mercoledì 27 dicembre 2017

E TUTTI FURONO SAZI

 
 
Lectio divina sulla moltiplicazione dei pani

 


1. LECTIO


 


1. Il testo


ü  Gesù si ritira in disparte

ü  Mc: in un luogo solitario Mt: in un luogo deserto

ü  con i suoi discepoli

ü  la folla se ne accorge e li segue cfr. Gv: e una grande folla lo seguiva, vedendo i segni che faceva sugli infermi. 

ü  Mc: si commosse per loro, perché erano COME PECORE SENZA PASTORE, e si mise a insegnare loro molte cose. 

cfr. Mt: sentì compassione per loro e guarì i loro malati.

Lc: Egli le accolse [compassione] e prese a parlar loro del regno di Dio[= insegnare] e a guarire quanti avevan bisogno di cure. 

Gv: Gesù salì sulla montagna e là si pose a sedere [= insegnare] con i suoi discepoli. 

ü  Si fa sera

ü  i discepoli gli si avvicinano pregondolo di congedare la folla perché vadano a comprarsi da mangiare essendo in un luogo solitario/deserto

ü  Gesù risponde: “date voi stessi da mangiare”

ü  l’equivoco: Mc: «Dobbiamo andar noi a comprare duecento denari di pane e dare loro da mangiare?». => Quanti pani avete?

cfr. Lc: «Non abbiamo che CINQUE PANI E DUE PESCI, a meno che non andiamo noi a comprare viveri per tutta questa gente»

v  la provocazione: Gv: Gesù vide che una grande folla veniva da lui e disse a Filippo: «Dove possiamo comprare il pane perché costoro abbiano da mangiare?». 6 Diceva così per metterlo alla prova; egli infatti sapeva bene quello che stava per fare. 7 Gli rispose Filippo: «Duecento denari di pane non sono sufficienti neppure perché ognuno possa riceverne un pezzo». 

ü  rispondono: «CINQUE PANI E DUE PESCI»

cfr. Gv: «C'è qui un ragazzo che ha CINQUE PANI D'ORZO E DUE PESCI; ma che cos'è questo per tanta gente?». 

ü  Lc: Ed egli disse: «Portatemeli qua».

ü  fa sdraiare gli uomini come aiuole a terra

ü  sull’erba cfr. Gv. molta erba

ü  Mc: erba verde

ü  Mc: a gruppi di 100 e 50 cfr. Lc: a gruppi di 50

ü  Gv:  Era vicina LA PASQUA, la festa dei Giudei. 

ü  Gesù prende i 5 pani e i 2 pesci

ü  leva gli occhi al cielo

ü  pronunzia la benedizione cfr. Gv: dopo aver reso grazie

ü  Mc – Mt – Lc : spezzò i pani

ü  li diede ai discepoli perché li distribuissero

ü  + Mt e i discepoli li distribuirono alla folla

v  Gv: li distribuì a quelli che si erano seduti,

ü  Mc: e divise i due pesci fra tutti. cfr. Gv: e lo stesso fece dei pesci

ü  tutti mangiarono e si saziarono cfr. Gv: finché ne vollero. 

v  Gv: E quando furono saziati, disse ai discepoli: «Raccogliete i pezzi avanzati, perché nulla vada perduto». 

ü  portarono via 12 ceste di pani avanzati

ü  Mc: anche dei pesci. 

ü  Quelli che avevano mangiato i pani erano cinquemila uomini. + Lc: circa cinquemila uomini, senza contare le donne e i bambini.

ü  NOTA – Mc: Ma i discepoli avevano dimenticato di prendere dei pani e non avevano con sé sulla barca che un pane solo. 15 Allora egli li ammoniva dicendo: «Fate attenzione, guardatevi dal lievito dei farisei e dal lievito di Erode!». 16 E quelli dicevano fra loro: «Non abbiamo pane». 17 Ma Gesù, accortosi di questo, disse loro: «Perché discutete che non avete pane? Non intendete e non capite ancora? Avete il cuore indurito? 18 Avete occhi e non vedete, avete orecchi e non udite? E non vi ricordate, 19 quando ho spezzato i cinque pani per i cinquemila, quante ceste colme di pezzi avete portato via?». Gli dissero: «Dodici». 20 «E quando ho spezzato i sette pani per i quattromila, quante sporte piene di pezzi avete portato via?». Gli dissero: «Sette». 21 E disse loro: «Non capite ancora?».

cfr. Mt: Come mai non capite ancora che non alludevo al pane quando vi ho detto: Guardatevi dal lievito dei farisei e dei sadducei?». 

12 Allora essi compresero che egli non aveva detto che si guardassero dal lievito del pane, ma dalla dottrina dei farisei e dei sadducei.

v  Gv: Allora la gente, visto il segno che egli aveva compiuto, cominciò a dire: «Questi è davvero IL PROFETA che deve venire nel mondo!». 15 Ma Gesù, sapendo che stavano per venire a prenderlo per farlo re, si ritirò di nuovo sulla montagna, tutto solo.

v  Gv:  Quando dunque la folla vide che Gesù non era più là e nemmeno i suoi discepoli, salì sulle barche e si diresse alla volta di Cafarnao alla ricerca di Gesù. Trovatolo di là dal mare, gli dissero: «Rabbì, quando sei venuto qua?».

Gesù rispose: «In verità, in verità vi dico, voi mi cercate non perché avete visto dei segni, ma perché avete mangiato di quei pani e vi siete saziati. Procuratevi non il cibo che perisce, ma quello che dura per la vita eterna, e che il Figlio dell'uomo vi darà. Perché su di lui il Padre, Dio, ha messo il suo sigillo».  Gli dissero allora: «Che cosa dobbiamo fare per compiere le opere di Dio?».  Gesù rispose: «Questa è l'opera di Dio: credere in colui che egli ha mandato».

