mercoledì 31 dicembre 2014

anno nuovo?


Mi è stato chiesto di scrivere un augurio per Natale alla città. Ma ammetto che dopo averci pensato mi è riuscito difficile. Natale, tutto sommato, è una festa di “parte”, in cui al limite qualcuno potrebbe anche non ritrovarsi, come dicevamo nel numero scorso, Capodanno invece è una festa che ognuno, da qualsiasi estrazione provenga, può condividere. Allora voglio un po’ disubbidire al mio mandato e fare un augurio alla  mia città per il nuovo anno.
Chi non si augura infatti, ad ogni inizio d’anno, lo voglia ammettere o meno, qualcosa di bello, di più bello, di nuovo e di grande per se, per la propria famiglia, per i propri amici, per il paese in cui vive, per il mondo intero?
Ecco dunque i miei auguri per la mia città.
Con la speranza che vengano colti proprio per quello che sono: auspici dettati solo da un immenso amore per   Scicli e non da logiche dettate da pregiudizi ideologici e men che meno politici.
Il mio primo augurio riguarda i nostri bambini, come ho scritto nel mio messaggio mandato al convegno sui minori a Scicli. Io parto dalla mia esperienza: ricordo con piacere la mia infanzia perché in questa ho ancora avuto modo di sognare. Se dovessi dire cosa manca oggi ai bambini è proprio questa capacità di sognare. Ho come l’impressione che, paradossalmente, mentre sembra che i bambini siano al centro dell’attenzione di tutti (famiglie, scuola, chiesa, associazioni) in realtà vivano una vita non loro, alienati in giochi, attività scolastiche e parascolastiche, hobbies e sport spesso più che scelti da loro, calati quasi dall’alto a esprimere ed esaudire più i desideri dei grandi che gli stessi desideri dei piccoli. Stiamo allevando piccoli automi maghi dei cellulari e dei computer che non hanno più fantasia, che non sanno inventare più un gioco, che non sanno neanche gioire del semplice stare insieme, la cui vita sembra una parodia di quella di noi adulti. La stessa televisione che a noi stimolava a popolare come Peter Pan l’Isola-che-non-c’è, adesso sembra  che riesca solo ad intontire e togliere ogni reattività. Ma noi avevamo la strada! Ecco, credo che ai ragazzi di oggi manchi quella grande educatrice che è la strada! Perché strada significa dire appropriazione del quartiere, conoscenza, comunione, dialogo, trapasso di cultura dai più grandi ai più piccoli, solidarietà, e magari anche un po’ di rischio perché anche questo ci vuole per dare sicurezza ad un bambino che cresce! Perciò partirei provocatoriamente da questo augurio: che le “agenzie educative” si adoperino perché la strada ridiventi a Scicli un “luogo” educativo. Partiamo dalle bambinopoli in ogni quartiere? E poi un po’ più di pulizia? E anche più vigilanza?
E dai bambini ai ragazzi e ai giovani: mi auguro di non vedere più ragazzi e giovani sbracati, annoiati, senza stimoli e senza senso tra sedili di piazze e scalinate varie. Perché dalla noia alla ricerca di “divertissement” suicidi il passo è breve: diciamolo con franchezza, adesso che abbiamo smesso di preoccuparci della riapertura del Cinema Italia, quando ammetteremo di avere davanti a noi nuove generazioni in cui il tasso di alcolizzati e drogati sta crescendo a vista d’occhio?
Ma perché questo augurio si avveri credo che vada indirizzato non ai giovani ma alle famiglie, alle istituzioni educative e alle forze dell’ordine, alle parrocchie e alle associazioni ecclesiali (in cui un riflusso intimistico o un impegno ipersociologico sono i due estremi che non riescono a coinvolgere più i giovani), alle classi politiche e ai partiti che hanno la gravissima responsabilità di aver mostrato della politica solo la faccia sporca e corrotta o che pensano ai giovani solo in termini di nuovi rampolli da allevare e plagiare, ad una parte di “intellighentia” cittadina che si è ritirata in un Parnaso dorato e che ha perso tutti i contatti con la realtà della vita e dei problemi di tutti i giorni e all’altra parte dell’intellighentia che, per non schierarsi con chi crede ancora che l’unico modo di fare l’intellettuale sia quello di essere “organico” (al potere o al partito che sia) e con chi suona i pifferi della rivoluzione, si è ritirata invece in un Aventino in cui preserva si la sua purezza ma a prezzo del suo silenzio. 
E poi un augurio ai poveri e a quelli che stanno correndo il rischio di diventare poveri o più poveri: perché a Scicli è in atto un’involuzione e chi sta in alto dovrebbe essersene accorto già da tempo. Mi auguro che l’attenzione per loro non sia fatta solo di carità e di sussidi estemporanei che non vanno alla radice del problema.
E inoltre un augurio agli anziani: auguro loro oltre a tutte le altre attività ricreative anche attività che possano mettere a tesoro tutta la loro ricchezza ed esperienza e anche che continuino a stimolare la loro intelligenza: perché non pensare ad una Università della terza età, ad esempio?
E poi? Un augurio a tutti gli stranieri che si trovano a Scicli per lavoro: che siano sempre più accolti e non emarginati, ma che nemmeno loro però vogliano estraniarsi o rifiutare un inserimento rispettoso nella nostra cultura.
Infine un augurio per tutti: perché cresca il nostro senso del bene comune e il nostro senso civico: stiamo diventando un po’ strafottenti e maleducati, non vi pare? E questo non è bello come biglietto di visita di una città che vanta secoli di civiltà e di cultura!
E un augurio particolare per chi in un modo o in un altro ha un ruolo educativo nella nostra città:  se provassimo tutti insieme ad ascoltare i bisogni della base invece di far calare progetti dall’alto? O invece di lavorare ognuno per suo conto, magari intralciandoci a vicenda, perché non proviamo a camminare insieme?

