto, se la cavalcata è ‘un’infiorata su cavalli’ o se basta un mazzo di fiori e un filare di campane per bardare un cavallo, che ci si interroghi se è giusta una premiazione o no e in che termini vada concepita... io credo che sia altamente positivo. Perché al di là delle discussioni più o meno animate e delle conclusioni alle quali si approda,  credo che il confrontarsi su un qualcosa che viene sentito come un patrimonio comune da conservare, da tenere vivo, da tramandare alle nuove generazioni  non possa che fare bene ad una città che, come qualsiasi collettività, se non vuole perdere la propria identità, se vuole guardare in modo serio al futuro, non può prescindere dalla propria storia e alla propria cultura. Spesso purtroppo ci si ferma alle banalità quotidiane, tirando quasi a campare da un giorno all’altro, senza avere il coraggio di confrontarsi né con il proprio passato né di proiettarsi con intelligenza verso il futuro. Come pure spesso chi potrebbe avere un ruolo determinante in questo progetto di recupero della memoria e della cultura della nostra cittadina si fa distrarre da motivi forse più alla moda o che solleticano di più il gusto di qualche elité piuttosto che aiutare un ripensamento serio sulle proprie radici. E’ facile sparare a zero su certe manifestazioni come obsolete, come è facile ridurre tutto a puro folklore e attrazione turistica : ma il contatto con tante persone che in occasione della Cavalcata e della festa di San Giuseppe ha voluto condividere con me la propria idea, magari raccontandomi qualche aneddoto in proposito, mi ha dato modo di vedere come ancora nonostante tutto non solo resistono tradizioni, ma resiste quella bontà, quella genuinità di fondo che  fanno di una tradizione una ‘sana’ tradizione ! E sono le sane tradizioni che a volte ci aiutano a trovare o ritrovare il gusto della vita. Quando  si vedono i volti di tutti, sia dopo la Cavalcata come dopo tutta la festa - ma il pensiero corre parallelo alla festa del Cristo Risorto per cui si potrebbe ripetere pari pari quanto stiamo dicendo a proposito di Cavalcata - ritornare sereni a casa, quasi soddisfatti per aver fatto una cosa che proprio così andava fatta, allora uno comprende come abbia ragione quel grande studioso di religiosità naturale che fu Mircea Eliade, nel definire queste esperienze come quelle - e solo quelle - capaci di far aprire il profano al sacro e dal sacro dare senso al profano e alla quotidianità dei giorni, la cui monotonia deve essere rotta dall’esperienza della festa, l’unica capace di sublimare il dolore dell’uomo. Perché la festa è importante e fondamentale anzitutto per chi la celebra, per chi ne è protagonista, per chi vi si lascia coinvolgere. E non per gli spettatori o i turisti. Perché questi vedono solo l’esterno, il folklore, la curiosità, ma poi se ne vanno. La festa è di chi fa festa ! La gioia è di chi fa la Cavalcata o di chi si ‘carica’ il Cristo Risorto : anche se non ci fosse un solo spettatore o un solo turista. Per questo credo che non bisogna indulgere a nessuna tentazione che vuol far diventare la Cavalcata o la festa dell’Uomo Vivo uno spettacolo da osservare o un evento compreso in un pacchetto prepagato per agenzie turistiche. L’evento culturale - e che qui si fonde col religioso - è ben altro. Altrimenti trasformeremo le nostre feste in eventi freddi come purtroppo avviene da alcuni anni ad esempio a Modica per la ‘Madonna vasa vasa’ in cui la gente assiste passivamente ad una rappresentazione portata avanti da alcuni operatori pagati dal Comune, o per le altre feste in cui i parroci devono pagare i portatori dei fercoli delle statue ! Oppure arriveremo a organizzare Cavalcata e Pasqua ad agosto per avere più turisti !  Qualcuno mi dirà magari che mi sono fissato a ripetere sempre le solite cose : è vero, ma è perché ci credo profondamente. Perché penso che sia questo mio compito, anche come prete. Perché tutta l’esperienza di fede biblica si basa su una categoria : quella del memoriale : l’uomo che non ricorda, l’uomo che non ha memoria, l’uomo che non coltiva la memoria attraverso la tradizione, cioè la trasmissione della memoria di padre in figlio, è un uomo morto. No, anzi, non è mai esistito ! E confesso che la cosa mi preoccupa ! 

giovedì 17 dicembre 2015

Omelia apertura porta giubilare a Scicli

<<La fede è la religione dei peccatori che cominciano a purificare se stessi per Dio>>
Così scrive il Beato cardinale Newman in una sua riflessione sul vangelo e la fede.
E’, a mio parere, una definizione che va al cuore della nostra esperienza di fede e che è anche in grado di illuminare non solo il rito dell’apertura della porta santa, ma lo stesso anno giubilare che il santo Padre ha voluto con decisione, nel voler reindirizzare tutto il cammino della Chiesa verso l’incontro di grazia e di misericordia con Dio Padre, per mezzo del Cristo suo Figlio, nella forza dello Spirito santo.

Religione di peccatori: così afferma Newman.
La nostra è una storia di peccato.
<<Un tempo non era così; l’uomo fu creato giusto, e allora vedeva Dio; cadde, e perse l’immagine e la presenza di Dio. Come potrà riacquistare il suo privilegio? … Egli lo perse col peccato; lo deve quindi riguadagnare con la purezza …>>
così scrive ancora il Cardinale Newman.
La fede cristiana niente altro è che lo scoprirsi peccatori e sentirsi orfani di Dio, scoprire ciò che il peccato ha provocato: la rottura della relazione e di comunione tra l’anima e colui che l’ha fatta.
A causa del peccato noi possiamo parlare alle sue creature, ma non possiamo parlare con lui.
La fede cristiana nasce dunque come consapevolezza di un ritorno, di un reindirizzamento della propria esistenza  verso il Dio Creatore e Signore di ogni cosa, come ci ha ammonito oggi Isaia:
Poiché così dice il Signore,
che ha creato i cieli,
egli, il Dio che ha plasmato
e fatto la terra e l’ha resa stabile,
non l’ha creata vuota,
ma l’ha plasmata perché fosse abitata:
«Io sono il Signore, non ce n’è altri.
Volgetevi a me e sarete salvi,
voi tutti confini della terra,
perché io sono Dio, non ce n’è altri.

Ma se la fede cristiana è esperienza del peccato, è ancor di più esperienza di perdono e di salvezza:
fede è religione di salvati
il peccatore, se lo vuole, può sperimentare che il Creatore è anche il Salvatore, colui che libera e riscatta dal peccato e dalla colpa. Il Dio giusto è colui che giustifica, cioè colui che giudica il peccato e salva il peccatore, come ancora ci ha ricordato Isaia:
Lo giuro su me stesso,
dalla mia bocca esce la giustizia,
una parola che non torna indietro:
Si dirà: «Solo nel Signore
si trovano giustizia e potenza!».
Dal Signore otterrà giustizia e gloria
tutta la stirpe d’Israele.

Ma come salva il Signore? Come giudica? Come rimette i peccati e le colpe?
<<Sia benedetto Dio e Padre del Signore nostro Gesù Cristo; nella sua grande misericordia egli ci ha rigenerati, mediante la risurrezione di Gesù Cristo dai morti, per una speranza viva, per una eredità che non si corrompe, non si macchia e non marcisce. >>  così inizia la prima lettera di Pietro.
La fede cristiana dunque si caratterizza proprio in questo suo specifico: essere l’esperienza di chi sa che la salvezza ci è donata da Dio per mezzo di Cristo suo Figlio.

Noi crediamo che, sì, davvero, hanno stillato, i cieli, dall’alto
e le nubi hanno fatto piovere la giustizia;

che, sì, davvero si è aperta la terra e ha prodotto la salvezza
ed è germogliata insieme la giustizia.

Sì, il Signore, ha creato tutto questo.

Verità germoglierà dalla terra:
Cristo, il Germoglio;

giustizia si affaccerà dal cielo: Cristo, il Frutto;

Amore e verità s’incontreranno, giustizia e pace si baceranno.
In Cristo giustizia e pace.
Cristo, il Giusto. L’unico Giusto.
Cristo il salvatore, come cantano gli angeli a Betlem:
«Non temete, ecco vi annunzio una grande gioia, che sarà di tutto il popolo: oggi vi è nato nella città di Davide un salvatore, che è il Cristo Signore.

Si, oggi noi non abbiamo più bisogno di aspettare altri salvatori:
«Sei tu colui che deve venire o dobbiamo aspettare un altro?».

Noi confessiamo il Cristo come il veniente: colui che è venuto, verrà e sempre viene a salvare.

Alla gente smarrita, oggi come ieri, in cerca di salvatori e salvezze, noi diamo il lieto annuncio, noi evangelizziamo la venuta del Salvatore e l’inaugurazione dell’anno di grazia del Signore:
«Andate e riferite a Giovanni ciò che avete visto e udito: i ciechi riacquistano la vista, gli zoppi camminano, i lebbrosi sono purificati, i sordi odono, i morti risuscitano, ai poveri è annunciata la buona notizia. E beato è colui che non trova in me motivo di scandalo!». 

Il solo Salvatore.
Lo annuncerà in modo franco San Pietro, il giorno di Pentecoste, a Gerusalemme:
<<In nessun altro c'è salvezza; non vi è infatti altro nome dato agli uomini sotto il cielo nel quale è stabilito che possiamo essere salvati».

E questa salvezza è dono gratuito, grazia:
<<Ma Dio, ricco di misericordia, per il grande amore con il quale ci ha amati, da morti che eravamo per i peccati, ci ha fatti rivivere con Cristo: per grazia infatti siete stati salvati>> così ricorda Paolo agli Efesini.