 Allora gli dissero: «Quale segno dunque tu fai perché vediamo e possiamo crederti? Quale opera compi? I nostri padri hanno mangiato la manna nel deserto, come sta scritto: Diede loro da mangiare un pane dal cielo». Rispose loro Gesù: «In verità, in verità vi dico: non Mosè vi ha dato il pane dal cielo, ma il Padre mio vi dà il pane dal cielo, quello vero;  il pane di Dio è colui che discende dal cielo e dà la vita al mondo». Allora gli dissero: «Signore, dacci sempre questo pane».  Gesù rispose: «Io sono il pane della vita; chi viene a me non avrà più fame e chi crede in me non avrà più sete. Vi ho detto però che voi mi avete visto e non credete. Tutto ciò che il Padre mi dà, verrà a me; colui che viene a me, non lo respingerò, perché sono disceso dal cielo non per fare la mia volontà, ma la volontà di colui che mi ha mandato. E questa è la volontà di colui che mi ha mandato, che io non perda nulla di quanto egli mi ha dato, ma lo risusciti nell'ultimo giorno.  Questa infatti è la volontà del Padre mio, che chiunque vede il Figlio e crede in lui abbia la vita eterna; io lo risusciterò nell'ultimo giorno».

Intanto i Giudei mormoravano di lui perché aveva detto: «Io sono il pane disceso dal cielo». E dicevano: «Costui non è forse Gesù, il figlio di Giuseppe? Di lui conosciamo il padre e la madre. Come può dunque dire: Sono disceso dal cielo?».

Gesù rispose: «Non mormorate tra di voi. Nessuno può venire a me, se non lo attira il Padre che mi ha mandato; e io lo risusciterò nell'ultimo giorno. Sta scritto nei profeti: E tutti saranno ammaestrati da Dio. Chiunque ha udito il Padre e ha imparato da lui, viene a me. Non che alcuno abbia visto il Padre, ma solo colui che viene da Dio ha visto il Padre. In verità, in verità vi dico: chi crede ha la vita eterna.

Io sono il pane della vita. I vostri padri hanno mangiato la manna nel deserto e sono morti; questo è il pane che discende dal cielo, perché chi ne mangia non muoia. Io sono il pane vivo, disceso dal cielo. Se uno mangia di questo pane vivrà in eterno e il pane che io darò è la mia carne per la vita del mondo».

Allora i Giudei si misero a discutere tra di loro: «Come può costui darci la sua carne da mangiare?». Gesù disse: «In verità, in verità vi dico: se non mangiate la carne del Figlio dell'uomo e non bevete il suo sangue, non avrete in voi la vita. Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue ha la vita eterna e io lo risusciterò nell'ultimo giorno. Perché la mia carne è vero cibo e il mio sangue vera bevanda. Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue dimora in me e io in lui. Come il Padre, che ha la vita, ha mandato me e io vivo per il Padre, così anche colui che mangia di me vivrà per me.  Questo è il pane disceso dal cielo, non come quello che mangiarono i padri vostri e morirono. Chi mangia questo pane vivrà in eterno».

 Queste cose disse Gesù, insegnando nella sinagoga a Cafarnao. Molti dei suoi discepoli, dopo aver ascoltato, dissero: «Questo linguaggio è duro; chi può intenderlo?». Gesù, conoscendo dentro di sé che i suoi discepoli proprio di questo mormoravano, disse loro: «Questo vi scandalizza? E se vedeste il Figlio dell'uomo salire là dov'era prima?  È lo Spirito che dà la vita, la carne non giova a nulla; le parole che vi ho dette sono spirito e vita. Ma vi sono alcuni tra voi che non credono». Gesù infatti sapeva fin da principio chi erano quelli che non credevano e chi era colui che lo avrebbe tradito. E continuò: «Per questo vi ho detto che nessuno può venire a me, se non gli è concesso dal Padre mio».

Da allora molti dei suoi discepoli si tirarono indietro e non andavano più con lui.

Disse allora Gesù ai Dodici: «Forse anche voi volete andarvene?». Gli rispose Simon Pietro: «Signore, da chi andremo? Tu hai parole di vita eterna; noi abbiamo creduto e conosciuto che tu sei il Santo di Dio». 

 


2. Il contesto storico-biblico


 


1. Il cammino dell’esodo e la fame del popolo


La lamentela del popolo: “ci hai condotti nel deserto per farci morire di fame!”

 


2. I pani e la manna


Es 16,4 Allora il Signore disse a Mosè: «Ecco, io sto per far piovere pane dal cielo per voi: il popolo uscirà a raccoglierne ogni giorno la razione di un giorno, perché io lo metta alla prova, per vedere se cammina secondo la mia legge o no.

Sapienza 19,12: poiché, per appagarli, salirono dal mare le quaglie.

 


3. La prova


Il popolo tenta Dio – Dio tenta il popolo

cfr. appena cominciarono a masticare le quaglie si accese l’ira di Dio

cfr. Le tentazioni di Gesù: cita Dt <<non di solo pane vive l’uomo ma di ogni Parola che esce dalla bocca di Dio>>

 


4. Eliseo


2 Re 4,42 Da Baal-Salisa venne un individuo (ragazzo/servo: “picciotto”), che offrì primizie all'uomo di Dio, venti pani d'orzo e farro che aveva nella bisaccia. Eliseo disse: «Dallo da mangiare alla gente». 43 Ma colui che serviva disse: «Come posso mettere questo davanti a cento persone?». Quegli replicò: «Dallo da mangiare alla gente. Poiché così dice il Signore: Ne mangeranno e ne avanzerà anche». 44 Lo pose davanti a quelli, che mangiarono, e ne avanzò, secondo la parola del Signore.

 


3. La rilettura profetica e la riflessione rabbinica


 


1. La Parola/Torà/Insegnamento come “manna/pani” discesa dal cielo


Es. 16,4: <<Ecco sto per far piovere per voi pane dai cieli>> cfr. LXX <<artous = pani>> Vulgata <<panes>>

 


2. Quale fame? Fame della Parola


Amos 8,11 Ecco, verranno giorni, - dice il Signore Dio - in cui manderò la fame nel paese, non fame di pane, né sete di acqua, ma d'ascoltare la parola del Signore.


Isaia 55,2 Perché spendete denaro per ciò che non è pane, il vostro patrimonio per ciò che non sazia? Su, ascoltatemi e mangerete cose buone e gusterete cibi succulenti.

Proverbi 9, 1 La Sapienza si è costruita la casa, ha intagliato le sue sette colonne. 2 … e ha imbandito la tavola. 3 Ha mandato le sue ancelle a proclamare sui punti più alti della città: … essa dice: 5 «Venite, mangiate il mio pane, bevete il vino che io ho preparato.