domenica 28 dicembre 2014

la sacra famiglia


La chiesa oggi ci propone l’icona della santa famiglia come icona su cui ogni famiglia si deve specchiare per essere una vera famiglia cristiana.
La colletta di inizio ci ha fatto pregare che le virtù che arricchivano la santa famiglia devono essere le stesse virtù che arricchiscono ogni famiglia cristiana.
La festa di oggi dà l’occasione alle nostre famiglie, a noi qui riuniti per verificare se viviamo in quella stessa esperienza di fede che ha animato la santa famiglia.
E’ il momento di fare un serio esame di coscienza.
Se nella mia famiglia Dio non è al centro, la sua parola non illumina le scelte della vita, non ci si educa all'osservanza dei suoi comandamenti: la mia non è una famiglia cristiana!
Se si vive nell'idolatria del successo, della ricchezza, dell’arrivismo: la mia non è una famiglia cristiana!
Se nella mia famiglia non si prega mai insieme, se non si va a messa insieme, se non si ringrazia il Signore all'inizio e alla fine della giornata, se non lo si loda per il cibo con cui egli ci nutre: la mia non è una famiglia cristiana!
Se non si santifica la domenica con l’eucaristia e il riposo: se la domenica è il giorno in cui genitori e figli si poltrisce a letto oppure è il giorno in cui c’è spazio per scampagnate e sport e non per il Signore e i fratelli: la mia non è una famiglia cristiana.
Se i rapporti tra genitori e figli sembrano più quelli di una brigata cameratesca che non il rispetto e la devozione filiale dei figli verso i genitori  e la dedizione amorosa ma esigente dei genitori: la mia non è una famiglia cristiana.
Se non freno l’egocentrismo dei figli: il mio non è amore di padre e madre
Se sono ridotto a fare lo schiavo e il cameriere dei miei figli: il mio non è amore di padre e di madre.
Se non vigilo su film che vedono i miei figli, i giochi che fanno con la play station, i collegamenti al computer che fanno, se accetto che anche da piccoli abbiano la televisione in camera: il mio non è amore di padre e di madre
La mia non è una famiglia cristiana.
Se accetto passivo che linguaggio e gesti e mentalità della visione edonistica, materialistica, che riduce tutto l’uomo a sesso e ad erotismo, sia il linguaggio e la mentalità predominante nella mia famiglia: la mia non è una famiglia cristiana.
Se accetto che i miei figli piccoli abbiano una visione distorta del sesso e del rapporto tra i sessi, della maturazione e dell’educazione all'amore: la mia non è una famiglia cristiana.
Se accetto che i miei figli ancora adolescenti si impegni in false e falsanti storie dette d’amore, amicizie equivoche e relazioni pericolose: la mia non è una famiglia cristiana!
Se accetto che i miei o altri figli in modo precoce brucino le tappe dell’amore, se acconsento in modo diretto o indiretto che i miei figli vivano more uxorio prima del matrimonio, se non mi scandalizzo più che la ricchezza della sessualità venga bruciata precocemente nei rapporti prematrimoniali: la mia non è una famiglia cristiana.
Se io giovane fidanzato, giovane fidanzata brucio le tappe senza passare dall'impegno duro ma gratificante della castità, della purezza: non ho in mente come mio esempio la famiglia cristiana.
Se i rapporti chiamati ad essere fecondi tra marito e moglie sono vanificati dall’uso di pillole, preservativi e anticoncezionali: la mia non è una famiglia cristiana.
Se non siamo aperti al dono dei figli e non ci scandalizziamo più degli innumerevoli aborti che ogni giorno mietono vittime innocenti: non si è famiglia cristiana!
Se si vive nel rancore, se si sconosce il perdono, la sincerità e la franchezza nei rapporti, se si vive in un intreccio di falsità e di ipocrisie: la mia non è una famiglia cristiana.
Se immagino che l’impegno per la famiglia sia solo quello per la casa e gli abiti e i soldi per toglierci ogni sfizio: io non ho in mente una famiglia cristiana!
Se accetto che mi vengano imposti tutti gli altri modelli che si vorrebbero equiparare alla famiglia senza reagire: io non ho capito cosa debba essere una famiglia e una famiglia cristiana.
Che fare?
Ripartire dalla santa famiglia: occorre un sussulto di orgoglio e di identità! 
NOI SIAMO DIVERSI: CI DOBBIAMO SENTIRE ORGOGLIOSAMENTE DIVERSI.
NOI ABBIAMO UN VALORE IN PIU’
Essere cristiani è avere un più, non significa essere dimezzati
Cfr. Ebrei, protestanti, testimoni di Geova, musulmani come curano la loro identità e si impegnano a preservarla: cultura della identità è cultura della diversità!
Ai figli che si lamentano perché dobbiamo proibire alcune cose: noi ci vantiamo di essere diversi!
Se accetto che i miei figli parlino di Halloween e che mettano zucche e maschere, che vadano a feste di zucche vuote: io non sono cristiano, io non sto educando a vivere in una famiglia cristiana.
E se accetto e non mi ribello contro le maestre che a scuola parlino di Halloween e non dei santi e dei defunti, e se non vado dai direttori a protestare: io ho rinunciato al diritto e al dovere di educare cristianamente mio figlio!
Una mamma o un musulmano per una croce vanno a finire in tribunale e noi subiamo in silenzio che ci levino la croce e le feste e non solo e i simboli della fede ma anche i contenuti:
come può il Natale essere stato ridotto alla festa di un vecchio e non di un bambino che nasce?
Come può una famiglia cristiana accettare di appendere Babbo Natale fuori o in casa? Ma noi dovremmo appendere croci e Madonne, dovremmo illuminare le case per ricordare a noi e a chi passa che dentro ci abita una famiglia cristiana: un tempo anche da noi davanti ad ogni casa c’era una edicola: ora lo fanno i cristiani nei paesi arabi dove la fede si paga col sangue… noi invece la fede l’abbiamo avuta con lo sconto… e non la paghiamo più con l’impegno della coerenza!
Vado in case dove trovo nelle stanze i poster delle squadre di calcio, donne o uomini nudi, tutti i divi del grande fratello: non vedo una croce, una icona con dei fiori, una bibbia: d'altronde chi si fa un segno di croce al ristorante o davanti agli  altri?
Ci siamo fatti rubare e storpiare anche il segno della croce, lo dico alle signore: tutte quelle false croci storte e brutte, attente: alcune richiamano il corno dei fattucchieri e altre segni satanici!
E se arrivando a casa io non butto via i babbi natale, se non levo dal mio collo i segni della superstizione, se non levo dalla mia televisione e dal mio computer i programmi che non devo vedere… se non mi impegno a rivedere i rapporti con mia moglie mio marito i miei figli i miei genitori il mio fidanzato la mia fidanzata, allora significa che io non ho capito niente neanche di questa "predica" né di tutta la mia fede, allora significa che ho ridotto la messa ad un atto di culto vuoto, magico, senza rapporto con la vita.
Non ho capito che l’atto di culto per essere vero esige poi la conversione: non si può ritornare a casa senza essere cambiati, senza aver scelto di cambiare.
Non ho capito: d'altronde neanche Maria e Giuseppe avevano capito.
Credevano che fosse stato sufficiente il pellegrinaggio.
Diremmo oggi, credevano che fosse stato sufficiente assicurare al figlio la prima comunione e la cresima.
E poi?
Se fosse stato oggi magari Maria e Giuseppe sarebbero andati da soli: Gesù non è voluto venire, ha voluto rimanere a casa a giocare a stare con i suoi amici,  "u figghiu! a farici fari sta sfacchinata!" E così si uccidono spiritualmente i figli!
Gesù invece indica che il cammino vero della fede comincia quando sembra che il pellegrinaggio sia finito: giacché se l’incontro nell'atto di culto è stato vero, allora la preghiera mi apre all'ascolto della parola di Dio e la parola mi spinge all'obbedienza.
A DIO CHE SI RIVELA VA DOVUTA L’OBBEDIENZA DELLA FEDE
Gesù ci insegna che c’è solo un modo per genitori e figli: l’obbedienza della fede.
E un genitore non potrà mai pretendere l’obbedienza dei figli se egli stesso non è obbediente davanti a Dio.
E l’educazione della fede significa lo sforzo di cercare con i figli quale sia la loro vocazione.
Ma un genitore che ha risposto di no a Dio come può essere un buon genitore?
Come può educare un figlio a dire sì a Dio se lui stesso non ha obbedito, non obbedisce a Dio?
Si può dire vai a messa e poi non andarci? E’ dire coi fatti ai figli che la messa è poi non così importante, è roba da bambini…
Si sta attenti a che i figli mettano in atto tutti i doni avuti o ci si preoccupa per la salute: e ci mancherebbe…
Ma non c’è poi altrettanto impegno per la salute spirituale, a cogliere e seguire lo sbocciare di una vocazione…
Gesù ci dice oggi che una vera famiglia cristiana non si allontana mai dalla Casa , dalla casa vera: il tempio di Dio (cfr. in ebraico casa/ famiglia e casa/tempio hanno la stessa parola): la casa per eccellenza è il Tempio, anzi Dio stesso è la Dimora!
Una famiglia cristiana è vera quando la sua casa è la casa di Dio, quando Dio è la sua casa: ma la casa è il luogo del Padre e dei figli: saremo famiglie quando ci sentiremo veramente figli: cfr. Giovanni: vedete quale grande amore: figli: e lo siamo realmente figli di Dio.
Genitori e figli siamo figli di Dio: così i genitori si liberano dall'ossessione di proiettare sui figli i loro sogni.
I figli sono di Dio.
Cfr. Anna e Samuele.
Solo chi sa essere figlio fruttifica come padre e madre.


domenica 21 dicembre 2014

Amarcord?