E’ Cristo, infatti la giustizia di Dio
Scrive papa Benedetto in un suo messaggio quaresimale: <<L’annuncio cristiano risponde positivamente alla sete di giustizia dell’uomo, come afferma l’apostolo Paolo nella Lettera ai Romani: “Ora invece, … si è manifestata la giustizia di Dio... per mezzo della fede in Gesù Cristo, per tutti quelli che credono. Infatti non c’è differenza, perché tutti hanno peccato e sono privi della gloria di Dio, ma sono giustificati gratuitamente per la sua grazia, per mezzo della redenzione che è in Cristo Gesù. E’ lui che Dio ha stabilito apertamente come strumento di espiazione, per mezzo della fede, nel suo sangue” (3,21-25).
Quale è dunque la giustizia di Cristo? E’ anzitutto la giustizia che viene dalla grazia, dove non è l’uomo che ripara, guarisce se stesso e gli altri. Il fatto che l’“espiazione” avvenga nel “sangue” di Gesù significa che non sono i sacrifici dell’uomo a liberarlo dal peso delle colpe, ma il gesto dell’amore di Dio che si apre fino all’estremo, fino a far passare in sé “la maledizione” che spetta all’uomo, per trasmettergli in cambio la “benedizione” che spetta a Dio (cfr Gal 3,13-14).
In realtà, qui si dischiude la giustizia divina, profondamente diversa da quella umana. Dio ha pagato per noi nel suo Figlio il prezzo del riscatto, un prezzo davvero esorbitante>>.
Ma se l’uomo è stato giustificato in Cristo, quale è questo cammino di purificazione che l’uomo deve compiere, di cui parla il Cardinale Newman?
Non sono opere frutto di volontarismo umano e protagonismo narcisista, quanto invece un aprirsi alla grazia della salvezza attraverso la conversione e il coinvolgimento nella stessa opera salvifica della croce attraverso i sacramenti.
Ecco allora il senso del Giubileo:
anzitutto un cammino di conversione: esso mette in evidenza che l’uomo non è un essere autarchico, ma ha bisogno di un Altro per essere pienamente se stesso. Convertirsi a Cristo, credere al Vangelo, significa in fondo proprio questo: uscire dall’illusione dell’autosufficienza per scoprire e accettare la propria indigenza - indigenza degli altri e di Dio, esigenza del suo perdono e della sua amicizia.
E poi un modo, attraverso le indulgenze e le opere penitenziali, un modo per immergersi nella grande ricchezza della giustizia divina, con umiltà:
giacché - aggiunge ancora papa Benedetto - <<occorre umiltà per accettare di aver bisogno che un Altro mi liberi del “mio”, per darmi gratuitamente il “suo”. Ciò avviene particolarmente nei sacramenti della Penitenza e dell’Eucaristia. Grazie all’azione di Cristo, noi possiamo entrare nella giustizia “più grande”, che è quella dell’amore (cfr Rm 13,8-10), la giustizia di chi si sente in ogni caso sempre più debitore che creditore, perché ha ricevuto più di quanto si possa aspettare>>.
Solo da questa esperienza della giustizia più grande, dell’amore, che poi si riesce a comprendere il dono di se stessi, nell’amore del Cristo, ai fratelli e al prossimo.
<<Non c’è amore più grande che dare la vita per i fratelli>>.
Senza questo orizzonte di fede le stesse opere di misericordia e gli atti di carità che siamo chiamati a porre come segno della vita nuova in Cristo, si riducono a meri gesti di filantropia.
Accogliamo dunque oggi l’appello alla conversione che ci viene da Dio tramite la Chiesa:
Ascolterò che cosa dice Dio, il Signore:
egli annuncia la pace.
Sì, la sua salvezza è vicina a chi lo teme,
perché la sua gloria abiti la nostra terra.

Cari fratelli e care sorelle,
quest’anno santo celebreremo in modo speciale la giustizia divina, che è pienezza di carità, di dono, di salvezza. Che questo tempo giubilare sia per ognuno di noi tempo di autentica conversione e d’intensa conoscenza del mistero di Cristo, venuto a compiere ogni giustizia e a rivelare il cuore misericordioso del Padre.
A lui sia gloria nei secoli dei secoli. Amen.


mercoledì 16 dicembre 2015

L'asino, il bue... e la nuova creazione

Alluvioni e disboscamento, sconvolgimenti climatici … C’è di che parlare, anzi se parla già molto. Forse troppo. E come al solito tanti parlano per tirare le ragioni dalla propria parte. Io direi che anzitutto c’è di che pensare. Perché molti riducono il tutto ad un problema “tecnico”: quasi fosse solo un problema di migliore organizzazione, di protocolli di comportamento da definire. E con buona pace di tutti – per me - non è nemmeno politico ( se non per qualche suo aspetto). Prima ancora io direi che è un problema culturale e – per chi crede – un problema teologico. Ma non in senso riduttivo (come una lettura fondamentalista della Bibbia potrebbe indurre a credere) , falsamente apocalittico, per cui la rovina del creato sarebbe l’indizio della prossima fine del mondo, ma secondo una vera lettura del testo biblico in cui i dati dell’Apocalisse (ma anche alcuni significativi testi paolini) riprendono le idee della Genesi e di tutta la tradizione biblica. Tradizione che si potrebbe sintetizzare nella seguente affermazione: pur avendo in sé anche una radice ontologica diversa, l’uomo condivide il suo essere “animale” (nel senso etimologico di possessore del “respiro della vita”) con tutte le altre creature, e per il suo essere fatto di polvere del suolo condivide poi la stessa finitudine di tutta la materia del creato. Per questo c’è una solidarietà tra l’uomo, gli animali e il creato più stretta (e quindi più vincolante) di quanto si possa immaginare a prima vista. Per questo un salmo può affermare “uomini e bestie tu salvi, Signore”. Anzi il destino della salvezza per Paolo si estenderà a tutta la creazione che per ora geme e soffre “le doglie del parto” finché “Dio sarà tutto in ogni cosa del creato”. Il ruolo dell’uomo allora qui non è certo quello di un dominio (che si è in pratica tradotto in sfruttamento irrazionale del creato) ma di una salvaguardia “attiva” che conduce pian piano il creato tutto verso la consapevolezza piena (la “noosfera” di Theilard De Chardin) della sua finalità teo-logica. Perché il “paradiso” non sarà il luogo della beatitudine solo delle anime (ahi! Dante, quanti danni hai fatto!): sarà la “nuova creazione”, cioè l’universo interamente rinnovato e giunto alla pienezza per cui era stato creato. Il racconto del primo capitolo della Genesi ci mostra un principio che è anche la descrizione della meta finale. Ecco perché la Bibbia ci parla non solo di immortalità dell’anima (ahi! Benedetta filosofia greca infiltrata nella teologia, anche tu quanti danni hai fatto!) ma ci parla di resurrezione dei corpi: il che già a dirsi è radicalmente diverso!
Confesso che il tema del creato è, anche per un prete, un tema difficile da affrontare senza aver prima superato tanti pregiudizi, primo fra tutti un “antropocentrismo” sbagliato che ci fa sentire al centro del mondo e isolati dominatori dell’universo. Non è un problema di ecologia o ambientalismo o animalismo, né si può risolvere il tutto dell’unico destino dell’uomo e del creato facendolo discendere dalle scimmie. E’ il problema di reimpostare un nuovo rapporto con tutta la creazione, a partire dagli animali. La Bibbia testimonia episodi quale quello dell’asina di Balaam capace di vedere l’angelo del Signore e di rimproverare il profeta che invece non l’aveva visto (bellissima la meditazione di Paolo de Benedetti in proposito). E gli animali a Ninive faranno anch’essi penitenza per la predicazione di Giona. Ma anche la tradizione – e ci fermiamo a Scicli – ci parla dei buoi che tiravano il carro col feretro di San Guglielmo che decidono la chiesa dove deve essere seppellito, o dei buoi che a Jungi si inginocchiano indicando il luogo dove era stata sepolta la pisside con il Santissimo Sacramento rubata a Santa Maria La Nova. Per non parlare del Francesco che predica agli uccelli e parla col lupo. E se non fossero solo fioretti?
E’ questa la domanda che mi sto portando dentro in questi giorni: “e se la storia della mucca pazza ci dovesse costringere non solo a cambiare abitudini alimentari ma il nostro stesso rapporto con gli animali? E se il buco dell’ozono ci dovesse costringere non solo a trovare fonti non inquinanti ma a ritornare a trovare nei cieli anche la sede di Dio?”
Allora forse l’asino e il bue, la stella e gli angeli del presepe quest’anno ci diranno qualcosa di più. E forse diventeremo non soli più buoni.