 


3. La Pasqua messianica: il tempo messianico del nuovo esodo con il nuovo Pastore


“La condurrò nel deserto, là parlerò al suo cuore”

 


2. MEDITATIO


 


1. La “compassione” per le folle:


Nota: Gesù commosso perchè erano come pecore senza pastore prese a insegnare (Gv: siede)

non è il popolo che si lamenta per la fame (non c’è un Mosè da cui andare per lamentarsi)

è Gesù che prende l’iniziativa e coinvolge gli apostoli: “date voi stessi” “dove troveremo…”

In realtà la gente sarebbe potuta andare a comprare pane nei villaggi vicini: MA Gesù non vuole che si nutrino di altri pani: Gesù sta preparando la prova e il segno  CHE è LUI il vero PANE/PAROLA, è Gesù che provoca il miracolo.

 


2. Gesù come il Profeta atteso (nuovo legislatore più che Mosè), il buon pastore:


Nota: Il Pastore d’Israele: Gesù riunisce, guida e nutre le pecore disperse di Israele

Numeri 27,15 Mosè disse al Signore: 16 «Il Signore, il Dio della vita in ogni essere vivente, metta a capo di questa comunità un uomo 17 che li preceda nell'uscire e nel tornare, li faccia uscire e li faccia tornare, perché la comunità del Signore non sia un gregge senza pastore».


 

Ez 34, 11 Perché dice il Signore Dio: Ecco, io stesso cercherò le mie pecore e ne avrò cura. 12 Come un pastore passa in rassegna il suo gregge quando si trova in mezzo alle sue pecore che erano state disperse, così io passerò in rassegna le mie pecore e le radunerò da tutti i luoghi dove erano disperse nei giorni nuvolosi e di caligine. 13 Le ritirerò dai popoli e le radunerò da tutte le regioni. Le ricondurrò nella loro terra e le farò pascolare sui monti d'Israele, nelle valli e in tutte le praterie della regione. 14 Le condurrò in ottime pasture e il loro ovile sarà sui monti alti d'Israele; là riposeranno in un buon ovile e avranno rigogliosi pascoli sui monti d'Israele. 15 Io stesso condurrò le mie pecore al pascolo e io le farò riposare. Oracolo del Signore Dio.  … 23 Susciterò per loro un pastore che le pascerà, Davide mio servo. Egli le condurrà al pascolo, sarà il loro pastore; 24 io, il Signore, sarò il loro Dio e Davide mio servo sarà principe in mezzo a loro: io, il Signore, ho parlato. 25 Stringerò con esse un'alleanza di pace e farò sparire dal paese le bestie nocive, cosicché potranno dimorare tranquille anche nel deserto e riposare nelle selve.

 

Zaccaria 10, per questo vanno vagando come pecore, sono oppressi, perché senza pastore.


l’erba (siamo in primavera, Pasqua) verde: “in pascoli erbosi mi conduce…”

il banchetto: sdraiati per terra in cerchio (in forma di aiuole)

a gruppi di cento e di cinquanta:

Esodo 18:25 Mosè scelse fra tutto Israele degli uomini capaci e li stabilì capi del popolo: capi di migliaia, capi di centinaia, capi di cinquantine e capi di decine.


 

Gesù il profeta escatologico che parla davvero in nome di Dio (le sue parole si realizzano):

Gv 6, 14: «Questi è davvero IL PROFETA che deve venire nel mondo!».

Dt 18,15 Il Signore tuo Dio susciterà per te, in mezzo a te, fra i tuoi fratelli, un profeta pari a me; a lui darete ascolto. 16 Avrai così quanto hai chiesto al Signore tuo Dio, sull'Oreb, il giorno dell'assemblea, dicendo: Che io non oda più la voce del Signore mio Dio e non veda più questo grande fuoco, perché non muoia. 17 Il Signore mi rispose: Quello che hanno detto, va bene; 18 io susciterò loro un profeta in mezzo ai loro fratelli e gli porrò in bocca le mie parole ed egli dirà loro quanto io gli comanderò. 19 Se qualcuno non ascolterà le parole, che egli dirà in mio nome, io gliene domanderò conto. 20 Ma il profeta che avrà la presunzione di dire in mio nome una cosa che io non gli ho comandato di dire, o che parlerà in nome di altri dèi, quel profeta dovrà morire. 21 Se tu pensi: Come riconosceremo la parola che il Signore non ha detta? 22 Quando il profeta parlerà in nome del Signore e la cosa non accadrà e non si realizzerà, quella parola non l'ha detta il Signore; l'ha detta il profeta per presunzione; di lui non devi aver paura.

 

12 ceste di pani: le tribù di Israele

 

3. Dalla commozione alla cura:


1. l’insegnamento


2. le guarigioni


3. il pane


4. il pane super-essenziale


 

 


3. CONTEMPLATIO


 


1. Non avete compreso?


Nota: Nei sinottici: è un miracolo ma manca la reazione della folla

apostoli: Non avete compreso?

lievito  dei farisei = insegnamento/dottrina dei farisei

2. Chi è il pane vero?


Gv: E’ Dio che da il pane vero (non Mosè diede la manna)!

VERBUM CARO FACTUM EST

 


3. La Parola e l’Eucaristia


Gesù è la Torà/parola di Dio scesa dal cielo e fatta carne (uomo)

“masticare” la Parola

dal segno alla realtà: procurarsi il cibo che non perisce, cibo che nutre per la vita eterna

manna = cibo che perisce, i padri morirono!

 


4. La chiesa:


il luogo della compassione

il luogo in cui continua la distribuzione del pane/Parola/Eucaristia

5. I discepoli


Gesù fa compartecipi della compassione per le folle i discepoli

solo il Cristo sfama (in Gv spezza e distribuisce, come un buon padre di famiglia), ma i discepoli sono associati nella distribuzione