Un vescovo della Campania l’anno scorso, chiacchierando sulla religiosità dei suoi fedeli, fra l’altro si lamentava dei guai che riescono a fare ogni anno gli emigranti o comunque i lontani che ritornano nei luoghi nativi per le ferie. Perché cominciano a criticare tutto in nome di un passato mitizzato al quale ci si riferisce come ad una specie di età dell’oro ! “Ah, non era così quando io ero qua, la festa del patrono non è più quella, la processione non dice più niente...” E così in nome di un preteso ricupero della memoria si cade in un fissismo che mortifica, nel caso ad esempio delle feste religiose, ogni cammino di crescita che intanto in tutti questi anni ha potuto fare la comunità ecclesiale. Quel vescovo ancora infatti mi confidava : “spesso tutto il lavoro di un parroco di un anno viene bruciato dall’arrivo di pretesi concittadini ma che di fatto sono ormai stranieri e che provocano disordini volendo riportare ad esempio lo svolgimento dei riti alle sequenze fissate nella loro memoria, dimenticando che c’è stata una riforma liturgica da cui non si può prescindere”. Queste parole mi venivano in mente nei giorni della calura estiva e più ci pensavo più mi sentivo di essere non solo d’accordo sull’analisi del vescovo in ambito ecclesiale, ma vedevo come questa analisi si potesse estendere benissimo anche a tutte le altre dimensioni del vivere investite da questo fenomeno della “rimembranza”. Se c’è un rito che confesso di mal sopportare è proprio quello di chi nostalgicamente (anche se non so se sia veramente questa la nostalgia) non fa che ripensare ai bei tempi della scuola, ai bei tempi dell’infanzia, ai bei tempi della famiglia... e allora magari non solo organizza le “rimpatriate” ma pretende anche che ogni vecchio compagno di scuola debba impersonare il solito copione : quello il buffone, quello il barzellettiere, quello l’intellettuale... dimenticando che si cresce, si cambia, e magari a chi era solito far sorridere gli altri adesso voglia di ridere ne è rimasta proprio poca ! E poi c’è chi pensando alla casa degli avi quasi ci rimane male nel trovarci la corrente elettrica e la televisione al posto della stalla e del lume a petrolio.  Ma poi ci sono i più pericolosi : quelli il cui allontanamento si è verificato non tanto in chilometri quanto in zeri nei conto correnti bancari e che il distacco dalla casa paterna è stato fatto bandendo dalla tavola fave e scorza di formaggio, salvo poi uscirsene ogni tanto con un “Ah, i sapori di una volta ! perché non fare una sagra per riassaggiare la scorza del formaggio ?” E se proprio la sagra non si può fare allora suppliscono le tante bettole e osterie e similari riciclate come sedi “agrituristiche” in cui paghi carissimo tutto il cibo che a casa non mangeresti mai e poi mai. Mi si perdoni forse la troppa ironia con cui sto trattando l’argomento, ma credo che il recupero del passato, quello vero, non sia questo. Questo sa di falso, di artefatto, di gente che magari per una sera accetta di mangiare con le mani perché fa “chic” ma che poi per tutto l’anno sarà perseguitata dalla fobia della pulizia e banchetterà con posate di marca ! Il passato, senza il recupero in un vissuto esistenziale vivo che lo rinnova e lo rilancia verso il futuro adeguandolo al presente, non è altro che una cosa morta. E come tutte le cose morte deve riposare in pace ! C’è una idolatria perniciosa del nuovo che fa distruggere il passato e così nega l’intelligenza del presente, ma c’è un’altra idolatria altrettanto pericolosa nel rimanere attaccati ad un passato che spesso in eguale misura ci fa negare il presente. C’è un momento in cui infatti bisogna avere il coraggio di lasciare che i morti seppelliscano i morti, con buona pace di tutti ! Perché credo che in chi si dedichi “all’amarcord” stagionale o duraturo che sia, sia presente sempre un non so che di adolescenziale, di un morboso legame all’infanzia che fa correre il rischio di non arrivare serenamente alla maturità. Il Dio in cui credo è un Dio che dice “non pensate più alle cose passate, ecco io ne faccio di nuove, non ve ne accorgete ?” Il mio Dio non è un archeologo e io non vorrei finire i miei giorni a fare il guardiano di un museo ! Perciò questa mia confessione ad alta voce ha stavolta quasi la valenza di un ex voto per grazia ricevuta : anche per quest’estate sono riuscito a non farmi coinvolgere nell’organizzazione di un incontro degli ex compagni di scuola, sono riuscito a dire di no a tutti gli inviti a mangiare in locali costosi,   sono riuscito a non farmi ammaliare dalle sirene dei falsi rimpianti... So che molti avranno da ridire su queste mie righe, che non saranno d’accordo...ma non posso fare a meno di essere sincero, anche se so che il prezzo dei miei rifiuti a tanti inviti è quello di farci la figura del misantropo. Ma volete mettere la pena di sentirsi ripetere per una serata “ah, ti ricordi di quando...” oppure “Ah, sei sempre lo stesso !” proprio quando tu hai fatto tu lo sforzo per dimenticare e sei cosciente di essere cambiato, al paragone di una serata al fresco (per il poco di quest’anno) sotto le stelle e nel silenzio assoluto ? Questa per me è l’estate ! O beata solitudo, o sola beatitudo !

martedì 16 dicembre 2014

Buon compleanno, Gesù


Natale, ossia memoria della nascita di Gesù in Betlem di Giuda, vissuto poi per trenta anni a Nazareth, crocefisso a Gerusalemme dopo tre anni di ministero profetico pubblico in Galilea e Giudea e risorto il terzo giorno. In lui quelli che dal suo nome si chiamano cristiani, riconoscono appunto il Cristo parola greca che sta per Messia, vale a dire l’Unto, il Consacrato da parte di YHWH. Una espressione biblica per indicare il Figlio di Dio che viene a “mettere la sua tenda in mezzo a noi” (Gv). Natale, memoria di una nascita: un compleanno dunque, anche se sui generis! Ma niente altro che un compleanno! E come tutti i compleanni la festa consiste anzitutto nel fare gli auguri al festeggiato. Purtroppo la secolarizzazione tutto ha fatto diventare il Natale, tranne che il compleanno del festeggiato! Io invito i lettori a pensare un po’ come starebbero male il giorno del loro compleanno se nessuno degli amici e dei parenti li chiamassero per far loro gli auguri! O, peggio, se, avendoli invitati alla vostra festa di compleanno, tutti si scambiassero fra loro gli auguri, dimenticando di fare gli auguri proprio a voi! Il Natale è proprio per questo la festa cristiana che mi genera più sofferenza, perché è la festa che sta perdendo il suo festeggiato, trasformata in una sorta di sagra dei buoni sentimenti, di un buonismo melenso e sdolcinato in cui tutti, più o meno ipocritamente, si possono ritrovare. E non è la prima volta che esterno in pubblico questo mio disagio. Mi è stato chiesto di scrivere cosa rappresenta per me il Natale. Se è il memoriale della nascita di Cristo, per me che credo nel suo essere pienamente Dio e Uomo, non può che rappresentare la memoria di un grande dono che mi è stato fatto: il dono  di una “compagnia”.

Perché da quando Dio si è fatto Uomo noi non siamo più soli: c’è un compagno che viene a condividere la nostra strada, le nostre gioie e i nostri dolori, la nostra fatica e le nostre speranze.

Natale è Dio che si fa dono: è l’esempio di chi non fa doni, ma è esso stesso dono. Perciò non mi piace il Natale, con tutta la sua corsa al regalo da fare, da ricevere, da ricambiare, se mi fa correre il rischio di dimenticare che più che pacchi dono è la mia vita che deve diventare dono. Mi piacerebbe dunque a Natale stringere meno mani, dare meno baci e abbracci, fare e ricevere meno regali, ma avere esperienze di incontri con persone più autentiche come io mi sforzo di essere autentico nelle mie scelte di vita. E l’autenticità di Gesù consiste nel fatto che è stato soprattutto uno spogliamento di se stesso: il suo dono è vero perché nessuno lo potrà o dovrà mai ricambiare, per questo è pura esperienza di gratuità, grazia, appunto. Natale è la festa di Gesù povero, nato nudo e morto nudo perché tutto di se ha donato ai fratelli. Per questo Natale è la festa dei poveri e non la festa dei regali sotto l’albero, delle ricche vetrine piene di oggetti superflui, dei ricchi con la puzza sotto il naso che si mettono la coscienza tranquilla solo per una buona azione l’anno. Natale è la festa della dignità dei poveri e dei piccoli che nessuno deve osare più offendere, da quando un Dio si è fatto esso stesso piccolo e povero. Ecco allora il Natale che sogno: anzitutto un dire grazie a Gesù e augurargli che il suo esempio e le sue parole non cadano nel vuoto! E poi, proprio per seguire il suo esempio, la scelta di una maggiore attenzione a chi è povero: e questo lo può fare anche chi non crede alla divinità di Cristo, perché dar   da mangiare agli affamati, dar da bere agli assetati, vestire gli ignudi, ospitare i forestieri, curare gli infermi, visitare i carcerati…lo può fare chiunque e farlo, se non più cristiani, almeno ci fa essere più uomini!