Buon Natale.

lunedì 14 dicembre 2015

Natale festa della pace


Il tema  può sembrare a prima vista o banalmente scontato o sottilmente provocatorio.
Scontato, giacché per chi è cristiano è ovvio che l’incarnazione del Verbo e la sua Nascita, così come tutta la sua storia di salvezza culminata nella morte e risurrezione di Cristo, è l’evento da cui è scaturita e può ancora scaturire una esperienza di pacificazione ai vari livelli di relazione umana (con Dio, con gli altri uomini, con tutto il creato).
Provocatorio, perché – specie per chi non crede affatto o è seguace di qualche altra religione – il nesso tra nascita di Gesù Cristo, e quindi dell’affermarsi dell’esperienza cristiana, con la pace non sembra così consequenziale. Anzi, addirittura proprio per stare in pace, specie nel rapporto con altre istanze religiose, qualcuno ad esempio ha proposto di non celebrare più il Natale o di non porre i segni della memoria natalizia di Gesù nei luoghi pubblici. In questo senso sembrerebbe che proprio il Natale sia alla base di litigi e contese. Ma è davvero così?
Per sgombrare il campo da ogni equivoco, chiariamo anzitutto come la memoria del Natale, e quindi del suo rimando alla persona di Gesù di Nazaret, solo da chi pensa in modo ignorantemente acritico e superficiale può essere erroneamente intesa in modo offensivo nei riguardi delle altre due fedi dichiaratamente monoteiste.
L’ebraismo ufficiale ed ortodosso ha da tempo superato e sue preclusioni nei riguardi di Gesù, considerato oggi in tutta la sua ebraicità come un grande ed illustre Rabbi, anzi, ci sono studi in cui è in piena riconsiderazione e rivalutazione il suo rapporto con Dio e la sua “messianicità”, seppur in senso lato: in questo senso certo non dispiace agli ebrei la celebrazione di un loro fratello illustre.
Come pure è solo frutto di pregiudizio il fatto che si creda che la realizzazione del presepe in classe o l’organizzazione di recite scolastiche con la rievocazione della nascita di Gesù possa urtare od offendere il credo o la sensibilità dei fedeli musulmani.
Al contrario invece bisogna sottolineare cinque punti fondamentali per la fede islamica a partire dai dati presenti nel Corano: Maria è considerata donna eletta da Dio ed è onorata perché sempre vergine; Dio è lodato per la sua onnipotenza perché ha fatto partorire una vergine senza intervento umano; Gesù, il figlio di Maria, è dopo Maometto, il più grande profeta di tutti i tempi antichi; Maria e Gesù ancora oggi sono molto venerati nel mondo islamico come figure di vera obbedienza e sottomissione a Dio.
Nello stesso Corano grande spazio è dato poi al racconto della nascita miracolosa di Gesù, ispirata non ai vangeli canonici ma a quelli apocrifi, in particolare al protovangelo di Giacomo. Il racconto del Natale di Gesù è descritto nella sura 19 detta “sura di Maria”, il cui nome deriva dal versetto 16 della stessa sura.
Maria è la donna tramite la quale Allah ha voluto dare un segno particolare: “In verità o Maria Allah ti ha prescelta; ti ha purificata e prescelta tra tutte le donne del mondo” (III, 42) e il segno è stato Gesù suo figlio, nato per volontà dell'Altissimo, divina creazione nella generazione umana: “...un segno per le genti e una misericordia da parte Nostra” (XIX, 21). Tutta la vicenda di Maria è dolcemente contraddistinta dall'abbandono ad Allah e da una purezza delle intenzioni che ne fa una figura angelicata;  Maometto disse che Maria, insieme a Fâtima, Khadîja e Asiya (la sposa di Faraone che salvò Mosè dal Nilo) è una delle signore del Paradiso.
La festa del Natale dunque non può essere portata a pretesto per fomentare uno scontro tra le religioni.
Anzi, più che muro potrebbe diventare un ponte per gettare le basi di una pacifica convivenza civile nel rispetto e nella collaborazione tra credenti di fedi diverse.
Ma credo che, al di sopra di questo livello interreligioso, ci sia un altro livello su cui riflettere sul senso della celebrazione del Natale di Gesù oggi.
Proprio guardando all’evento stesso di cui si fa memoria a Natale.
La fede cristiana afferma che Gesù è il Logos, il Verbo di Dio, che si fa carne, che si fa uomo: pur nella difficoltà di dire in parole e concetti umani il mistero indicibile dell’eterno, qui si vuole dire che il Logos, o se si vuole la Ratio, la divina sapienza, con cui il mondo è stato creato e ordinato e che continua a reggere e dare fondamento a tutta la creazione, proprio questo Logos si è fatto carne ed è venuto come uomo ad abitare in mezzo a noi, come ci ricorda il Prologo del vangelo di Giovanni.
Proprio questa affermazione è capace di riconciliare, e quindi essere fonte di pace, diverse istanze che a prima vista a qualcuno potrebbero sembrare inconciliabili.
Giacché è lo stesso Logos, la stessa Ratio presente nella creazione e nell’incarnazione, non ci dovrebbero essere contraddizioni o lotte tra ragione e fede cristiana, tra scienza e fede, tra natura e grazia.
Una falsa concezione di secolarizzazione e di laicità ha creduto e crede che queste realtà siano invece irriducibili e irriconducibili al dialogo l’una con l’altra, quando invece si dovrebbe riconoscere che c’è ragionevolezza nella fede cristiana e che ci sono le ragioni della fede che la stessa ragione non comprende, per dirla con Pascal.
Se la fede senza ragione diventa integralismo, la stessa ragione se non è purificata dalla fede diventa pure integralismo intollerante.
Il rifiuto del Logos come cifra che misura l’esistenza non è forse all’origine della follia drammatica dei nostri giorni: ricordiamo che proprio “il sonno della ragione genera i mostri”.
Anche chi non crede può, dunque, unirsi ai cristiani in questa celebrazione del Logos/Ragione che è e deve essere a fondamento della vita umana privata e sociale. A tal fine Joseph Ratzinger, come teologo prima e come papa Benedetto XVI dopo, si è battuto per un dialogo col mondo contemporaneo, invocando il recupero del Logos a livello etico, politico e religioso.
Non invitò forse Benedetto a Ratisbona l’Islam a farsi purificare dalla Ragione contro ogni integralismo?
Non invitò forse Benedetto al Parlamento tedesco a ricondurre la politica nel solco della Ragione che solo può fondare una moralità per il bene comune?
La celebrazione del Logos incarnato allora davvero può essere fonte di pace.
“Gloria a Dio nelle altezze dei cieli e pace in terra agli uomini destinatari della buona volontà, della buona disposizione di Dio nei loro confronti!” 
Così cantarono gli angeli al campo dei pastori.
Questo è il senso dell’incarnazione del Logos: l’annuncio e il dono della pace per tutti gli uomini senza distinzione alcuna, perché tutti oggetto della benevolenza di Dio.

L’augurio è dunque che ogni celebrazione del Natale di Gesù sia un passo verso la pace e la fraternità, la giustizia e l’uguaglianza di tutti nel mondo intero.

sabato 12 dicembre 2015

Essere parroco

Sono Parroco di San Giuseppe di Scicli.

Una nomina che per primo ha sorpreso proprio me ! E  che mi ha riempito di gioia non tanto perché diventai parroco nella mia stessa città natale, ma perché mi diede l’occasione di ‘sdebitarmi’ in un certo senso con il carissimo P. Angelo Cargnin, di venerata memoria, per quanto lui ha fatto per me e per la mia vocazione. Il ritornare a lavorare in quella stessa parrocchia di cui P. Angelo è stato primo parroco e per cui ha speso tutte le sue energie fino alla morte e dove io ho svolto il mio ministero di catechista fino all’accolitato, ha per me il valore di un segno forte: come prete ho donato le forze in qualsiasi luogo il Signore, tramite l’obbedienza al vescovo, mi ha chiamato e il mio impegno sarebbe rimasto invariato anche se il vescovo mi avesse mandato in qualsiasi altro luogo della diocesi, ma il fatto di essere stato chiamato proprio a Scicli, e proprio a San Giuseppe, lo colsi come un rinnovato appello a dare la vita certo per Cristo e la sua Chiesa, ma per quella Chiesa, per quel popolo di Dio che vive, soffre e spera a Scicli. Una città di cui mi sento figlio e che porto sempre con me nel cuore e per cui il giorno della mia prima Messa ho offerto il mio sacerdozio. Quell’undici settembre 1988 infatti alla consacrazione ho fatto un “patto” con il Signore: “io ti offro la mia vita e il mio sacerdozio per la conversione di Scicli: non mi importa se io sarò parroco a Scicli o meno, purché Scicli  si rinnovi nella fede dei padri”. E’ la prima volta che parlo di questo (anche se tante volte in passato avrei voluto dirlo a quelli che mi attribuivano mire di ‘conquista’ ora su questa ora su quell’altra parrocchia di Scicli !!!)  e lo faccio per rimettermi ancora una volta nelle mani del Signore: come già dissi nella Messa di ingresso in parrocchia la mia gioia grande è stata anzitutto la possibilità di poter rinnovare in questa occasione le promesse della mia ordinazione. Per me è stato infatti quasi un rivivere il giorno della mia ordinazione e come già per la mia prima messa salendo i gradini dell’altare ho ripetuto quel versetto che ormai non si recita più: “salirò all’altare di Dio, del Dio che rallegra la mia giovinezza !” (ma che io sottovoce continuo a recitare all'inizio di ogni messa). Da quel giorno sono passati anni : voglio approfittare di questo spazio per ringraziare quanti (e più di quanto io stesso potessi immaginare) mi sono stati accanto in questo momento importante della mia vita e che continuamente fino ad oggi mi fanno regalo della loro stima. Ma scrivo anche per rispondere ad una domanda che molti mi fanno su come intendo il mio stile e il mio programma di parroco. Io qui confesso di non pensare ad altri stili e ad altri programmi se non a quelli che il Cristo stesso ci suggerisce con il suo esempio. Non penso a tante organizzazioni, a tante attività, quanto ad offrire ai miei parrocchiani quella “compagnia della fede” che sola la Chiesa può dare: la vicinanza del Cristo compagno’ di strada che ci offre il viatico del suo Corpo e della sua Parola e che si fa carico della pena di vivere dei fratelli. E poi, soprattutto, l’impegno-dono della pace. 
E' il tema che ho scelto fin dalla messa di ordinazione, con le parole di Paolo: noi fungiamo da ambasciatori di Cristo... vi scongiuriamo, lasciatevi riconciliare!
A fondamento di un ministero importante quale quello di parroco, in questo anno giubilare che stiamo per cominciare,  credo che i sentimenti con cui un sacerdote si appresti a vivere il suo ufficio non possano che essere quelli stessi del Papa: cioè di sentirsi strumento di pace e di riconciliazione, della misericordia di Dio e per questo chiedere e offrire perdono, a tutti, indistintamente.  Solo cristiani pacificati  con se stessi e con gli altri saranno portatori di pace nel mondo. Questo me lo auguro per la mia parrocchia, per tutte le parrocchie di Scicli, per il bene della Chiesa, per il bene di Scicli. 

sabato 5 dicembre 2015

Il presepe? Un ponte, non un muro!