=> l’annunzio

=> la carità

=> la dimensione escatologica

4. ORATIO


Benedizione


Ringraziamento


Supplica


Intercessione


Lode


 

sabato 16 dicembre 2017

C’è una certa mentalità devozionistica e pietistica mai veramente superata, che ogni anno trova il suo centro nella commovente visione di un Bambinello che se ne sta nudo “al freddo e al gelo”, messo lì apposta a intenerire il cuore, ma poi subito da accantonare finite le feste, per paura che quel Bambino possa crescere e che magari poi da adulto ci obblighi a provare altri sentimenti che non sono più il ciarpame melenso di un buonismo di bassa lega. Allora bisogna “addomesticare” il cresciuto Bambinello così che non ci dia troppi grattacapi e ci lasci in pace, perché in fondo, non è veramente questo che vogliamo? Una lacrimuccia ogni tanto fa bene, ma averlo sempre tra i piedi…! E così il Bambinello bianco e rosa, tutto biondo oro e occhi azzurri diventa un Gesù tutto zucchero e miele, ai limiti della effeminatezza, che parla con le frasi d’amore come se fossero i bigliettini che si trovano nei baci perugina: non ha detto lui stesso di essere “mite ed umile di cuore”? Un Cristo buono per tutti  e per tutte le stagioni! Un Gesù che non scomoda più nessuno, che non incrina più nessuna certezza, che non provoca più alcuna reazione! Ma voi credete che se fosse stato veramente così “innocuo” sarebbe finito in croce? Io confesso di avere una grande paura: che se oggi il Cristo che noi predichiamo è davvero questo “sacrocuore” sdolcinato che non guasta più i sonni a nessuno, noi stiamo rendendo vana la stessa sua croce, e questo è un ammonimento di Paolo che forse una certa parte di Chiesa non sta tenendo in dovuta considerazione. Perché, e lo sapeva bene Paolo, tutta l’esperienza di fede cristiana o è vissuta all’insegna dello “scandalo” (e, per chi lo incontra, Cristo è e deve essere sempre pietra di inciampo, cioè scandalo) e della “follia” (e conversione in greco è appunto “metà-noia”, cioè letteralmente un “andare fuori di testa”) o altrimenti si riduce alla sua antitesi che è il perbenismo borghese e moraleggiante, proprio ciò che Cristo prima e Paolo dopo combatteranno nel fariseismo giudaico. Scrivo questa mia confessione dietro l’ennesima accusa di essere “rigido” e “poco duttile”, ma mi chiedo se  l’aspetto serio e mai sdolcinato e mai ipocrita e mai affettato può mai essere una colpa?  E il richiedere ai fedeli che mi sono stati affidati coerenza con il vangelo, il chiedere, a volte anche ammonire che non si possono servire due padroni, non è compito del buon  Pastore? Ricordare ai fedeli di venire a Messa è rimproverare? Chiedere la frequenza a Messa specie ai ragazzi del catechismo è trattarli male? Dire di no a chi mi chiede un certificato falso d’idoneità alla cresima per un figlio che non conosco nemmeno è negare un favore? Negare la cresima a chi è venuto solo il giorno dell’iscrizione è commettere ingiustizia? e allora sono andato a rileggermi in due notti tutti e quattro i vangeli per vedere se il mio comportamento fosse così a volte “poco evangelico”.  E così vi ho ritrovato il volto di un Cristo che forse qualcuno non immagina o non vuole immaginare. E’ un Cristo cosciente del suo ruolo (“Vi è stato detto  ma io vi dico”) e che pone con decisione agli ascoltatori la richiesta di non restare indifferente alle sue parole (“Convertitevi”) e che subordina la conversione, cioè il cambiamento di vita all’ingresso nel suo Regno (“se non vi convertirete non entrerete); un regno il cui ingresso è stretto (“entrate per la porta stretta”) e comporta rinunce (“chi non lascia casa…”) e sacrifici (“se la tua mano ti è di inciampo tagliala”). E’ un Cristo che ai suoi  interlocutori  pone davanti l’irrevocabilità della scelta (“o con me o contro di me”) senza compromessi (“non si possono servire due signori”) e senza “inciuci” (“non si mette vino nuovo in otri vecchi”) di una sequela in un cammino in cui egli stesso è il primo a mettere in pratica i suoi insegnamenti (“chi mi vuol seguire prenda la sua croce…”) e che non assicura altro ai suoi discepoli che lo stesso trattamento che hanno riservato a lui: odio e persecuzione (“Hanno perseguitato me, perseguiteranno anche voi”).  E’ un Cristo che sconvolgerà la sua famiglia (credevano che fosse diventato pazzo), i suoi concittadini di Nazaret (che lo scacceranno dalla sinagoga e dalla stessa sua città), e soprattutto poi la schiera dei benpensanti: scribi, farisei, sacerdoti e affini (diremmo oggi: teologi, laici impegnati e clero!) che, prima di intuire pienamente tutta la sua pericolosità di sovvertitore dell’ordine stabilito, bontà loro lo considerarono un indemoniato e ai quali riserverà gli appellativi più duri (“Ciechi guide di ciechi”, “Razza di vipere”, “serpenti”, “figli del diavolo”, “uomini senza amore di Dio” e più frequente “ipocriti”, “stolti”). E’ il Cristo che biasima le città che non lo hanno accolto, che piange di rabbia e di delusione su Gerusalemme, la cui collera spesso trabocca per l’incredulità di chi viene a lui solo per tendergli tranelli (“Generazione malvagia/adultera/ incredula/perversa fino a quando vi sopporterò?”), che non esita a minacciare e rimproverare e finanche ad abbandonare gli stessi apostoli quando si vede incompreso anche da loro per ritirarsi nella sua solitudine. E’ il Cristo che scaccia con una frusta di cordicelle i venditori del tempio e maledice e fa seccare un fico! E’ il Cristo non solo delle beatitudini ma anche del grido profetico tremendo e temibile del “Guai” (guai ai ricchi, a chi è sazio, a chi ride, a colui di cui tutti parlano bene, agli scribi e farisei ipocriti) che fa presagire l’arrivo imminente del giudizio di Dio, del giorno del Signore in cui per chi non sarà trovato pronto sarà solo “pianto e stridore di denti”. E’ il Cristo che sa che la sua venuta serve a mettere in chiaro i meandri misteriosi dei cuori e a farne uscire le contraddizioni (“Non crediate che sia venuto a gettare pace sulla terra, non sono venuto a gettare pace ma spada/ fuoco e divisione”): e per questo chi vorrà seguirlo scoprirà che la prima divisione è quella della famiglia! Questo è il Cristo dei vangeli, non certo l’uomo dei pannicelli caldi che purtroppo siamo abituati a pensare! Ma allora  la pace di Cristo, la sua bontà, il perdono e tutto il resto? Certo, ci sono anche quelli nel vangelo, ma guai a far diventare questi suoi doni come il frutto di accomodamenti della verità, di silenzi complici del peccato, di rinunce a praticare la giustizia.  Questo è il Cristo in cui credo, che non abbassa la qualità delle sue richieste pur di aumentare il numero dei suoi seguaci: dopo che l’ha abbandonato il popolo a Cafarnao, ai discepoli che si lamenteranno che il suo era un “discorso troppo duro” non dirà “ora vedo di alleggerirlo” ma “volete andarvene anche voi?” Perché lui ci ha dato il massimo ed è giusto che a noi chieda il massimo! E io penso che un prete questo massimo debba tentare di darlo lui e di chiederlo dai suoi parrocchiani. Perché gli sconti non li ha fatti Cristo né li può fare la Chiesa. Si fanno solo al supermercato. E allora, cari miei soliti quattro lettori, questo è il mio augurio per il Natale (che, ricordiamolo, è la sua festa): vi interessino o meno le esternazioni di un povero prete, poco importa, ma almeno abbiate il coraggio, credenti o non credenti, quest’anno, di lasciarvi provocare dalla venuta del Cristo, quello vero!