Duemilaquattordici auguri di buon compleanno allora caro Gesù, e tu aiutaci a non strumentalizzare il tuo Natale!

giovedì 11 dicembre 2014

Camilleri? che vecchiaccio!!!

Gli sciclitani si sono “ricreati” a vedere  Scicli trasformata nella Vigàta del Commissario Montalbano! Confesso di essere anch’io un ammiratore di Camilleri, della sua scrittura originale : e da prima che il fenomeno Camilleri/Montalbano esplodesse ! Però. Però nonostante la sua prosa ammaliante e le sue storie coinvolgenti a me Camilleri non la dà a bere ! Camilleri appartiene a quella schiera di scrittori pericolosi perché hanno, come dicono gli antichi il “venenum in cauda”, il veleno nella coda come gli scorpioni e per questo sono pericolosi, più degli altri ! Perché dopo averti affascinato poi  ti mordono ! Prima era solo una sensazione che avevo nel leggere i vari romanzi, poi quando ho letto La bolla di componenda tutto mi è stato chiaro e i conti mi sono tornati ! Mi spiego. Sono un prete e perciò mi piace vedere tra l’altro come gli scrittori delineano la figura dei miei colleghi nei loro romanzi e, più in generale, come viene affrontato il mondo della fede e della religione, quale immagine di Chiesa viene mostrata. Ebbene, in Camilleri preti e Chiesa, quando ci sono, sono trattati sempre nell’unico modo anticlericale e illuminista secondo il vecchio cliché stantio. La Chiesa è oscurantista, alleata dei potenti, alleata dei mafiosi, concorre allo sfruttamento dei poveri, li nutre di illusioni e i preti sono mezze figure che pensano a fare  soldi vendendo sacramenti e bolle di indulgenze, a fare i mezzani tramite il plagio del confessionale... Niente di nuovo sotto il sole : così Sciascia, per restare nell’Isola o Eco nel Nome della rosa. come in un’antologia per le scuole, Centosicilie , curata da Bufalino : tutte le dimensioni della Sicilia sono illustrate, tranne una, quella della religione : che siamo un’isola di atei e agnostici e non ce ne siamo mai accorti ? Ma davvero i tesori di devozione, di arte, di pietà, le testimonianze di santi siciliani laici e preti (penso al Cusmano del Boccone del povero di Palermo, all’Annibale Maria di Francia e alla ricostruzione di Messina dopo il terremoto, a Sturzo, al Don Puglisi ucciso dalla mafia : cosa erano, sardi o veneti ? alle tradizioni di un cattolicesimo sociale che a fine secolo dà vita alle casse rurali in tutta l’isola o forse era la Corsica ?) non sono da tenere in conto ?
D’accordo, lo sappiamo, come ogni famiglia la Chiesa ha avuto ed ha le sue pecore nere e i suoi periodo bui, ma non vedo in base a quale criterio di equità i demeriti della Chiesa si debbano sempre sbandierare ad oltranza e i suoi meriti invece debbano essere sempre diminuiti se non misconosciuti del tutto ! Abbiamo un papa che ha saputo chiedere perdono per i misfatti della Chiesa, ma la cultura laica quando sarà capace di fare autocritica ? O davvero la pretesa del laicismo è quella di avere la verità in tasca ? Assistiamo ancora a balle storiografiche come quella dei secoli oscuri del medioevo e della Chiesa nemica della cultura : Eco ci ha saputo fare a dipingere i monaci che bruciano i libri, ma la verità è un’altra, che se non ci fossero stati i monaci a copiare nel medioevo non solo i codici della bibbia, ma anche quelli dei filosofi greci e arabi, a quest’ora la cultura europea non sarebbe mai nata ! Ed Eco da onesto intellettuale  che fa invece di dire grazie alla Chiesa e alla sua opera di conservazione ? Dice che la Chiesa  è nemica della cultura e finanche del ridere ! Poi però gli storici del teatro ad esempio dicono che il teatro moderno è nato dalle sacre rappresentazioni medievali e la commedia moderna riprende le tradizioni del “risus paschalis” medievale con cui i preti suscitavano l’ilarità e la gioia dei fedeli nel giorno di Pasqua ! E’ innegabile che i tesori dell’arte, in ogni suo campo sono stati creati da uomini animati da grande fede capaci di innalzare imperituri monumenti alla grandezza dell’uomo e del suo creatore: cosa ci ha dato la cultura laica invece se non  la dissoluzione e la frammentazione dell’uomo moderno ? Per rimanere in Italia penso ad un Moravia capace solo di raccontare in salse diverse sempre la solita storia di coiti anonimi e di solitari dialoghi con il suo ammennicolo : eppure è stato contrabbandato come un grande della letteratura ! E qual è la grandezza di un Dario Fo, premio nobel per gli sberleffi anticlericali del suo mistero buffo ? Per non parlare della accozzaglia dei luoghi comuni contro la Chiesa che comunemente si leggono nei nostri giornali e riviste radical - chic ! Luoghi comuni frutti di ignoranza atavica e impenitente ! Serviti a volte così bene da farci cadere anche il credente ingenuo. Come le fantasie sull’inquisizione, ormai smontate dalla critica storica seria, o quelle sulle ricchezze fantasmagoriche del vaticano : la santa sede pubblica un bilancio ogni anno ma nessuno ne parla perché dovrebbe parlare di deficit, altro che ricchezze ! O quella sui preti ricchi : quando io dico quanto ricevo dai fedeli al mese poi tanti mi fanno le scuse perché devono confessare di prendere il doppio di me ! Come la mettiamo allora ? Non scrivo queste cose per ritornare alla vecchia apologetica o per riprendere temi da crociate. Scrivo ancora una volta per dire anzitutto a chi con come condivide la fede : attento a non farti imbrogliare (e smettila di leggere Repubblica senza insieme poi leggere Avvenire !) e poi per invitare chi fa professione di laicità ad un dialogo serio e costruttivo : nella verità e non a partire dai pregiudizi. Perché confesso che mi fa male parlare con persone che pur di difendere il loro modo di vedere la Chiesa sono pronti a negare anche l’evidenza dei fatti ! Viaggio spesso e a volte ho passato intere giornate sul treno a cercare di dialogare con chi invece non vuole sentire ragioni perché significherebbe mettere in crisi le proprie sicurezze. No, ormai non mi arrabbio più : mi viene solo una gran pena nel vedere il professore, il medico, l’avvocato, lo scrittore arrampicarsi sugli specchi e fare solo mostra di ignoranza ! Che pena Camilleri, che non sai dimostrare se la bolla di componenda sia mai esistita o meno e però ti diverti a liberare il venticello della calunnia :  non ti ha insegnato il nostro Orlando che la politica del sospetto prima o poi si ritorce su se stessa ? Ricordati che solo la verità libera : perché non cercarla insieme ? O ti vuoi solo cullare nella tua verità come il tuo Montalbano si gusta da solo i suoi pranzi ? Ma se sei un buongustaio sai che le pietanze gustate in compagnia di amici hanno più gusto : perché non esci dal tuo mondo e non vieni a mangiare con noi ?

sabato 6 dicembre 2014

quale morale cattolica?