DEDICATO A TUTTI GLI IGNORANTI (PRESIDI, MAESTRE ED AFFINI) CHE CREDONO CHE IL NATALE OFFENDA I MUSULMANI: IN VERITA' L'ISLAM AMMIRA MARIA E LA SUA VERGINITA' E IL PARTO VERGINALE DI GESU' GRANDE PROFETA INVIATO DA DIO COME SEGNO PER LA CONVERSIONE DEGLI UOMINI.
IL CORANO SURA XIX “DI MARIA”
Il nome della sura deriva dal versetto 16 .
Maria è la donna tramite la quale Allah (gloria a Lui l'Altissimo) ha voluto dare un segno particolare: “In verità o Maria Allah ti ha prescelta; ti ha purificata e prescelta tra tutte le donne del mondo” (III, 42) e il segno è stato Gesù suo figlio, nato per volontà dell'Altissimo, divina creazione nella generazione umana: “...un segno per le genti e una misericordia da parte Nostra” (XIX, 21). Tutta la vicenda di Maria è dolcemente contraddistinta dall'abbandono ad Allah e da una purezza delle intenzioni che ne fa una figura angelicata; l'Inviato di Allah (pace e benedizioni su di lui) disse che Maria, insieme a Fâtima, Khadîja e Asiya (la sposa di Faraone che salvò Mosè dal Nilo) è una delle signore del Paradiso.
In nome di Allah, il Compassionevole, il Misericordioso.
1. Kâf, Hâ', Ya', Aîn, Sâd.
LA NASCITA DÌ GESU’ DA MARIA VERGINE
16. Ricorda Maria nel Libro, quando si allontanò dalla sua famiglia, in un luogo ad oriente.
17. Tese una cortina tra sé e gli altri. Le inviammo il Nostro Spirito* che assunse le sembianze di un uomo perfetto.
*[“il Nostro Spirito”: l'angelo Gabriele (pace su di lui)]
18. Disse [Maria]: “Mi rifugio contro di te presso il Compassionevole, se sei [di Lui] timorato!”.
19. Rispose: “Non sono altro che un messaggero del tuo Signore, per darti un figlio puro”.
20. Disse: “Come potrei avere un figlio, ché mai un uomo mi ha toccata e non sono certo una libertina?”.
21. Rispose: “È così. Il tuo Signore ha detto: "Ciò è facile per Me... Faremo di lui un segno per le genti e una misericordia da parte Nostra. È cosa stabilita"”.
22. Lo concepì e, in quello stato, si ritirò in un luogo lontano.
23. I dolori del parto la condussero presso il tronco di una palma. Diceva: “Me disgraziata! Fossi morta prima di ciò e fossi già del tutto dimenticata!”.
24. Fu chiamata da sotto: “Non ti affliggere, ché certo il tuo Signore ha posto un ruscello ai tuoi piedi;
25. scuoti il tronco della palma: lascerà cadere su di te datteri freschi e maturi.
26. Mangia, bevi e rinfrancati. Se poi incontrerai qualcuno, di': "Ho fatto un voto al Compassionevole e oggi non parlerò a nessuno"”.
27. Tornò dai suoi portando [il bambino]. Dissero: “O Maria, hai commesso un abominio!
28. O sorella di Aronne, tuo padre non era un empio, né tua madre una libertina”.
29. Maria indicò loro [il bambino]. Dissero: “Come potremmo parlare con un infante nella culla?”,
30. [Ma Gesù] disse: “In verità, sono un servo di Allah. Mi ha dato la Scrittura e ha fatto di me un profeta.
31. Mi ha benedetto ovunque sia e mi ha imposto l'orazione e la decima finché avrò vita,
32. e la bontà verso colei che mi ha generato. Non mi ha fatto né violento, né miserabile.
33. Pace su di me, il giorno in cui sono nato, il giorno in cui morrò e il Giorno in cui sarò resuscitato a nuova vita”.
34. Questo è Gesù, figlio di Maria, parola di verità della quale essi dubitano.

domenica 1 novembre 2015

I murticieddi

Si può vivere bene il presente e proiettarsi consapevolmente nel futuro solo se si conosce il passato e ci si radica del passato : quando questo non avviene, e credo sia la tragedia dei nostri giorni, si vive un’esistenza da “spiantati”, sia personalmente sia come comunità civile nel suo insieme. E’ impossibile pensare ad un albero senza radici, ed è drammatico quando le radici di un albero sono troncate : sappiamo tutti che è la fine dell’albero stesso ! Credo infatti che l’amore per il passato, anzi, in questo senso, il diritto - dovere di coltivare la memoria delle storia, degli eventi e dei personaggi che ci hanno preceduti nella nostra umana avventura, non sia un sentimento superfluo o prerogativa di qualche “laudator temporis acti” solamente : è il prezzo necessario da pagare per comprendere la propria esistenza inscrivendola in uno spazio e un tempo non solo sincronicamente dati ma nel loro sviluppo diacronico in cui il susseguirsi di cause ed effetti, misti spesso alla sorprendente commistione di caso e necessità, svela il senso del mio essere nascosto nelle pieghe della storia, e per chi crede, anche il dispiegarsi del progetto divino attraverso il grande gioco della libertà umana che intreccia le proprie strade con le misteriose vie della Provvidenza.  Ma essere “cultori” del passato significa essere inevitabilmente “cultori di morti” : di persone cioè che hanno consegnato ormai la loro esistenza nelle braccia della storia e che ci parlano solo attraverso le loro opere e quanto dei loro affetti hanno saputo far sedimentare nei nostri sentimenti.
Siamo nei giorni in cui ogni anno si fa la commemorazione dei defunti : giorni che corrono il rischio di essere fagocitati dalla ritualità mondana e secolarizzata di una visita al cimitero di cui non si coglie più la reale portata e vissuta quasi per esorcizzare un mistero, quello della Morte che si tende sempre più a nascondere e velare per il resto dei giorni dell’anno. Il rifiuto della Morte, e dei morti, va di pari passo però con il rifiuto del passato, con la perdita della memoria. Ma sappiamo dalla cronaca e dalla letteratura quanto dirompente possa essere per l’esistenza umana la perdita della memoria ! Coltivare la memoria dei morti credo allora che non sia una sorta di raffinata necrofilia ma invece amore autentico per la vita. E’ più che “corrispondenza d’amorosi sensi” che assicuri un pizzico di eternità ai defunti,  è più che un modo per consolarsi della perdita dei propri cari : è un modo per riconoscere che la vita continua a fluire, che la linfa che sale dalle radici nell’albero è forza feconda che si dona, perpetuandosi, nei frutti. Perché io non sono frutto di me stesso, ma sono impastato delle passioni, delle gioie e delle speranze, dei lutti e delle angosce di chi è stato prima di me e mi ha generato alla vita, non solo quella fisica, ma anche sociale e - nel mio caso - anche ecclesiale. Nella mia memoria - e perciò nella mia esistenza - vivono non solo i grandi uomini che hanno fatto Scicli, non solo mio padre e i miei parenti, vivono pure la vecchina che mi portava a Messa quotidianamente, la maestra d’asilo per la quale sono rimasto piccolo allievo anche da prete, la delegata di Azione Cattolica a cui devo il forte senso ecclesiale, i piccoli e i poveri di spirito che mi hanno educato alla carità, chi mi ha insegnato a fotografare i cuori oltre che i volti, i sacerdoti da cui ho imparato che il sacrificio eucaristico non abbraccia solo la Messa ma anche l’esistenza, i compagni di giochi travolti dal peso della vita o da un destino crudele... Confesso di essere perciò molto legato ad una ricorrenza, quale quella del due novembre, che mi permette di sciogliere questo tributo di gratitudine nei confronti di chi ha contribuito a farmi essere quello che sono. E confesso di essere un nostalgico - e non potrebbe essere altrimenti - delle nostre usanze in occasione dei morti : “fare i morti”,  regalare cioè qualcosa ai piccoli in nome dei morti  era un modo della nostra gente di far percepire ancora la presenza di chi ha avuto ma continua, deve continuare, ad essere portatore di un significato nella nostra vita, direi quasi di una sorta di educazione delle nuove generazioni alla storia  e all’eternità. Per non spezzare l’esile filo della memoria. Un popolo, quello ebraico, ha potuto sopportare il peso della sua storia affidandosi appunto alla memoria, al dovere di ricordare che i padri inculcano con forza ai figli, ritrovando in ciò la forza di risorgere a nuova vita ! La stessa esperienza cristiana è tutta imperniata sulla categoria del “memoriale” dei “mirabilia Dei”.  Adesso i padri invece inseguono la modernità, i “murticieddi”  sono  stati soppiantati da Babbo Natale, macchina senza senso distributrice di regali a “go - go”, “gli antenati” sono solo il titolo di un programma di cartoni animati, sinonimo di vecchiume e di cose sorpassate, la storia è diventata accozzaglia di storielle, il passato è qualcosa che ci si può vantare di ignorare : una vacua signorinella in un programma televisivo estivo reclamava con forza il diritto a non conoscere la storia risorgimentale o della resistenza e del ’68 “perché lei ancora non era nata” (sic !) facendo intendere come del resto non le interessava conoscerla neanche ora ! Che dire allora? Non saprei, sinceramente, indicare soluzioni, né credo spetti a me darne : ognuno certo è capace di essere maestro a se stesso. Io offro qui la mia testimonianza : continuerò a “fare i morti”  e a “farmi i morti” (l’unico regalo che annualmente mi permetto) in nome di quanti sono stati prima di noi e per noi : e non per popolare la mia vita di fantasmi, ma per riempirla di gioiose e preziose presenze, che rendano  meno solitario il mio cammino, specie nei giorni della tristezza. Può sembrare paradossale ma celebrando i morti si celebra la Vita : in fondo non è questo il senso, per chi crede, di celebrare un Crocifisso Risorto dai morti ?