venerdì 24 novembre 2017

Non si può uccidere in nome di Dio


A qualche anno di distanza dal Documento sulla radice religiosa della violenza, l’augurio della Commissione Teologica Internazionale sembra quasi essere ripreso da una pubblicazione, quella del Rabbino Jonathan Sacks, dal significativo titolo Non nel nome di Dio[1]. Con questo libro, che sembra quasi ripetere il grido, purtroppo tanto inascoltato dei Pontefici dagli inizi di questo secolo fino a Benedetto XVI e Francesco, che non si può uccidere nel nome di Dio, anche Sacks, stavolta dal punto di vista ebraico, ha voluto confrontarsi, come dice nel sottotitolo stesso, con questa provocazione ideologica sulla radice religiosa della violenza.

Il saggio del Rabbino Sacks è davvero una voce forte e chiara che si leva per disinnescare la miccia della violenza terroristica attribuita indistintamente a tutti i monoteismi. Nato per reagire all’ondata di terrorismo di matrice islamica che sta scuotendo da alcuni anni l’Occidente[2], il libro si apre con questa fondamentale affermazione: <<Quando la religione trasforma gli uomini in assassini, Dio piange>>[3]. Ed è inoltre significativo perché viene da parte di un ebreo che cerca di superare pure l’idea che ebraismo ed islamismo debbano per forza essere nemici e che l’islam debba per forza imboccare la strada della intolleranza e della violenza. Per argomentare le sue tesi, Sacks svolge il suo saggio con un lungo itinerario su più piani, dallo storico all’esegetico allo spirituale, che si intersecano tra loro (magari con qualche ripetizione o semplificazione) ma che alla fine conducono il lettore a convincersi davvero che, se si vuole, ci sono davvero alternative alla violenza e che tante vie di dialogo rimangono aperte e tante se ne possono ancora aprire.

Il libro è articolato in tre parti.

La prima parte si intitola Malafede e parte dalla costatazione dell’uso strumentale che spesso si è fatto e si fa della religione per fini utilitaristici o per logiche di potere o anche per certe letture ideologiche e fondamentaliste dei libri sacri. Anche Sacks reagisce alla tesi per cui il politeismo sia la religione della tolleranza, affermando invece che <<la religione, sotto forma del politeismo è entrata nel mondo come giustificazione del potere>>[4] rilevando come nei riguardi di questa concezione <<il monoteismo abramitico emerse come una potente protesta>>[5]. Così come reagisce alla tesi che per superare la violenza di cui si dà per scontato la sua matrice religiosa, si debba togliere la religione dallo scenario della vita pubblica della società, per sradicarla dalla coscienza dell’uomo o quantomeno relegarla nella sfera intima e privata della persona. L’autore cita in proposito[6] la famosa canzone di John Lennon Imagine che sogna un mondo in cui non ci sarà più la religione e quindi non ci sarà più bisogno di uccidere o morire per essa: un sogno che ha affascinato l’intera beat generation ma che ha radici ben più antiche che partono dall’epoca moderna e dalla rivoluzione illuminista e passano per lo scientismo positivista, il darwinismo, per sfociare nel nichilismo di Nietzsche, nei totalitarismi, in ogni laicismo di sorta accumunati dal solo grido “Dio è morto”  e nel tentativo di imporre con la forza e la violenza un nuovo ordine di cose. Ironicamente Sacks chiama questo tentativo la malvagità altruistica perché in nome di un presunto beneficio per l’umanità si perpetrano i più atroci delitti contro la stessa umanità: basti pensare non solo all’intollerante illuminismo che imponeva il culto alla Ragione, ma anche alle nuove idolatrie del nazismo e delle varie forme di comunismo realizzate in alcune contesti geopolitici del mondo, in cui in definitiva si rivela invece la logica violenta del potere[7]. Pur ammettendo che ci sono stati determinati periodi storici in cui la logica di potere si è insinuata anche nel cuore dell’esperienza religiosa (si vedano ad esempio le guerre di religione che hanno insanguinato l’Europa nei secoli passati) il rabbino americano nega che la soluzione stia nel sognare un futuro senza religione. La vera domanda, scrive, è chiedersi <<cos’è che, in primo luogo, rende le persone violente?>>[8]. Per cui nel capitolo secondo Violenza e identità si riconosce che la violenza è generata dalla malvagità, cioè dal tentativo egoistico di affermazione e sopraffazione di un individuo sull’altro, perciò si ribadisce invece la necessità di una esperienza etica che fondi le regole della convivenza civile, creando le basi per una fiducia reciproca che superi l’homo homini lupus, magari supportata da una esperienza religiosa genuina. Cosa si intende qui per genuinità? Anzitutto il superamento di una concezione dualistica della religione in cui bene e male sono contrapposti e provengono da opposte radici, così da far leggere dualisticamente non solo la divinità ma anche il mondo e i rapporti umani: il rischio è che quando un gruppo umano, ad esempio, identifica se stesso con il bene, ne deriverà che tutti gli altri gruppi saranno visti come il male e da qui l’inevitabilità dell’antagonismo che spesso degenera in violenza. E’ quanto vien detto nel capitolo terzo, Dualismo. In una concezione dualista, l’identità personale è sempre letta in contrapposizione all’altro: si pensa sempre con un “io e gli altri” o “noi e loro”. In fondo, scrive l’autore è un modo semplicistico di ragionare e di risolvere la complessità dell’esistenza: ecco perché <<il dualismo è un’idea pericolosa, e la visione tradizionale della Chiesa e della Sinagoga fecero bene a respingerla… Il dualismo patologico fa tre cose. Fa disumanizzare e demonizzare il nemico. Porta a vedere te stesso come una vittima. E ti permette di commettere della malvagità altruistica, uccidendo in nome del Dio della vita, odiando nel nome del Dio dell’amore e praticando la crudeltà nel nome del Dio della compassione>>[9]. Il superamento del dualismo nell’autentico monoteismo è la condizione, dunque, per uscire da queste logica di contrapposizione. Monoteismo autentico si dice, perché, ci avverte Sacks, il dualismo è un virus che si può annidare nello stesso monoteismo e perciò bisogna sempre vigilare che ciò non accada.[10] Inoltre, si comincia a comprendere proprio da ciò la radicale diversità del monoteismo di origine biblica: nel Dio che si rivela nella storia del popolo ebraico, il dualismo è ricompreso nell’unità stessa di Dio che crea il bene e il male (per richiamare Isaia), la luce e le tenebre, che sa mettere insieme sempre in modo originale la giustizia e la misericordia, la vendetta e il perdono. E’ il superamento del dualismo che può far uscire dalla logica della ricerca del capro espiatorio, fenomeno analizzato nel capitolo quarto, e della rivalità fraterna, fenomeno analizzato nel capitolo quinto e ampiamente studiato da Renè Girard. Ci può essere dunque un modo diverso di intendere il rapporto personale, che non cada nella contrapposizione dualistica e nella conflittualità radicale apparentemente insita nella stessa esperienza della fraternità, come apparentemente sembra suggerirci lo stesso testo biblico a partire dalle storie della rivalità tra fratelli, da Caino e Abele in poi per arrivare a Isacco e Ismaele e a Giacobbe ed Esaù Sacks analizza qui i vari racconti biblici spingendo il lettore ad andare nella profondità del testo, senza fermarsi alla superficie, per cogliere un senso non apparente e non scontato del racconto, che anzi spesso si rivela essere l’opposto di quanto comunemente si intende.