Qualche tempo fa, concordando con Celentano (e tantissimi altri) quando dissi che Famiglia Cristiana aveva ormai poco di cattolico, fui aggredito da tanti... ma la mia convinzione rimane, anzi si rafforza anche l'idea più generale che qualche editrice non sia più tanto cattolica: lo dissi allora protestando per il fatto che in librerie cattoliche (o sedicenti tali) tu puoi trovare i libri di Mancuso, Augias, Dan Brown, Coelho ... che certo cattolici non sono.
Ora può essere che un ingenuo fedele entri alla ricerca di un buon libro cattolico e se ne esca con tutt'altro (e poi Paolo VI si chiedeva da dove fosse entrato il pensiero non cattolico nella chiesa cattolica!).
Così a me è successo di entrare in una libreria delle EP a Salerno e di cercare un manuale di educazione sessuale per i miei ragazzi di cresima. Trovato: è della San Paolo, che volere di più? Ma meno male che mi sono deciso a leggerlo prima di darlo ai miei ragazzi. Che vi trovo? Un capitolo sulla ideologia del gender!
Ora, se in un manuale di educazione sessuale delle edizioni san Paolo si trova un capitolo sulla identità di genere, una famiglia cattolica di chi si potrà fidare per educare i suoi figli? Leggete e ve ne accorgerete: il succo? c'è una identità biologico-genitale (che non importa) e c'è una identità di genere, cioè il sesso che si sceglie di avere e mostrare (che può non coincidere con i genitali che la natura mi ha dato!). E la morale cattolica? E la dottrina della Chiesa?






lunedì 17 novembre 2014

CONFESSARE I TALENTI E LA GRAZIA

Tengo una rubrica su un mensile locale dal titolo “Confessioni ad alta voce”.
Decidere di “confessarsi in pubblico” è sicuramente per certi versi un’operazione - mi si passi il termine - “spudorata” : è un presentarsi “nudi” all’occhio del lettore che può essere a volte benevolo, a volte spietato.
 “Confessione”: è proprio il meccanismo che, credo, oggi ci possa far uscire non solo da una sorta di buio anonimato in cui come si dice “tutte le mucche sono nere”, ma anche da un certo solipsismo spirituale che ci fa rinchiudere ognuno nella coltivazione del proprio “hortus conclusus”.
Non per fare buonismo: ma se ognuno di noi “confessasse” (nel senso etimologico del termine proprio di rendere testimonianza) il bene che c’è in noi e nel mondo (per chi crede: che Dio ha messo in noi e nel mondo) coinvolgendo gli altri in questa testimonianza, credo che nei giornali troveremmo meno cronaca nera (e di tanti altri colori) e più sentimenti autentici. Meno bruttura e più bellezza : non sarà proprio quest’ultima che Dostoievskj dice dovrà salvare il mondo? Confessarsi a partire dai richiami al vissuto e al duro mestiere di vivere illuminato tuttavia dalla Grazia, credo si possa inscrivere proprio su questa linea.
E solo così credo si possa avviare un vero dialogo con gli altri compagni di viaggio, viatores con meta o in cerca di meta.

Anche se questo comporta l’impegno di continuare a parlare il “patois” di Canaan, cioè il dialetto di Palestina che - fuor dai veli - è lo stile semplice e immediato che privilegia i rapporti umani prima che le dotte elucubrazioni: è lo stile del Cristo pellegrino fra le strade di Galilea che prego giorno dopo giorno di far mio. Confesso che non è facile parlarlo, per chi come me, è più impastato di latino e greco, di “lettere e filosofia” ! Ma ho scelto di servire un Dio che spesso si rivela ai semplici e irride le intellighentie: per questo mi è gradito l’esercizio di un ministero in una parrocchia in cui sono costretto ogni volta a rimettere i piedi a terra e la testa fuori dalle nuvole ! Se sia umiltà  la mia non spetta a me dirlo (potrebbe pure essere bencelato orgoglio): certo per me è un’occasione di maturazione e...senza timore di ripetermi, di Grazia!

mercoledì 12 novembre 2014

Per il futuro? Ritornare a scommettere sull'educazione.