mercoledì 23 settembre 2015

Padre Pio

Vorrei qui comunicare le riflessioni scaturite da un confronto, per me prete inevitabile, con un’esperienza di fede e di santità come quella dell’umile frate di Petralcina. Confesso di non essere incline a devozionalismi di sorta, né di essere tenero nei confronti di certe espressioni di pietà popolare (al di là delle apparenze : ma chi mi conosce bene lo sa !), come di non  indulgere nell’educazione della fede, mia e dei fedeli affidati alle mie cure pastorali all’attrazione di mode e sensazionalismi vari. Eppure non si può non farsi interrogare dalle tante persone che affollano i pellegrinaggi da P. Pio o verso qualunque altro santuario (si pensi Lourdes) o che frequentano gruppi e movimenti ecclesiali in cui sta venendo fuori un tipo di spiritualità capace forse di dare risposte più concrete di quanto non lo sappiano fare le esperienze proposte dalla normale routine ecclesiale alla ricerca dell’uomo di una salvezza veramente integrale. So che queste modalità (se volete anche ingenue talvolta) fanno storcere il naso a qualcuno in nome di un’esperienza di fede da vivere allo “stato puro” senza le contaminazioni di una certa religiosità definita “naturale” : ma eventuali deviazioni o abusi non possono però esimerci dal prenderle in seria considerazione. Il “fenomeno” di P. Pio o quello degli altri movimenti ecclesiali a mio parere è proprio da interpretare alla luce della domanda su dove si collochi esattamente l’esperienza della fede e come la si possa vivere e proporre oggi alla gente. Dal tipo di risposta data a questa domanda credo spuntino poi fuori le scelte pastorali che un prete ad esempio è chiamato a fare. Il problema è appunto se esista uno “stato puro della fede” ! Io credo di no. Come non è mai esistito uno stato di “natura pura”.  Il protestante Barth teorizza la distinzione (che tanto influsso ha avuto pure in certa teologia cattolica postconciliare) inconciliabile tra religione (naturale) e fede (spirituale), tra natura (tutta peccato) e grazia (tutta salvezza da Dio solo) e in nome di questa distinzione considera peccaminosa ogni esperienza di fede contaminata dalle espressioni della natura umana (ma non crediamo in un Dio che si è fatto uomo ?). Mettete questo insieme a quelle tentazioni (di derivazione gnostiche e  pelagiane) che vogliono ridurre la fede ad una pura esperienza intellettuale di conoscenza (banalizzo e semplifico in uno slogan “se conosci la dottrina sei salvo !”), o al massimo etica (di pure regole di comportamento : “se segui le regole del Maestro sei salvo !”) e avrete la visione completa del problema. Così tutto quello che sa di corporeo, materiale, psicologico, umano, viene neoplatonicamente rigettato perché appunto “umano, troppo umano” ! Non facciamo spesso infatti che organizzare convegni, dibattiti, seminari, scuole di formazione per nutrire appunto la mente, celebriamo liturgie asettiche e disincarnate (in cui è proibito esprimere gioia o dolore o qualsiasi altro sentimento in nome della semplice nobiltà del rito romano, in cui le folle sono sempre snobbate come soggetto vero e proprio dell’azione liturgica, in quanto popolo di Dio) avendo sempre in mente in fondo un modello di Chiesa elitario ( in cui reputo il fatto di essere il piccolo gruppo del sale e del lievito che deve fermentare la massa non c’entri per niente). E allora la gente comune, semplice, spesso proprio quei “poveri di spirito” di cui parla il vangelo sono obbligati a rivolgersi altrove : a crearsi le loro liturgie nelle forme della pietà popolare, a ricercare luoghi ed esperienze dove si sentano veramente accolti per quello che sono, anche nel groviglio dei loro sentimenti tutti ancora da sviscerare. Perché non c’è un uomo fatto solo di testa e intelletto, uno fatto solo di cuore e affetti, uno solo di corpo e di materia : c’è un solo uomo che è fatto di tutte queste dimensioni insieme. La stessa divisione di anima e corpo è platonica, non biblica, la Scrittura sacra ci trasmette la concezione di un unico uomo in tutta la sua unità di spirito, anima e corpo inscindibilmente connessi. E la salvezza, la pace (Shalòm) biblica è uno stato di benessere fisico, sociale, spirituale insieme ! E Dio si prende cura di tutto l’uomo ! A Cristo si sono  presentati  l’intellettuale Nicodemo, ma anche lo stuolo dei malati fisici, e il gregge dei peccatori a cui spesso non mancava né la conoscenza, né il cibo, né la salute ma l’affetto (valgano per tutti gli incontri con le donne del vangelo : la samaritana, l’adultera, la peccatrice...). E proprio il Cristo inviterà tutti gli affaticati e gli oppressi ad andare a lui per trovare ristoro per le loro vite. E il vangelo non ci riporta mai un rimprovero fatto da Cristo a quelli che gli chiedevano la guarigione del corpo e che magari pensavano ancora ad un rapporto magico con lui come la donna che gli vuole toccare la frangia del mantello per essere sanata : semmai proprio a partire da queste richieste prendeva lo spunto per richiamare ad una fede più grande. Ma se noi impediamo questa consegna della propria umanità malata nelle mani del Salvatore, la massa dei poveri dove va a finire ? A volte ingrossa le file dei pellegrinaggi, a volte però cade spesso vittima di filibustieri che tra oroscopi, filtri e sortilegi vari succhiano l’anima insieme al corpo e ai piccoli risparmi, o si infila in esperienze sempre più aleatorie ed alienanti quali quelle delle nuove sette più o meno orientaleggianti. Che fare allora ? Forse proprio il miracolo più grande di P. Pio sta in questo : nel richiamare tutta la Chiesa ad una attenzione maggiore verso i poveri, che prima di essere una categoria socioeconomica, rappresentano una categoria spirituale. E’ facile infatti organizzare centri di accoglienza, distribuire soldi, cibo e vestiario in una sorta di burocratica filantropia che però misconosce il rapporto umano : il povero che soffre cerca soprattutto affetto, comprensione, e insieme la proposta di un’esperienza di fede in cui piangere nel grembo del Padre e sentirsi accolti nonostante il proprio peccato. Le lunghe file davanti al confessionale di P. Pio credo indichino appunto questo. Poi verranno anche gli ospedali e le case di sollievo della sofferenza. Ma il primo sollievo da dare è quello della fede : a questo credo di essere richiamato anzitutto io prete dalla testimonianza di P. Pio.  E lo confesso qui in pubblico come espressione di una mia sofferta ricerca, nella consapevolezza di itinerari di sacerdoti approdati invece ad altre conclusioni che pure rispetto nella libertà dei figli di Dio per la  coerenza evangelica con cui sono vissute. L’attenzione alle folle affamate che corrono il rischio di venir meno lungo la via, a cui sento che il prete debba rivolgere il proprio ministero, per me allora diventa un modo per cercare (per quanto mi è stato dato di leggere nel progetto di Dio su di me) di partecipare alla missione di Cristo : “Lo Spirito del Signore è sopra di me, mi ha mandato a portare il lieto annunzio ai poveri, la libertà ai prigionieri, agli afflitti la gioia...” Non per fare demagogismi né populismi (dai cui pericoli mi mette sempre in guardia il mio buon vescovo), né per richiamare le gente con illusorie speranze di salvezza a buon mercato, né per conquistare centralità e attenzione davanti all’opinione pubblica. L’umile esempio di un P. Pio, grande non per le sue stigmate, ma perché le ha vissute nella consumazione obbediente di una vita spesa nell’accoglienza e nell’ascolto dei fratelli anzitutto nell’Eucaristia e nella Confessione credo che a noi preti abbia tanto da insegnare e che insieme possa contribuire a togliere qualche illusione o precomprensione a tanti che non hanno forse ancora ben chiaro il ministero del prete e che vorrebbero da noi preti quello che non possiamo dare (compilando magari poi le graduatorie tra i preti impegnati e non, moderni o antichi e via dicendo...) e che perciò non rendono giustizia di quello che in fondo, al di là delle singole opinioni e scelte, un prete, ogni prete, è chiamato ad essere.  Perché noi solo una cosa siamo chiamati a dire, come Pietro al paralitico : “Non ho né oro né argento, ma quello che ho te lo do : nel nome di Cristo, alzati e cammina !”.

martedì 1 settembre 2015

Ricordi sessantottini!