Questa, crediamo, sia la parte veramente originale e creativa del contributo di Sacks al dialogo e per una spiritualità di pace e non violenza. E’ la seconda parte del saggio, dal significativo titolo di Fratelli.  Il nostro rabbino entra subito nel cuore del problema, col capitolo sesto I fratellastri, in cui esamina la vicenda di Agar col figlio Ismaele e di Sara col figlio Isacco e si chiede se davvero i fratellastri figli di Abramo siano condannati, e con loro anche i loro discendenti (non dimentichiamo che i musulmani si rifanno ad Ismaele come al figlio che Abramo stava per sacrificare e da cui discenderebbero i popoli della Arabia e a cui si attribuirebbe la stessa fondazione del culto alla Mecca), alla rivalità e alla violenza reciproca ieri come oggi. Come dicevamo prima, una lettura superficiale sembrerebbe far dire alla Bibbia che Dio faccia preferenze tra i due fratelli e che, nella elezione di Isacco ci sia, di risvolto, il respingimento di Ismaele. Ma Sacks ci aiuta a leggere con attenzione il testo e ci fa notare come, già nel racconto, Dio accordi protezione ad Agar e al figlio, con la promessa di una benedizione accordata ad Ismaele e mai revocata. Così che, se Dio poi scelga di proseguire il patto fatto con Abramo con il figlio Isacco, ciò non significa l’abbandono di Ismaele al suo destino. E’ la dimostrazione che siamo in presenza di due vocazioni, di due ruoli storicamente diversi ma che non sfociano necessariamente nella contrapposizione. Sacks lo dimostra non solo facendo ricorso al midrash, tecnica eminentemente rabbinica per leggere la Bibbia anche fra le sue righe, in cui si vede come il padre Abramo, pur nella scelta obbligata di tenere con sé solo Isacco, non smise mai di amare e di interessarsi della sorte dell’altro figlio; ma Sacks lo mostra ancor meglio ricordando un testo biblico spesso tralasciato se non ignorato, quello in cui, in Genesi 25, si parla della morte di Abramo e si dice che lo seppellirono entrambi i figli insieme: ciò fa intendere come, in nome dell’unica paternità, i due figli, pur con destini diversi, sono in grado di vivere una vera esperienza di fraternità.

Nel segno di una fraternità ritrovata è letta poi, nel capitolo settimo La lotta con l’angelo,  la vicenda di Giacobbe ed Esaù. La storia dell’inganno e della fuga di Giacobbe è risaputa. Anche qui Sacks, rileggendo le pagine sacre, mostra come, a ben vedere, le vocazioni e i destini dei due fratelli sono già delineati e distinti, per cui non ci sarebbe stata ragione per Giacobbe di invidiare Esaù e insidiarlo per avere la sua benedizione, quando in realtà per ogni fratello era prevista una benedizione, e quindi una vocazione diversa. In questo senso, la lotta misteriosa con l’angelo da cui Giacobbe esce vincitore, seppur sciancato, rappresenta anche il momento in cui Giacobbe prende consapevolezza del suo ruolo nell’economia del popolo che da lui si chiamerà Israele, ben diverso da quello del fratello, che perciò può incontrare in una rinnovata esperienza di fraternità, ricevendo, proprio dal fratello ingannato, una lezione di magnanimità e di accoglienza, dimentica della rivalità passata.

Dove poi il recupero della fraternità, nel rifiuto della vendetta e nella disponibilità al perdono, è messo ancora più in luce, è nel capitolo ottavo, Il rovesciamento dei ruoli, con la rilettura della vicenda di Giuseppe venduto schiavo dai suoi fratelli. E’ una storia che inizia con la gelosia e l’invidia, ma che si chiude nel segno della fraternità. Per arrivare a ciò Giuseppe trova l’unico modo pedagogicamente valido: far sperimentare ai fratelli la stessa sofferenza della prigione, del sospetto, della accusa calunniosa. Spesso, è la considerazione di Sacks, il superamento della rivalità potrebbe darsi nella misura in cui ognuno provasse a mettersi nei panni degli altri e con ciò scoprire come noi stessi siamo ora vittima di uno stesso trattamento che noi per primi abbiamo inferto agli altri. E’ l’esperienza della verità della regola d’oro: non fare agli altri quello che non vuoi sia fatto a te / fai agli altri quello che vuoi sia fatto a te. In questo cammino di conversione, di rientro in se stessi, il perdono accordato da Esaù a Giacobbe come quello di Giuseppe ai suoi fratelli, dimostra come nessuno, se lo vuole, è destinato a rimanere legato al suo passato: chi vuole può essere anche in grado di rileggere il passato in modo che non blocchi il suo cammino ma che lo apra alle tappe nuove della vita futura, senza blocchi che gli impedirebbero di crescere.