Viviamo in tempi in cui abbiamo assistito - per dirla schematicamente - alla fine degli assolutismi, alla perdita dei valori, al crollo degli ideali, alla  crisi delle istituzioni, al dilagare di una illegalità diffusa a tutti i livelli, al lento ma a prima vista inarrestabile traballare di famiglia, Stato, scuola....e aggiungerei anche Chiesa...
Conseguentemente abbiamo davanti a noi ad esempio giovani sempre più insicuri (vedi l’innalzamento e l’allargamento del periodo adolescenziale), personalità fragili (vedi l’incapacità di fare scelte, specie se durature, e i sacrifici conseguenti alle scelte, o di portarle avanti nel tempo : emblematico è il fallimento di tanti matrimoni di coppie giovani, ),  giovani vittime di manipolazioni ( vedi l’influenza sempre più alta dei mass media),  giovani contesi o dissociati tra le diverse agenzie educative o pseudoeducative ( vedi i giovani che fanno musica, sport, scautismo etc o che appartengono insieme  a gruppi di matrice diversa...incapaci di stabilire una gerarchia di valori o che rispondono ai valori/pseudovalori come Zelig, il personaggio di Woody Allen, a seconda delle situazioni).
Il compromesso così sembra essere diventato la regola, l’incoerenza tra valori e scelte concrete sembra quasi connaturata ad uno stile di vita sempre più illuministicamente dissociato tra il dire e il fare (se è detto è fatto?!).
Risultato di tutto ciò è la frammentazione dell’identità: spesso si vive quasi a compartimenti stagni, incapaci di operare una vera “reductio ad unum”, cioè incapaci di ricondurre la diversità delle esperienze ad un unico punto attorno al quale fare ruotare e dal quale ricevere senso, per leggere se stessi come il soggetto unico della propria storia. Abbiamo bisogno di quel “centro di gravità permanente, che non mi faccia mai cambiare idea sulle cose, sulla gente...” che cercava, cantando, Battiato.
Emblematica, a proposito, è la confusione dei ruoli (vedi il rapporto uomo-donna o la crisi  dell’identità personale), oppure il relativismo etico (se ogni persona ha la propria verità, allora fa quello che vuole: è i trionfo del “secondo me”, del “mi piace, quindi è così”, del “così è bello” o del “il corpo è mio e me lo gestisco io”) che sfocia, per alcuni aspetti, nella pluriappartenenza (vedi il caso del Baggio “buddista” o il fenomeno del New Age) e, per altri aspetti, nella privatizzazione dei comportamenti.
Come definire allora un giovane che vive in questa rete, spesso groviglio, di problemi che si riversano nella sua esistenza e che la connotano e la condizionano spesso in modo tragico e irreversibile, specie in situazioni socioculturali quali quelle della Sicilia dominate da piaghe quali la disoccupazione, sacche di povertà ancora estese, micro e maxi delinquenza, criminalità organizzata, mafia, inquinamento sociopolitico ed ecclesiale, diffidenza verso le istituzioni, mancanza di senso civico, religiosità popolare  e costumi ancora fortemente tradizionalistici?
Io lo definirei un “giovane a rischio”, dove però la categoria “a rischio” prima che essere sociologica è esistenziale: quello infatti che si mette a rischio non è qualche aspetto della vita, materiale o no che sia, è anzitutto la vita stessa, nella sua qualità, nella chiamata alla realizzazione piena di sé che ogni vita porta inscritta nella propria esistenza.
In questo senso  i giovani della Sicilia oggi sono a rischio, perché il mondo è a rischio: la Sicilia è specchio di quello che oggi è il mondo!
Eppure, pur parlando di situazioni a rischio, non vorrei mancare al mio dovere di scout di saper vedere anche il 5% di buono presente in quest’oggi e in questo mondo. Sarebbe infatti ingiusto tacere di quelle tante realtà che viaggiano nella direzione opposta a quella precedentemente vista: sono ad esempio l’impegno per la pace di tanti, la cooperazione e lo sviluppo tra i popoli, l’impegno per la salvaguardia del creato, per una società più giusta e solidale e più a misura d’uomo (vedi   l’AVS, il servizio civile, il volontariato) e poi la rinascita di una coscienza politica, il fermento antimafia, e , al livello ecclesiale, il risveglio e l’impegno per una vera esperienza di fede in una Chiesa-Popolo di Dio e Corpo di Cristo che vive nella testimonianza -a volte letteralmente vero e proprio martirio - il proprio servizio dell’annuncio del vangelo del Regno al mondo.
Come ingiusto sarebbe inoltre non riconoscere nel volto della Sicilia, per rimanere nell’ambiente che ci interessa più da vicino, assieme alle tante rughe che lo deturpano, anche i tratti della intelligenza, della forza e della tenacia con i quali spesso la rassegnazione si trasforma in laboriosità; i tratti della  generosità che si coniuga in termini di solidarietà, ospitalità, accoglienza, tolleranza, integrazione razziale (è questa la lezione della storia!), i tratti dell’ironia che pirandellianamente sa elevare un innato pessimismo ad un  sano realismo ...sono tratti questi che rappresentano una risorsa, una riserva, assieme a quelle realtà di bene cui prima accennavamo più in generale, da cui trarre ricche suggestioni per il lavoro che ci apprestiamo a fare.
A questo punto, chi deve essere e come un cristiano che vuole scommettere sulla formazione e sull’educazione delle nuove generazioni?
E’ uno che ha anzitutto il coraggio  dell’intelligenza: cioè il coraggio di andare dentro le cose (intus-legere), di superare le apparenze, di andare al nocciolo, alla sostanza delle cose (sub-stantia:ciò che sta sotto), ricordando l’ammonimento della volpe al Piccolo Principe: “l’essenziale è invisibile agli occhi”.
Questo significa, per un educatore, la capacità di superare ogni superficialità, in noi stessi e negli altri, il rifiuto di farci ingannare dagli specchietti per le allodole...per andare alla interiorità: è il rifiuto del “look”, dell’apparenza per ritornare all’essere.
E chi ha il coraggio dell’intelligenza ha anche il  coraggio del discernimento. Proprio nell’epoca della contraddizione, della confusione e del relativismo il dovere del discernimento si impone più che mai come il coraggio di scegliere e di saper scegliere, distinguendo tra bene e male: “tutto provate, ritenete ciò che è buono” ammonisce San Paolo.
Mi sembra che una delle urgenze più grandi per gli educatori sia quella di aiutare a superare l’indifferentismo e di educare alle scelte, alle scelte responsabili. Questo significa, per un educatore, la capacità di un atteggiamento critico nei confronti di se stesso anzitutto e poi degli altri e della realtà che ci circonda, non per seminare dubbi o zizzania per partito preso, ma per sottoporre ogni cosa al vaglio critico della Parola di Dio, che mettendo in luce le ombre del peccato e le tentazioni al compromesso ci spinge a continua conversione.
Ma intelligenza e discernimento si pagano con un altro coraggio: quello di ricercare sempre, senza posa, la verità. Solo infatti chi ha l’umiltà di riconoscere di non essere depositario di verità precostituite, avrà il coraggio di superare ogni dogmatismo, di uscire dalle proprie sicurezze, spesso false, per impegnarsi in un pellegrinaggio alla ricerca della verità, che diventa, per chi ha il coraggio di compierlo fino in fondo, un cammino di liberazione, se vero, come è vero, che la verità ci farà liberi (Gv).
Questo significa, per un educatore che aspira a diventare formatore di personalità autentiche, la capacità anzitutto di mettersi a nudo, di gettare la maschera, di sciogliere i tanti legami dell’ipocrisia per ripartire da una vita sentita e vissuta nella  sincerità del cuore.
E dato poi che per noi che ci diciamo cristiani la verità non è un ideale astratto, o peggio un “flatus vocis”, ma una persona ben concreta, Gesù di Nazareth che noi confessiamo come il Cristo di Dio, allora potremo dire che l’educatore cristiano è uno che, oggi più che mai, ha il coraggio  di mettersi con più decisione alla sequela di Cristo, nell’esperienza della fede, nella docilità allo Spirito, nell’obbedienza della Parola, nella appartenenza ecclesiale, nella libertà della coscienza.
Chi deve essere l’educatore cristiano infatti se non colui che nella coerenza della propria vita testimonia una sempre rinnovata fedeltà a Cristo che lo ha liberato? “liberi e fedeli in Cristo” dice P. Haring a proposito della vita dei cristiani: libero e fedele in Cristo deve essere un Capo, per essere a sua volta nella Chiesa e nel mondo segno e strumento di liberazione. Poiché infatti oggi l’educazione non può non coniugarsi in termini di liberazione, di superamento cioè delle contraddizioni tra fede-vita, ideale-reale, interiore - esteriore, pubblico-privato, personale-comunitario, materiale-spirituale...superamento in vita della realizzazione dell’uomo integrale...
Questo significa per noi in questa sede, avere il coraggio di una revisione critica del nostro modo di essere e delle nostre scelte: prima di guardare ai ragazzi dobbiamo guardare a noi stessi, con onestà! Ci dice infatti il Vangelo che “se un cieco guida un altro cieco, entrambi finiscono in una fossa”: allora molto onestamente dobbiamo dire oggi che i frutti del nostro servizio dipendono dalla qualità di noi Capi. Dobbiamo allora puntare sulla qualità, come primo impegno: sulla qualità dell’essere che si traduce in termini di una spiritualità cristiana sempre più sperimentata, vissuta, incarnata... e che sfocia nella qualità del servizio che si traduce in termini di una competenza sempre maggiore (sono finiti i tempi del pressappochismo e delle buone intenzioni!!!).
Noi purtroppo siamo figli e vittime di quello che in filosofia oggi viene detto il “pensiero debole”: cosa viene insegnato oggi? Che non esistono valori - certezze e che è inutile cercarle e che se anche esistessero la nostra  mente non riuscirebbe a coglierli in pieno dati  i suoi limiti, e che se anche riuscisse a capire qualcosa non saprebbe né comunicarla né viverla: e allora? Allora accontentiamoci di vivere alla giornata, di non pensare a mete irraggiungibili: gli ideali? E chi li ha mai visti o toccati? Meglio altre mete che, guarda caso, devono essere tangibili: beni, denaro, potere...si potrebbe continuare, ma credo che ci siamo capiti: oggi assistiamo al trionfo della mediocrità, al ripiego dell’uomo su se stesso, al rifiuto della sua chiamata ad essere Altro, e alla conseguente tragedia della perdita dell’identità stessa dell’uomo. Eppure il Poeta (!) ci aveva ammoniti: “fatti non foste per viver come bruti ma per seguir virtute e canoscenza...”: A parte la citazione dotta ,
Dobbiamo osare pensare in grande, dobbiamo liberare i sogni e ritornare a giocare con le stelle: come paradossalmente veniva suggerito a Peter Pan per crescere, per riuscire a volare!


venerdì 31 ottobre 2014

La festa dei morti


Per indicare il superamento del paganesimo il papa aveva consacrato il Pantheon, luogo romano dedicato a tutti gli dei, come chiesa cristiana dedicandola al culto della Beata Vergine Maria e di tutti i Santi. E fu scelto come giorno il primo del mese di novembre. Intorno all’anno Mille, nell’Abbazia di Cluny in Francia, alla fine dei Vespri solenni di tutti i Santi i monaci si portavano in processione presso il loro cimitero e facevano un ufficio di suffragio per tutti i loro morti. Pian piano dal solo ufficio vespertino si passò ad un ufficio vero e proprio durante le ore canoniche del giorno seguente e questa tradizione si diffuse così rapidamente che la chiesa concesse di commemorare il due novembre tutti i fedeli defunti in ogni luogo della cristianità. Nacque così la “festa” dei morti in un giorno particolare del calendario liturgico, ma non certo il ricordo dei morti: questo si fa in ogni celebrazione della Messa in cui si fa memoria della “Comunione dei Santi”, cioè viene ricordato come tutti, quelli che ancora peregriniamo qui sulla terra (= la Chiesa Militante), quelli che sono morti (= la Chiesa purgante ) e i santi che sono già in Paradiso (= la Chiesa trionfante) formiamo tutti un’unica Chiesa perché tutti accomunati dal Battesimo. Comunione dei santi qui sta appunto per Comunione dei battezzati perché “Santo, Santità” era l’appellativo scambievole con cui si chiamavano i primi cristiani (ora rimasto in uso solo per il papa). E a partire da questa “comunione”, cioè esperienza di amore scambievole e di grazia divina, che si capisce anche il ricordo dei morti: se tutti siamo una sola famiglia e se non valgono i vincoli della morte, allora tra santi in cielo, morti e fedeli in terra può continuare ad esistere un fecondo rapporto di amicizia. Ad esempio io posso pregare e chiedere l’intercessione dei santi e suffragare i defunti perché la mia azione, essendo per così dire ancora in contatto tra noi può essere efficace. E questo a partire dalla esperienza di fede nella risurrezione dei morti e nella vita eterna.