“Settembre, andiamo è tempo di migrare...” Se la memoria non mi inganna inizia così una famosa poesia che oggi possiamo usare come un  richiamo alla ripresa delle attività dopo la pausa estiva. Significa che vacanze, sole, spiaggia e bagni rimarranno solo dei bei ricordi... Settembre ci richiama alla realtà, è ora di prepararci a quello che stando alle previsioni sarà un autunno “caldo”... I sogni dell’estate sono finiti ! Sogni che spesso aprono il cuore alla marea dei ricordi... Chissà infatti perché proprio l’estate per me in modo particolare è la stagione dei ricordi (quelli lieti, perché quelli tristi si rimuovono), e specialmente dei ricordi d’infanzia, quelli legati alla radio o ai primi mangiadischi che suonavano nel solleone l’Azzurro dell’italico Celentano o le esotiche e ammalianti nenie che ci facevano sognare l’isola di Whigt (si scrive così l’isola di chi ha negli blu della gioventù... ?) e ci davano la gioia di sentirci accomunati tutti, amanti dei Beatles e dei Rolling Stones, quando anche nelle Messe ci si domandava con Bob Dylan quante strade dovesse fare un uomo per essere più uomo e con Joan Baez si rispondeva We shall over come e si pregava (unica intenzione di preghiera dei fedeli per anni ! ! !) che finisse la guerra nel Vietnam...
Per me la bellezza del ’68 comincia e finisce qua ! Ho avuto infatti in sorte di nascere e di vivere la mia fanciullezza negli anni ’60, di assistere alle tragedie degli anni ’70, di sperimentare sulla mia pelle il riflusso e il vuoto, compresi i loro rigurgiti degli anni ’80 e ’90: dal maggio del ’68, data di inizio della cosiddetta rivoluzione giovanile (ricordo uno dei primi cortei studenteschi di Scicli che parodiava la processione del Venerabile !), al maggio ’78 in cui l’assassinio di Moro manifestava il clou della pretesa rivoluzione proletaria delle brigate rosse (e ricordo ancora con orrore un mio compagno di scuola indottrinato dagli slogan della sinistra gioire alla notizia del rapimento prima e dell’uccisione poi). Non voglio qui entrare in considerazioni politiche, non mi spettano e non mi interessano : confesso che per un po’ l’ideale di una palingenesi del mondo a forza d marce di protesta ha irretito anche me, per lasciarmi poi con la sensazione del vuoto dentro...e per questo la mia ricerca si è diretta Altrove. Perciò qui voglio solo manifestare quello che tutte queste esperienze mi hanno lasciato : amarezza e insofferenza, e basta. Amarezza perché ci hanno dato l’idea che il mondo si costruisce sempre contro qualcosa (istituzioni, governo, scuola, famiglia...) e qualcuno (dai genitori all’avversario politico) proprio mentre a parole si fantasticava di fraternità anarchiche situate nel migliore dei mondi impossibili ! Insofferenza  poi verso la pretesa che c’è alla base di queste presunte rivoluzioni, a partire dalla madre di tutte le false rivoluzioni quale è stata la rivoluzione francese (e della quale,  credo che tutto sommato siano  figlie tutte le rivoluzioni dell’Occidente moderno). E cioè la pretesa di ogni rivoluzionario di voler azzerare la storia, di buttare via (bruciando e distruggendo e saccheggiando praticamente ogni cosa che viene a tiro) tutto il passato e ciò che lo rappresenta. E’ l’ingenua pretesa che tutto il vecchio è marcio e sporco e che solo il nuovo sia immacolato. Pretesa che spunta fuori dalla convinzione che si abbia in tasca la verità e che questa la si possa imporre con la forza a tutti, imponendo il rinnovamento (che credo sia un problema di mente e di cuore) a forza di coazioni esterne. Non interessa se questo è fatto con la violenza delle armi o solo con il deterrente dell’ostracismo e dell’emarginazione : interessa che chi non si allinea viene automaticamente marchiato come nemico dei giovani, del proletariato, dei poveri, della pace, del progresso... E’ questa pretesa illuministica che io non ho mai condiviso : perché fa buttare via il bambino insieme all’acqua sporca. Certo, è innegabile che la giustizia, specie nell’ambito dei diritti umani, della solidarietà sociale e della pace nel mondo, abbia ancora un lungo cammino da percorrere, e che questo richiede impegno da parte di tutti : ma io mi sono sempre chiesto quali siano le vere conquiste, ad esempio, che i figli di papà (ché questi in realtà erano i nostri sessantottini : giustamente Pasolini ha scritto che i veri poveri e figli di proletari erano i carabinieri contro cui i “nostri” lanciavano pietre e molotov) hanno apportato alla nostra società. La possibilità di girare con l’ombelico di fuori e di fare sesso con chiunque e dovunque è una conquista ? Il sei e il diciotto “politico” o il fatto di promuovere anche gli ignoranti, di declassare la cultura e la scuola (e conseguentemente anche la professionalità)  sono una conquista ? Un certo pacifismo a senso unico perpetuato fino ai nostri giorni che fa protestare solo contro gli americani in Vietnam o in Iraq, dimenticando di farci protestare per la guerra in Bosnia o per i massacri nello Zaire, è una conquista ? Il ritorno al principio del “s’ei piace, ei lice”, fondamento di ogni soggettivismo e relativismo etico è una conquista ? Stranamente le uniche conquiste della maggior parte dei sessantottini di allora sono i posti migliori per sé e i loro figli all’interno di quell’entourage borghese che pure a parole si combatteva : ma allora era solo un problema di rivalsa sociale ? Confesso che non ho mai sopportato queste pretese conquiste e chi le propugnava, come confesso di non riuscire a digerire ancora oggi chi vagheggia il mitico ’68 e chi gli ha tenuto la candela o gliela tiene ancora, anche in ambito ecclesiale. Come mi fanno pena adesso gli squatters dei centri sociali e affini : le vere e uniche creature del ’68 sono in fondo dei disadattati, persone cioè che non sanno assumere nella propria vita la reale concretezza drammatica eppur bella del presente : e lo scrivo veramente con dolore perché significa che una tragedia si è consumata sulle spalle dei giovani senza che questi si accorgessero della vera portata della posta in gioco. Per questo la mia rabbia è diretta non contro i giovani (di allora o di oggi : in fondo sempre le vittime) quanto contro quei cattivi maestri che hanno seminato i germi insani senza assumersene spesso neanche la responsabilità. Qualcuno forse penserà che questo è il classico discorso del cinquantenne pompiere che è stato incendiario a vent’anni : e forse sarà vero. Ma, se lo è, è solo perché gli anni che passano mi fanno scoprire sempre più la bellezza della vita  e la voglia di combattere la vera battaglia, quella del cuore contro noi stessi : a chi è più giovane di me dico che ne vale la pena, ai più grandi l’appello di testimoniarlo con più forza.

lunedì 31 agosto 2015

I veleni di Voltaire

Mi sono regalato una vacanza " dotta",  nel senso che sotto l'ombrellone non ho portato con me il solito giallo ma niente di meno che L'enciclopedia di Voltaire. 
A parte il divertimento - da cui sapersi difendere - perché il trucco sta qua, giacché scherzando scherzando il Nostro le butta giù pesanti e tu neanche  te ne accorgi, perché mentre ridi abbassi la guardia e lui eccolo lì pronto a lanciarti la palla avvelenata! A parte il divertimento, dunque, mi sono reso conto di come non ci sia una idea, dico una, che non sia passata nella " vulgata " odierna di tutte le tesi contro la Chiesa. Voltaire può parlare pure dei macachi delle Indie ma alla fine la frecciata contro la Chiesa e il cristianesimo non manca mai. Certo, la critica è contro tutte le religioni a suo dire causa di ogni fanatismo e intolleranza, ma fra tutte le religioni quella più odiata visceralmente  e attaccata è la chiesa cattolica. Non si salva niente e nessuno!
Qualcuno dirà che ho fatto la scoperta dell'acqua calda, ma la mia considerazione è un'altra e verte sulla formazione che nei nostri seminari e studi teologici viene impartita a chi deve diventare sacerdote (per non parlare degli insegnanti di religione, ma io qui mi voglio fermare alla mia esperienza).
L'illuminismo di Voltaire & Compagni è la madre di tutte le falsità e gli inganni ideologici prodotti da circa cinque secoli a questa parte contro la Chiesa,  arrivati poi a noi attraverso tutto gli "- ismi " della storia.
Dalla negazione della divinità di Cristo alla verità dei vangeli e della Bibbia, alla insinuazione che il cristianesimo sia il parto della mente malata di Paolo, alla negazione dei sacramenti e di tutta la istituzione ecclesiale, dal papa all'ultimo curato e all'ultima suora, alle ricchezze della chiesa, alle persecuzioni dell'inquisizione... In fondo Augias e Odifredi non dicono niente di nuovo ma ripetono idee balzane vecchie di secoli!
Ora, si presume che se un esercito deve difendersi da un altro, o un partito deve contrastarne un altro, la prima cosa da fare sarebbe studiare le mosse e i progetti dell'avversario. Per potersi difendere e saper mostrare validamente le proprie ragioni.
Questo impegno un tempo era affidato alla cosiddetta " apologetica" cioè quella branca della teologia che serviva a difendere e proporre la bontà delle proprie tesi nei riguardi di chi invece voleva attaccare e scalzare l'esperienza cristiana nel mondo e perciò la stessa Chiesa.
Ciò avrebbe significato, ad esempio, che a me, nei miei studi teologici, fossero dati degli strumenti utili per conoscere anzitutto  i nostri " antagonisti " per poi saper resistere e rispondere in modo adeguato.
Ma tutto ciò a me non è stato dato.  E perciò mi sono dovuto attrezzare da solo.
Perché è inutile nasconderlo, è dall'illuminismo che la chiesa è sotto assedio in modo esplicito e tanti sono stati e sono i cavalli di Troia introdotti nelle nostre mura.
Eccettuati però alcuni eroi ( in verità tanti santi) e i alcuni papi ( Leone XIII, Pio X con la sua lotta al modernismo- forse l'ultimo baluardo posto all'ingresso di idee illuministe nella chiesa - , Pio XII per il suo impegno a mantenere la certezza del dogma e del magistero ecclesiale) quasi nessuno ha capito e capisce il pericolo cui si va incontro: il fatto di essere rimasti sguarniti contro ogni attacco e anzi di aver sviluppato nel nostro sentire un complesso di colpa indotto, per cui noi come chiesa siamo riusciti a convincerci che davvero la chiesa è all'origine di tutti i mali del mondo, come vorrebbero farci credere.
Abbiamo assunto un atteggiamento di condiscendenza che è ormai incapace di mostrare la nostra verità e di combattere la altrui falsità.
E così non si insegna più apologetica, non si apprende più ad avere il coraggio e la sapienza di un Giustino che dice all'imperatore chiaro e tondo che sta considerando i cristiani in modo sbagliato.
Ma così facendo ci si è privati di chiavi di lettura per comprendere le radici ideologiche, ad esempio, di questa scristianizzazione di massa che sta accadendo nel nostro Occidente.
Col rischio che l'opera di evangelizzazione, e per i parroci la pastorale, rischia di rimanere inefficace perché non si è in grado di capire le matrici culturali dei nostri destinatari e interlocutori.
È la complessità contemporanea, che può essere compresa solo conoscendone le stratificazioni secolari di idee e pregiudizi che l'hanno prodotta.
Credo che quest'opera sia più urgente che mai e che quindi forse bisognerebbe riscoprire l'impegno apologetico, non solo nei seminari, ma tutti i livelli, da parte di chierici e laici.
Forse qualche libercolo di devozioni in meno e qualche buon libro di filosofia o teologia in più non guasterebbe. Perché tutti siamo chiamati a rendere ragione della speranza che è in noi. E dovremmo farlo. Senza paura.