Sacks richiama poi il grande ruolo del padre nell’aiutare i figli a vivere la fraternità, così per Abramo, così per Isacco, così per Giacobbe, anche quando sembra che questi prendano le parti di uno a discapito di un altro: qui davvero Sacks è illuminante nel dimostrare che l’essere di parte di un padre per un figlio non significa mai lo schierarsi contro l’altro figlio. Se solo lo si capisse! Altrimenti, ad esempio, non si riesce a capire come l’elezione di Israele da parte di Dio possa andare insieme con la volontà salvifica nei riguardi di tutti i popoli. Come comprendere ciò è detto nel capitolo nono Il rigetto del rifiuto, ed è esemplificato dalla storia di Lia e Rachele. L’autore fa osservare come nel testo venga detto che Giacobbe sposi Lia e ami anche / gam Rachele. La vicenda è un modo per uscire dalla logica dell’aut – aut per entrare in quella dell’et – et. Per giustizia Giacobbe sposa entrambe, e le ama. E la preferenza di un amore maggiore per una delle due non significa, non può e non deve significare, esclusione per l’altra. Amare uno non significa per forza odiare l’altro!  Ritorna così il tema di inizio, che ne costituisce poi il centro: l’amore per l’uno non significa il rigetto per l’altro, l’amare uno più di un altro non significa che l’altro non sia amato o che sia addirittura odiato e rifiutato. Anche qui Sacks è illuminante. L’amore è una esperienza umana, quella che fonda i legami tra amici e parenti, e non può essere elusa o disattesa: <<Un mondo in cui amassimo gli estranei quanto gli amici, i non parenti come i parenti, i figli di qualcun altro come i nostri, non sarebbe umano… Il quesito che pone è: come dobbiamo vivere – noi che siamo umani, che abbiamo passioni, piaceri, desideri, amori e quindi vulnerabilità? Un amore che non facesse distinzioni, che fosse remoto, distante, che non facesse discriminazioni, non sarebbe affatto amore per un altro essere umano nella sua particolarità>>[11].

Ma l’amore non è l’esperienza l’unica ed assoluta. Se umanamente l’amore può essere misurato sempre a partire dalla sua presenza o assenza o dal più e/o dal meno rispetto ad uno piuttosto che ad un altro, ciò non vuol dire che ciò comporti anche il venir meno di quell’obbligo di giustizia per cui, lo si ami o meno, occorre “dare a ciascuno il suo” come recita l’antica massima romana. Ciò significa il riconoscimento del ruolo e della prerogativa, nel caso biblico anche della vocazione, di tutti e di ognuno in particolare. Può anche essere che un padre ami un figlio più di un altro, e che il pericolo della rivalità fraterna sia naturale, ma ciò non è inevitabile: la Bibbia insegna che alla fine i fratelli sono chiamati al superamento della rivalità. E per farlo capire, a volte, Dio è pronto a schierarsi dalla parte del più debole o di chi sembra essere stato rifiutato: ecco perché Sacks parla della rivalità tra Caino e Abele[12] solo alla fine, in quanto prototipo di ogni rivalità. Caino non capisce che l’amore di Dio (come un padre) per Abele non significa mancare ai suoi obblighi di giustizia verso di lui: glielo dimostrerà quando alla fine imporrà il divieto di uccisione per l’omicida Caino. Dio ama Abele, ma non rigetta Caino! Così come nel patto con Noè dopo il diluvio Dio, che sceglie per amore il popolo ebraico, non rigetta per ciò tutti gli altri popoli.

Questo lungo excursus lungo le pagine della Scrittura è servito a Sacks per poter affermare che la rivalità (e quindi la violenza) fra i popoli non è inevitabile: e ciò lo dimostra nella terza parte del suo saggio dal titolo Il cuore aperto.

Così nel capitolo decimo, Lo straniero, viene ricordato come, per vedere nell’altro non può lo straniero, il rivale, il nemico, occorre la purificazione dello sguardo che nasce dal compenetrarsi nei panni dell’altro, chiedendosi cosa proverei io se fossi al posto dell’altro: amare l’altro in quanto altro è certo difficile, ma se nell’altro specchio me stesso, all’ora in un certo senso si può dire che amo l’altro come me stesso. Esemplificando: posso amare lo straniero solo se provo a pensare cosa significhi essere esuli dalla propria patria; e se poi davvero ho sperimentato ciò, non potrò fare a meno di avere comprensione e accoglienza per lo straniero che chiede ospitalità a casa mia, perché anche io sono stato straniero e forestiero, esule in Egitto. E’ in sintesi l’insegnamento della Bibbia.

In questo contesto si capisce l’approfondimento ulteriore fatto al capitolo undicesimo L’universalità della giustizia, la particolarità dell’amore. E’ la spiegazione del particolarismo del monoteismo ebraico: da un lato il Dio visto come Creatore e Sovrano dell’universo e dall’altro il Dio come colui che sceglie Israele. Quella che sembrerebbe una antitesi si rivela invece come la garanzia per la libertà dei singoli e dei popoli nei riguardi Dio, per espungere alla base ogni idea di intolleranza e quindi di violenza. Pur prendendo atto, dopo il diluvio, che nel cuore umano si annida il male, Dio rifiuta in futuro di distruggere il mondo con un nuovo diluvio: è la condiscendenza di Dio verso la reale condizione dell’uomo. Ma nel rifiuto della omologazione, con l’episodio della torre di Babele, Dio conferma il rispetto per ogni particolarismo (espresso dalle lingue diverse) contro ogni forma di totalitarismo: <<Babele è ciò che accade quando le persone cercano di imporre un ordine universale, obbligando Loro a diventare Noi. Il risultato è l’imperialismo e la perdita della libertà. … Quando una singola cultura viene imposta a tutti, sopprimendo la diversità di lingue e tradizioni, questo è un attacco alle nostre differenze donateci da Dio>>.