Mi scuso per questa lunga introduzione, ma credo che questo è l’unico modo per comprendere la genesi di una festa che da noi (grazie a Dio) è ancora abbastanza sentita: la festa dei morti, appunto. E dico grazie a Dio non solo per un motivo religioso ( potrebbe altrimenti il mio sembrare solo un discorso da prete) ma anche profondamente umano. E’ stato bello nella mia infanzia aspettare il giorno dei morti per ricevere i regali (“i muorti, i murticieddi”) perché è un modo con cui la sapienza e la fede popolare ti passava un messaggio bellissimo: i cari morti non sono scomparsi nel nulla, ci sono ancora accanto, noi preghiamo per loro e loro si interessano ancora per noi (non si parlava una volta di scambio di amorosi sensi tra vivi e morti?). Un modo per ribadire la fede cristiana e per far vivere serenamente la morte (all’opposto di oggi in cui la morte è stata banalizzata nei serial TV e nascosta ed esorcizzata dalla vita reale). Un modo per dire che i morti ci sono amici e di loro non si può avere paura (la sapienza popolare sempre ammonisce che è dei vivi che invece bisogna aver timore!). Perché, attenti, se so guardare serenamente alla morte so vivere anche serenamente la vita. Adesso si scappa dalla visione della morte e non si coglie più il senso della vita! Poveri genitori che non fanno vedere ai figli i nonni morti: non sanno che li preparano a essere sconfitti dalla vita! Viva dunque il culto dei morti e la festa dei morti, perché appunto e paradossalmente è la festa della vita. Meglio dunque un giorno di cimiteri affollati (certo più spesso non farebbe male) che lasciare morti e morte nel dimenticatoio. E qui siamo proprio all’opposto del neopaganesimo strisciante della cultura anglosassone e americana che purtroppo sta sbarcando pure da noi in cui i morti sono gli spettri che terrorizzano e che ritornano la notte di Hallowen a fare baraonda sulla terra! E noi che davanti a queste americanate ci caliamo le braghe! Quando abbiamo un patrimonio culturale da non temere confronti! Perché non è certo questo un segno di modernità, anzi! Ma da un’europa che dimentica di essere figlia del cristianesimo cosa ci si poteva aspettare?

sabato 18 ottobre 2014

vera e falsa riforma della Chiesa

"In una prospettiva radicale, forse utopistica, o, è il caso di dirlo, millenaristica, è chiaro dunque ciò che la Chiesa dovrebbe fare per evitare una fine ingloriosa. Essa dovrebbe passare all'opposizione. E, per passare all'opposizione, dovrebbe prima di tutto negare se stessa. Dovrebbe passare all'opposizione contro un potere che l'ha così cinicamente abbandonata, progettando, senza tante storie, di ridurla a puro folclore. Dovrebbe negare se stessa, per riconquistare i fedeli (o coloro che hanno un «nuovo» bisogno di fede) che proprio per quello che essa è l'hanno abbandonata. Riprendendo una lotta che è peraltro nelle sue tradizioni (la lotta del Papato contro l'Impero), ma non per la conquista del potere, la Chiesa potrebbe essere la guida, grandiosa ma non autoritaria, di tutti coloro che rifiutano (e parla un marxista, proprio in quanto marxista) il nuovo potere consumistico che è completamente irreligioso; totalitario; violento; falsamente tollerante, anzi, più repressivo che mai; corruttore; degradante (mai più di oggi ha avuto senso l'affermazione di Marx per cui il capitale trasforma la dignità umana in merce di scambio). È questo rifiuto che potrebbe dunque simboleggiare la Chiesa: ritornando alle origini, cioè all'opposizione e alla rivolta. O fare questo o accettare un potere che non la vuole più: ossia suicidarsi."
* "I dilemmi di un Papa, oggi" di P.P. Pasolini, Corriere della Sera del 22.09.1974

sabato 6 settembre 2014

Il suicidio dell'Occidente

Scoprire che nelle fila dei terroristi islamici va sempre più aumentando il numero di occidentali ( anche italiani) convertiti, è un fatto certamente sconvolgente, e che però, permettetemi l'espressione,  potrebbe diventare anche salutare per lo stesso Occidente, se solo se ne cogliesse la portata provocatoria.
Si tratta qui infatti non di giovani di famiglie islamiche immigrate nei nostri paesi (in cui magari il ritorno ad un islamismo integralista potrebbe essere compreso come una sorta di ricerca delle proprie radici culturali) ma si tratta di giovani di buone famiglie cristiane (cattoliche o anglicane o protestanti non importa) i cui figli si sentono attratti dalla forza totalizzante del credo musulmano.
Attenzione, già sarebbe preoccupante il primo caso, quello dei giovani di famiglie musulmane che si buttano capofitto nella interpretazione più rigida e riduttiva dell'islam: perché significa che l'integrazione delle loro famiglie è stata, se lo è stata, solo da un punto di vista economico, ma che sia a questi, come agli altri, cattolici magari di buona famiglia e che quasi certamente da piccoli hanno ricevuto battesimo comunione e cresima, a tutti questi, poi, la società occidentale, oltre al sogno materialista e consumista non ha saputo dare altro.
Scriveva Albert Camus nei suoi Taccuini: "si serve l'uomo nella sua totalità o non lo si serve per nulla. E se l'uomo ha bisogno di pane e di giustizia, si deve fare quanto occorre per soddisfare questo bisogno. Ma egli ha anche bisogno della bellezza pura che è il pane del suo cuore. Il resto non è serio."
Ricordo che Camus diceva di essere ateo. Eppure comprese che anche il cuore ha le sue "fami", dove qui "cuore" sta per tutta la interiorità dell'uomo e "bellezza pura" sta per ciò che non è riconducibile al mercato e al consumo.
Eppure da più di un secolo viviamo sotto l'attacco di un nichilismo distruttore di qualsiasi valore e realtà spirituale.
Abbiamo ridotto l'uomo "ad una dimensione ", come diceva il titolo di un saggio molto in voga decenni fa.
Si è creduto che, soddisfacendo la pancia e quello che vi sta sotto, con tutte le voglie annesse e connesse, l'uomo si potesse così sentire felicemente appagato e realizzato.
In questo senso già il '68, pur nella sua ambiguità, nella sua ricerca di modi alternativi di vita, era stato un grido di allarme e di protesta contro stili di vita in cui tutto si sacrificava all'idolo del progresso economico.
Allora la direzione per tanti fu l'oriente induista e buddista in cui poter recuperare la dimensione spirituale.
Purtroppo, per tanti, il passaggio fu letale, per il cammino cosparso dall'uso di droghe e di pratiche in realtà anche qui più illusorie che veritiere: basti pensare alle varie forme di new age  sulle cui fondamenta fatue ancora tanti cercano di costruire società alternative.
Ma il negare che l'uomo abbia anche altre dimensioni, il fare di tutto per fargliele dimenticare (a cosa servono tanti programmi televisivi se non a questo?), non significa che ciò sia vero  e che questo sia possibile.
Che l'uomo abbia bisogno di qualcosa che dia senso alla propria vita, diciamo per intenderci un ideale per cui vivere e al limite anche morire, è una necessità insita nel cuore di ogni uomo. Per quanto si cerchi di ipnotizzarlo e asservirlo ad altri modelli di vita, prima o poi il desiderio di comprendere chi si è, da dove si viene e verso quale destino si vada ( sono le classiche domande ineludibili che segnano il nostro essere uomini in quanto tali) rispunterà prepotente in ogni uomo.
Il giovane di buona famiglia (cattolica) che si arruola nella jihad perché finalmente ha trovato un ideale per cui spendersi fino all'estremo è un tremendo e tragico j'accuse delle nuove generazioni verso genitori imbecilli e deficienti (nel senso etimologico latino) che hanno creduto di educare i figli a forza di cibo e di regali, al massimo proponendo loro come meta la vittoria ad "Amici" e programmi similari, come se la vita fosse tutta e solo un mega show che di reality ha solo il nome perché tutto falso e ingannevole dietro le quinte. E ora questi figli sazi si rivoltano con rabbia contro i padri perché sentono, al di là di quanto ciò stesso sia esprimibile e concettualizzabile, di essere stati ingannati dai padri stessi.
Padri chiusi nella loro rivolta adolescenziale contro ogni valore che potesse dar senso al vivere e al morire, al gioire e al soffrire (tanto la vita si manipola, la morte si ignora il soffrire si nega: resta solo il divertimento), hanno allevato i figli in bolle di nulla, nell'insipienza e insignificanza totale, ignari di star preparando il suicidio dell'occidente.
Un tunisino ha detto ad un prete di Vittoria, mio amico: "ma davvero voi dite di credere in Dio? Dal modo come vivete, pensando solo ad affari e sesso, si direbbe che siete tutti atei."
Ecco perché i nostri giovani si arruolano nelle file di Allah, perché trovano un ideale in cui ancora la fede e la vita vanno insieme, perché tutte le critiche si potranno fare all'Islam tranne che abbia separato fede e vita.
Noi cristiani abbiamo voluto relegare Dio nel cielo ( Prevert così bestemmiò: "mpadre nostro che sei nei cieli: restaci") per fare i nostri porci comodi qui sulla terra. Eccone i frutti!
Un grande pensatore ateo marxista tempo fa si convertì al cristianesimo in Francia.
Ma dopo alcuni anni passò all'Islam. Il cristianesimo, disse, ha perso il senso dell'Assoluto, di Dio. E le famiglie non educano più alla fede.
Un gesto dirompente che avrebbe dovuto farci riflettere.
Una famiglia infatti che non trasmette Dio ai propri figli ha segnato la sua morte. Ma non solo la sua, ma dell'intera società.
L'occidente morirà proprio per questo.
Ma nessuno sembra ancora capirlo.
   