mercoledì 12 agosto 2015

postilla



Dopo il mio post precedente sul rimettere la croce sugli altari, qualcuno magari avrà giudicata la mia proposta come ingenuamente irenica. Ma vi prego di credere che non è così: altrimenti si giudicherebbe ingenuo lo stesso Benedetto XVI che per primo ha formulato tale proposta. So bene quale sia la posta realmente in gioco, come lo sapeva altrettanto bene Papa Benedetto. Qui non si tratta di mettere un oggetto sacro in più o in meno sull'altare. La scelta di mettere la croce sull'altare ( che poi non di scelta lasciata al singolo prete si tratterebbe ma di obbedienza da parte di tutti alla legge della chiesa che da sempre, fino all'ultima edizione del messale romano " vaticanosecondino " ha mantenuto ferma l'indicazione che sull'altare dove si celebra sia collocata la croce ) ma per meglio dire la scelta di obbedire alla prescrizione della Chiesa circa la croce sull'altare è in verità indice di quale comprensione dell'eucaristia noi ci troviamo davanti. È innegabile infatti che la croce sull'altare è un richiamo diretto ed esplicito al sacrificio di Cristo, stesso sacrificio di cui è perpetuo memoriale la celebrazione eucaristica. Così sacerdote e fedeli, guardando alla croce sono aiutati a ricordare che se l'eucaristia è banchetto comunionale lo è perché prima di tutto perché è sacrificio. Non ci sarebbe il pasto di un corpo, se prima quel corpo non fosse stato offerto in sacrificio. Chi tende a togliere o a spostare la croce dal centro dell'altare generalmente lo fa per accentuare di più l'idea del banchetto comunionale dimenticandosi del tutto della dimensione sacrificale e quindi salvifica dell'eucaristia. Ma così si vanifica lo stesso fine del sacramento che è la salvezza dell'anima. E chi lo dimentica, dimentica pure che anche l'eucaristia è un sacramento da amministrare: e che l'ostia consacrata è più che un pane da distribuire, in un gesto sbrigativo e distratto, spesso affidato a ministri tuttofare da sacerdoti insipienti. 
Perciò ho scritto che bisogna fare presto a recuperare la croce sull'altare. Perché significa recuperare la dimensione sacrificale della Messa e quindi la stessa finalità storico salvifica della Chiesa. Perché la Chiesa, davanti alla secolarizzazione che avanza o è in grado di riproporre con forza e coraggio che la salvezza dell'anima e la vita eterna è il primum necessario dell'uomo che solo Cristo può soddisfare, oppure, secolarizzata essa stessa non avrà altre battaglie da combattere se non quelle mondane e in un orizzonte intramondano che ha dimenticato il cielo. 

Versus populum, si; coram populo, no!

Mi piace la catholica perché è forma dell'equilibrio, della capacità inclusiva dell'et -et e mai dell'aut-aut. Solo gli eretici elevano una verità parziale a verità assoluta, finendo così per arroccarsi in integralismi esclusivi ed escludendi.
È questa la grande Tradizione della nostra Chiesa che però spesso viene dimenticata. Quando alla Teo-logia subentra l'ideo- logia  e allora si vede in chi non la pensa come te solo un nemico da combattere e non un interlocutore con cui verificarsi.
Purtroppo vedo sempre più come si accendano dibattiti in cui ci si "sbrana" a vicenda, quando invece una ricerca comune della verità porterebbe a intese più profonde. Ma per far ciò bisogna avere il coraggio di superare il livello delle opinioni e di uscire da propri pregiudizi.
Faccio un esempio.
Da decenni due fazioni si accusano reciprocamente di tradizionalismo bigotto o progressismo filo protestante, senza avere, a mio parere nessuna delle due, l'umiltà di confrontarsi con la Tradizione, quella vera, della Chiesa Cattolica. E uno dei terreni di scontro è, ad esempio, l'orientamento del celebrante nella celebrazione della messa.
Volgarmente si dice "con la faccia rivolta al popolo" o "con le spalle rivolte al popolo".
Scopriremo come queste espressioni sono entrambe sbagliate, e perciò chi vi si fissa in ogni caso celebra con un atteggiamento sbagliato.
E il problema supera lo stesso dilemma se scegliere la teologia tridentina o la teologia vaticanosecondina (si può dire? ).
Ma andiamo con ordine.
Il messale di san Pio V del 1570, che recepisce il messale a stampa del 1470 e altri messali precedenti, recepisce non solo l'eucologia e l'ordo missae dei secoli precedenti, ma ne recepisce anche le rubriche così come si erano formate lungo il corso di diversi secoli, per cui davvero si può dire che il messale di san Pio V riporti il modus celebrandi della chiesa di Roma e quindi sia in grado di indicarci con sicurezza le priorità e le scelte di fondo su cui si innesta lo stile celebrativo "romano".
Una di queste priorità è data dall'orientamento nella preghiera da parte del popolo e del sacerdote durante la celebrazione eucaristica.
Una indicazione rubricale ci aiuta a cogliere la priorità e insieme ci mostra il senso "pratico" della liturgia romana. Nelle rubriche del Messale di Pio V , al Caput V de oratione, viene detto: 3. << Si altare sit ad orientem, versus populum, celebrans versa facie ad populum, non vertit humeros ad altare, cum dicturus est Dominus vobiscum, Orate, fratres, Ite, missa est, vel daturus benedictionem; sed osculato altari in medio, ibi, expansis et iunctis manibus, ut supra, salutat . >>
E poi al caput XII aggiunge : 2. <<Si celebrans in altari vertit faciem ad populum, non vertit se, sed, stans ut erat, benedicit populo, ut supra, in medio altaris; deinde accedit ad latus Evangelii, et dicit Evangelium S. Ioannis. >>
In pratica cosa viene detto? Che se per caso, essendo l'altare rivolto ad orientem, il celebrante si trovasse  a celebrare in direzione del popolo, allora non occorre che il celebrante si giri su se stesso e dia le spalle all'altare quando deve salutare o dialogare o benedire il popolo ma rimanga fermo così com'è e saluti o benedica il popolo direttamente. Si capisce la motivazione della rubrica: che se si dovesse applicare la norma generale il sacerdote si troverebbe nella situazione innaturale di rivolgersi al popolo dandogli le spalle!
Ma c'è una ratio ancora più profonda da cogliere. Quella che pur di salvaguardare la direzione ad orientem dell'altare è capace di sacrificare la direzione dell'assemblea purché altare e celebrante rimangano rivolti ad orientem.
È il caso della basilica di san Pietro a Roma e di altre basiliche romane.
Essendo l'altare costruito sulla tomba di Pietro ed essendo la chiesa direzionata su un asse oriente - occidente e con l'ingresso ad oriente così che l'abside si venga a trovare ad occidente, è chiaro che se il celebrante dovesse celebrare secondo lo stesso orientamento in cui sono disposti i fedeli, guardando verso l'abside, si verrebbe a trovare rivolto verso occidente!
La scelta è stata logica e pratica, ma insieme è anche teologica perché indica un criterio che supera il mero orientamento cardinale-geografico per indirizzare verso un orientamento simbolico-sacramentale.
Perché l'altare, se da un lato mantiene ancora un orientamento geografico, dall'altro contiene in se anche  ciò che ne fa superare la semplice direzione geografica: è la croce.
Sull'altare è posta la croce, rivolta verso il celebrante, così che il celebrante abbia davanti a se non solo l'oriente  geografico ma soprattutto l'Oriente teologico, il Cristo redentore.
Così il celebrante si trova ad officiare la sua actio liturgica in uno spazio non solo geografico ma anche teologico-sacramentale. Alzando gli occhi al Cielo si rivolgerà al Padre come il Figlio, guardando alla croce, incensandola, inchinandosi davanti ad essa, il sacerdote incarnerà la risposta orante della Chiesa al suo Sposo che dalla croce attira tutti a se col suo sacrificio di cui la messa è memoriale.
In questa actio è coinvolto anche il popolo che, al di là della direzione geografica, è invitato a contemplare l'altare e la croce dove si rinnova il sacrificio.
In questo senso è da comprendere l'invito e la risposta del popolo di avere gli occhi rivolti al Signore: e credo non ci sia bisogno di ipotizzare il fatto che l'assemblea si girasse sempre verso l'Oriente geografico perché nel caso di san Pietro a Roma troveremmo un'assemblea rivolta alla porta della chiesa e con le spalle verso l'altare dove si sta per celebrare il sacrificio! Il che ci sembra illogico e paradossale.
La realtà invece credo che sia proprio la croce ad essere diventata il punto cui orientarsi, specie quando l'orientamento ad orientem della chiesa ( cioè dell'abside) non si potesse assicurare.
Ma il fatto che talvolta il sacerdote rivolto ad orientem e il popolo rivolto all'altare si potessero trovare faccia a faccia non vuol dire che la celebrazione fosse "coram populo" .
Anzitutto perché il fatto che l'altare fosse elevato con gradini e posto sulla cripta e sotto il baldacchino in ogni caso non ha dato mai l'idea di un rapporto "faccia a faccia" tra sacerdote e popolo, specie se si pensa che il sacerdote si trovava dall'altra parte dell'altare e tra il sacerdote e i fedeli sull'altare si trovava la croce verso cui, celebrante e fedeli , erano chiamati a guardare.
Ma poi perché soprattutto nella tradizione   romana non troviamo l'idea di una messa celebrata "davanti" alla gente per far vedere "pedagogicamente" quello che viene detto o fatto sull'altare: questa semmai è una idea che entrerà per la porta "protestante" nella chiesa cattolica.
lo stesso altare separato dalla parete (previsto già nell'aggiornamento delle rubriche del Messale di Giovanni XXIII) era visto solo per ripristinare l'antico uso della incensazione intorno ad esso e non per una celebrazione "davanti al popolo".
Ma la stessa rubrica da noi citata nel Messale di Pio V è stata tramandata per secoli e recepita fino al messale suddetto di Giovanni XXIII: ciò significa, a mio parere, che nel rito romano non si debba idolatrare nessuna posizione del celebrante in se stessa, perché il vero discriminante è dato dall'altare e dalla croce sull'altare.
In questo senso possiamo dire che, come ben scrisse una Nota della Congregazione del Culto divino anni fa ad una risposta sull'orientamento del celebrante, in ogni caso la messa è e deve essere "coram Deo", sia quando il celebrante si trova "versus populum" sia quando celebra "versus parietem".
E non è pedanteria far rilevare come il testo latino distingue tra celebrare "coram" e celebrare "versus",  perché un conto è celebrare "davanti a... " un conto "in direzione di ... ". Si può anche celebrare in direzione dei fedeli, ma sempre davanti a Dio! È ciò che le rubriche ( e la tradizione dei padri) ci insegnano.
Certo la pienezza del segno ( da non sottovalutare però) è data dal comune orientamento del sacerdote e dei fedeli verso l'altare su cui è posta la croce (e il tutto ad orientem), e ciò risponde non solo a tutta la tradizione romana ma alla stessa tradizione comune in oriente e occidente. Modalità di celebrazione che io ristabilirei pienamente non fosse altro che per un gesto di sensibilità e comunione ecumenica. Ma se per ragioni diverse il celebrante dovesse assumere una posizione diversa, celebrante e fedeli sono chiamati ad orientare il loro sguardo in direzione della croce dell'altare.
Quella che dunque viene in ogni caso esclusa è la "circolarità " dello sguardo tra sacerdoti e fedeli in cui ci si guarda reciprocamente in una celebrazione "orizzontale"  perdendo di vista la comune direzione, il comune Orientem cui tendere.
Conseguenza pratica, per me, è la necessità che sull'altare venga posta la croce. Al centro e ben visibile, e se questa anche visivamente si frappone tra sacerdote e fedeli, nel caso in cui si celebra in direzione dei fedeli, tanto meglio, perché ricorderà a tutti la direzione cui orientare lo sguardo.
Non dico niente di nuovo, questa è la saggia indicazione di Benedetto XVI, per scongiurare nuove guerre di altari ( "che facciamo, si chiese, smontiamo di nuovo gli altari? No, basta rimettere la croce al centro," rispose, parlando di "riforma della riforma liturgica"). L'ostilità contro questa proposta di Benedetto, ripeto saggia ed equilibrata, in verità rivelò e rivela ancora le posizioni ideologiche di chi ragiona per tesi preconfezionate perché accettare questa proposta - secondo questi - significherebbe accettare una scelta celebrativa in conformità con la Tradizione  ( ma per essi "tradizionalista " ) e " tradire" una interpretazione del Vaticano II che avrebbe voluto una celebrazione non solo versus populum ma anche coram populo obbligatoria per tutti. Cosa che non risulta per il Vaticano II come non risulta l'incontrario per il concilio di Trento.
Che se all'ostilità poi contro l'altare ad orientem o alla croce sull'altare, si risponde con l'ostilità tout court contro l'altare versus populum si vede bene come ci si è infilati in un cul de sac da cui è difficile uscire.
Come uscirne?
Con un atto di umiltà che faccia riconoscere a tutti che la liturgia non è appannaggio di nessuno e che i riti non sono frutto di alchimie e tesi fatte a tavolino, ma il risultato della vita della Chiesa sedimentata nella Tradizione.
E la Tradizione ci dice che la celebrazione della messa deve essere sempre " orientata" coram Deo. Segno di questo orientamento è la croce posta sull'altare.
E non importa se per guardare ad orientem il celebrante sia versus populum oppure versus parietem: perché non lasciare questa scelta caso per caso al celebrante a seconda delle chiese e di altre situazioni contingenti, senza lanciarci anatemi reciprocamente?
Riusciremo almeno a concordare in ciò? A chiudere una polemica oltremodo sterile e dannosa?
Il rischio è che mentre discutiamo sull'orientamento della messa la secolarizzazione invada sempre di più il nostro mondo e finanche le nostre chiese.