Arrivando alle conclusioni, allora, si deve dire che il punto di partenza di un autentico dialogo è il riconoscimento dell’inevitabile diversità dell’umanità. L’identità è plurale: non c’è una umanità in astratto, c’è l’umanità dei popoli e delle culture. Come superare la violenza, evitando che l’incontro fra popoli degeneri in uno scontro? Il Dio della giustizia della Bibbia ci ricorda che c’è una moralità, un’etica che riguarda tutti: <<giustizia, correttezza, e l’evitare di recare offesa sono quello che dobbiamo a chiunque, ebreo o gentile, credente o ateo, amico o estraneo, connazionale o straniero>>[13].

E’ in concreto, quella di Sacks, la ripresa della distinzione ebraica tra il patto con Noè e il patto con Abramo. Lo stesso Dio anzitutto vuole giustizia tra tutti i popoli, al di là se poi lui stesso instauri un rapporto privilegiato con un popolo in particolare. Ma il privilegio non esime lo stesso Israele dal rispettare gli obblighi di giustizia fondamentali. E’ per ciò poi che Dio, rispettando la libertà, non ha imposto lo stesso culto a tutti i popoli. Anche perché poi la stessa appartenenza alla alleanza di Abramo, o meglio la permanenza in essa, è data, al di là dei vincoli di sangue, dal cammino di obbedienza della fede e, in caso di disobbedienza, dal cammino di ritorno, teshuvà, conversione.

In questo contesto Sacks ricorda che c’è sempre un cammino di comprensione e di purificazione da fare per evitare una lettura fondamentalista e integralista della stessa Scrittura: è quanto fa al capitolo dodicesimo Testi difficili. E’ quanto ha dovuto fare il giudaismo col rileggere in chiave spirituale testi nati per altri contesti e che oggi potrebbero generare equivoci e inganni: ad esempio, con l’intendere in Amalek non tanto un nemico storico ben preciso, quanto la personificazione del male e del Nemico per eccellenza che tenta sempre il popolo di Dio e che cerca di sbarrargli la strada dell’obbedienza ai suo comandi. Una lettura che nasce anche dalla costatazione che una realizzazione storica di una ierocrazia, di uno stato in cui sacro e profano si supportano a vicenda, non è nelle prospettive della identità di Israele e della sua missione fra le genti. E’ quanto però si auspica venga fatto in certe letture di passi del Corano che potrebbero dare la stura a tentativi di imporre fanaticamente con la violenza il culto all’unico Dio.

Per far ciò si deve Rinunciare al potere, come è detto al capitolo tredicesimo. Si deve rinunciare ad ogni sogno di teocrazia, cioè di esercizio del potere politico. Sacks ricorda appunto come prima lo abbia compreso Israele, poi la stessa Chiesa, ora debba comprenderlo l’Islam. E’ un cammino di purificazione già delineato nella Bibbia: basti pensare all’episodio di Elia che pensa di imporre la fede in Dio con la forza e con l’uccisione dei profeti di Baal. Ma alla radice di questa volontà di potere c’è l’odio per il diverso: il frutto estremo dell’egoismo narcisista.

Liberarsi dell’odio è perciò quanto si dice al capitolo quattordici. E per far ciò bisogna superare la volontà di potenza e riaffermare la volontà della vita, come è detto nel capitolo finale, in cui tirando le somme di questo lungo discorso si conclude: <<ora è giunto il tempo per gli ebrei, i cristiani e i musulmani di dire ciò che non hanno detto nel passato: Siamo tutti figli di Abramo. E sia che siamo Isacco o Ismaele, Giacobbe o Esaù, Lea o Rachele, Giuseppe o i suoi fratelli siamo tutti preziosi agli occhi di Dio. Siamo benedetti. E per essere benedetti  non è necessario che qualcuno sia maledetto… Oggi Dio ci chiama, ebrei, cristiani e musulmani, a liberarci dall’odio e dalla sua predicazione, e a vivere, finalmente, come fratelli e sorelle, fedeli alla nostra fede e ad essere una benedizione per gli altri a prescindere dalla loro fede, rendendo onore al nome di Dio onorando la sua immagine, l’umanità>>.[14]

Al di là della diversità di genere e perciò di linguaggio si noti come questa analisi del rabbino concordi in tutto con quella fatta dal Documento della Commissione Teologica Internazionale da noi esaminato precedentemente.

Dal rifiuto che il monoteismo sia alla origine della violenza, al rifiuto dell’idea del politeismo tollerante, alla costatazione che la lotta alla religione abbia generato invece i grandi totalitarismi, alla lucida analisi della odierna secolarizzazione e alla ripresa del fanatismo intollerante, dall’evidenziare come la radice del male stia nel cuore dell’uomo, dall’evidenziare come la vera matrice biblica sia un appello all’amore, alla giustizia e alla fraternità, dal bisogno che comunque ogni esperienza religiosa rigetti ogni tentazione di uso diretto del potere o di connubio con chi lo detenga, dall’esigenza di sottoporre sempre l’esperienza religiosa alla verifica critica per evitare l’annidarsi in essa di letture integraliste, dalla voglia di mostrare il contributo che una autentica esperienza di fede può dare alla costruzione di una società più giusta e umana, senza chiusure e infingimenti.

In questo cammino cristiani ed ebrei ci sentiamo accomunati dalla fede nell’unico Dio che ci chiama al banchetto preparato sul suo santo monte e al quale sono chiamati ad affluire tutti i popoli, in un’era in cui, per dirla con Isaia, non ci eserciterà più nell’arte della guerra e le lance saranno trasformate in falci e le spade in vomeri.

Voglia il Signore che in questo cammino si possano unire anche altri popoli e che sia lui stesso a dirigere i nostri passi sulla via della pace.

 



[1] SACKS JONATHAN, Non nel nome di Dio. Confrontarsi con la violenza religiosa. Giuntina, 2017, pp. 314.
[2] cfr. ivi, pp. 13-20.
[3] SACKS, o.c., p. 13.
[4] Ivi, p. 14.
[5] Ivi.
[6] Ivi, p. 22.
[7] cfr. tutto il cap. 1: La malvagità altruistica.
[8] Ivi, p. 37.
[9] Ivi, p. 66.
[10] Ivi.
[11] Ivi, p. 183.
[12] Ivi, p. 185.
[13] Ivi, p. 210.
[14] Ivi, p. 280.

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