domenica 21 giugno 2015

“Acquistati un amico !”

Stavo per finire la quarta elementare. Al Carmine si organizzò una settimana biblica e per quell’occasione investii i miei risparmi dei regali pasquali (mille lire !)aiutato dal contributo di mia madre per comprare una Bibbia :benedette quelle millecinquecento lire ! Da allora è cominciata un’avventura che continua fino ad oggi ! Perché da allora mi immersi in una lettura dalla quale ancora non riesco a staccarmi ! Qualcuno penserà che è normale che un prete scriva queste cose della Bibbia : ma non è così. Anzitutto perché il mio amore per la Bibbia è nato prima e al di là di qualsiasi discorso di fede e di vocazione. Dire Bibbia ha significato per me in principio il catapultarmi nelle sue storie strane (Giona non è l’antenato di Pinocchio ?), nei racconti delle gesta di tanti eroi (Davide e Sansone e le imprese degne di Ercole e Maciste), in un mondo tanto diverso e che pure quasi inspiegabilmente sentivo a me tanto vicino. Ripenso con nostalgia alle serate estive passate a leggere la Bibbia in famiglia, di libro in libro, senza la pretesa di capire tutto, ma per il piacere di una lettura diversa che altre letture (di cui pure sono appassionato) tuttavia non possono darti. E così scoprire il peccato di Davide e Betsabea e la storia della casta Susanna e dei vecchioni impudichi censurate nella lettura liturgica al pari del Cantico dei cantici (che raggiunge invece vette di sublime poeticità). Ma scoprire anche, crescendo, come tante storie raccontano le situazioni esistenziali dell’uomo di tutte i tempi : perché nella Bibbia c’è posto ugualmente per la fede di Abramo e per l’angoscia del Qoelet secondo il quale tutto è vanità. E c’è la sapienza del popolo che viene dall’esperienza di vita e la sapienza del cuore che nasce dal profondo scrutare l’intimo dell’uomo. Così come c’è la vicenda di un Dio che rifugge dal farsi tramutare in idolo da parte dell’uomo (e per questo non gli rivela neanche il suo Nome) e che pure è sempre schierato dalla sua parte, a volte anzi decisamente troppo dalla sua parte! E c’è il grido del dolore di ogni uomo vittima della sofferenza e dell’ingiustizia : solo qui le urla dell’odio e della rabbia, il desiderio di vendetta e finanche a volte l’imprecazione e  la bestemmia riescono a diventare salmo e preghiera autentica.
Un detto rabbinico consiglia tre cose : “Procurati un maestro, acquistati un compagno, e giudica ogni uomo sulla bilancia del merito.” (Detti dei Padri I,6). La prima e la terza cosa sono chiare, per la seconda invece si fa notare come il verbo “acquistare” riferito ad un amico o ad un compagno suona strano. Perché acquistare vuol dire “comperare” né più né meno, e un amico difficilmente lo si compra. Così alcuni commentatori hanno concluso che qui non si tratta di un compagno in carne ed ossa, ma di un libro. Un buon libro può diventare un grande amico, perciò il consiglio si deve intendere così : “acquistati un buon libro” (cfr. Alberto Mello, Detti di rabbini, Qiqaion, 1993, Introduzione). Confesso che per me realmente la Bibbia  è stato “l’amico” con cui condividere il cammino della vita e le sue fatiche. Proprio materialmente la mia Bibbia testimonia con tutte le sottolineature e i segni e gli appunti, con le pagine unte e invecchiate, come un libro ti può accompagnare nel tuo cammino di crescita e diventare il tuo punto di riferimento. Scrivo queste cose per due motivi : anzitutto per mostrare come la Bibbia può essere anche letto in modo “non bigotto” (anzi per me deve essere letto proprio in modo non bigotto !). E poi per fare una proposta,: ogni giornale in questo periodo sta consigliando ai propri lettori i libri con cui passare le ferie estive : e se fra i tanti riuscisse a trovare posto anche la Bibbia ? Ernst Bloch, uno scrittore marxista, scrive che le parole della Bibbia annoiano solo quelli che ne parlano per sentito dire : e se fosse davvero questa l’occasione per uscire dalla monotona noia estiva che a volte prende i vacanzieri ? A quelli che accoglieranno questa mia provocazione (sempre certo del mio grappolo di affezionati lettori), allora, buone vacanze !

IO ACCUSO…

Tra epidemia e calura estiva è passato sotto silenzio un importante responso della Congregazione della Dottrina della fede e approvato in pr...