martedì 24 giugno 2014

La vera manna

“Man – hu?”  “Cosa è ciò?”
Così si chiesero l’un l’altro gli ebrei nel deserto quando un mattino scoprirono la manna depositata sulle tende dei loro accampamenti.
Era il modo con cui Dio si prendeva cura del suo popolo, della fame del suo popolo.
Un pane nuovo, disceso dal cielo: “aveva il sapore di una schiacciata di pane caldo, diranno poi alcuni rabbini”; “è il cibo con cui si nutrono gli angeli – diranno altri rabbini – è fatto di materia celeste e ha il sapore e la trasparenza del miele”.
Per secoli il popolo ebraico ha riflettuto su questo miracolo, per comprendere non solo che tipo di cibo era questa manna ma anche sugli effetti che aveva su chi la mangiava.
Certo, in quanto pane doveva essere fatto di farina, ma da quale frumento? Da quali campi? Da quale agricoltore?
“Ti ha nutrito di manna, che tu non conoscevi e che i tuoi padri non avevano mai conosciuto, per farti capire che l’uomo non vive soltanto di pane, ma che l’uomo vive di quanto esce dalla bocca del Signore”.
Ecco l’approdo della riflessione rabbinica: la manna niente altro è che il cibo fatto con la parola di Dio, che scendendo dal cielo come chicchi di frumento è macinata nei mulini delle nuvole e scende come rugiada sulla terra, affinché ogni uomo impari a nutrirsi della parola del Signore e a saper dire “mio cibo è fare la volontà del Padre”.
E giacché viene da Dio è farina di luce, frumento di luce: luce da luce.
E come luce rende luminosi, trasparenti, luce essi stessi, quanti di essa si nutrono.
La manna infatti viene subito assimilata in bocca: e ciò fa dire ai rabbini che la manna non viene assimilata dall’apparato digerente, ma che – penetrando immediatamente in tutte le membra del corpo – è essa che assimila a sé e trasfigura man mano in luce chi la mangia.
E così pian piano nutrendosi di manna l’uomo diventa sempre più diafano, trasparente, la sua umanità viene trasfigurata dalla luce divina in modo che alla fine l’Adamo peccatore rivestito di pelle ritorni alla sua primigenia esperienza di creatura plasmata ad immagine e somiglianza di Dio in cui risplende la stessa luce divina.
Nutrendosi di manna, cioè della parola di Dio, l’uomo così vive sotto l’azione della grazia che permeandolo dal di dentro lo riconduce all’esperienza di Dio, della vita eterna, persa a causa del peccato.
Certo questo è l’approdo finale della riflessione rabbinica sull’esperienza del dono della manna ai padri nel deserto che, pur nutrendosi di questa, morirono tutti lungo il cammino verso la terra promessa.
“I vostri padri mangiarono la manna eppure morirono” dirà infatti Gesù.
Ma nella loro riflessione i sapienti di Israele avevano già intuito che quella manna ha un significato esemplare, è simbolo, tipo, di un’altra manna, quella vera, in cui davvero il frumento della parola di Dio, macinato e impastato dalla rugiada della grazia divina diventi pane di vita.
La manna del deserto è il segno di una attesa e del suo compimento.
Della fame e del giorno in cui questa sarebbe stata saziata.

E noi oggi celebriamo proprio colui che “Con i simboli è annunziato,  in Isacco dato a morte, nell'agnello della Pasqua, nella manna data ai padri” – come ci fa dire la bellissima sequenza di San Tommaso D’Aquino.
Noi celebriamo oggi colui che di sé può dire “Io sono il pane vivo, disceso dal cielo”.
Gesù si presenta come la vera manna, il vero pane del cielo.
Come prima, nel dialogo con la Samaritana, Gesù si presenta come “l’acqua viva” capace di dare lo Spirito che disseta ogni sete, così ora lui si presenta come “il pane vivo” capace di saziare ogni fame: “Se uno mangia di questo pane vivrà in eterno”.
E davvero lui può dirlo di se stesso: egli è la vera manna celeste, Parola pronunciata dal Padre prima di tutti i secoli, “che per noi uomini e per la nostra salvezza discese dal cielo”;
Egli è il Verbo stesso di Dio, fattosi carne per darsi in cibo.
“Verbo di Dio impastato di sangue e latte di Maria”, come ci fa pregare una antica antifona in dialetto prima di ricevere la comunione.

Ecco perché egli può dire che, essendo ormai lui il vero pane/manna sceso dal cielo, l’unico modo possibile di farsi alimentare da lui è il cibarsi del suo corpo e del suo sangue, cioè della sua carne:
“il pane che io darò è la mia carne per la vita del mondo”.
Una proposta che ancora oggi giunge a noi scandalosa e inaudita: “Come può costui darci la sua carne da mangiare?”. 
Ma Gesù, più che dare spiegazioni, oggi non fa altro che rincalzarci col suo invito: “In verità, in verità io vi dico: se non mangiate la carne del Figlio dell’uomo e non bevete il suo sangue, non avete in voi la vita. Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue ha la vita eterna e io lo risusciterò nell’ultimo giorno.” 
Oggi, credo, sia il tempo di riscoprire questa affermazione di Gesù in tutta la sua pretesa salvifica unica  e irriducibile.
E’ come se oggi Gesù dicesse ad ognuno di noi: “davvero tu vuoi la vita eterna? Davvero tu hai fame di un cibo che non perisce? Davvero vuoi vivere una vita che ti sazi nella tua vera umanità, nella tua dignità di creatura in cui Dio rispecchia la sua immagine? Allora non farti ingannare da altri cibi, da altre bevande: Perché la mia carne è vero cibo e il mio sangue vera bevanda”.

In Gesù il donante e il dono si fanno uno, coincidono: il pane che lui dà è il suo stesso corpo.
Il pane e il vino presentati nel segno anticipatore della Cena sono il Corpo e il Sangue offerti sulla mensa della croce come dono di se stesso, della propria vita.

Da allora il banchetto e il sacrificio sono le due facce di una stessa realtà: siamo invitati a cibarci di Colui che per noi si è sacrificato sulla croce.
“In lui era la vita”: la comunione al sacramento del suo corpo e del suo sangue ci comunica la sua stessa vita.
“il calice della benedizione che noi benediciamo, non è forse comunione con il sangue di Cristo? E il pane che noi spezziamo, non è forse comunione con il corpo di Cristo?”


La festa di oggi ci ricorda che è l’eucaristia che verifica la nostra esperienza di fede: non c’è vera fede cristiana che non sia eucaristica: che cioè non abbia fonte e culmine nella celebrazione del’eucaristia.
Domandiamoci allora, ognuno di noi: come vivo il mio rapporto con l’eucaristia?
Oggi si pretende di vivere la fede ma senza eucaristia, tanti si dicono cristiani ma non partecipano all’eucaristia, mentre paradossalmente, pretende l’eucaristia ci ha fatto scelte di vita lontane dalla logica cristiana.

La chiesa invece oggi ci ricorda che l’eucaristia è, come la manna di allora, il frutto, il dono dopo la prova:
“Ricòrdati di tutto il cammino che il Signore, tuo Dio, ti ha fatto percorrere in questi quarant’anni nel deserto, per umiliarti e metterti alla prova, per sapere quello che avevi nel cuore, se tu avresti osservato o no i suoi comandi.
Egli dunque ti ha umiliato, ti ha fatto provare la fame, poi ti ha nutrito di manna, che tu non conoscevi …, per farti capire che l’uomo non vive soltanto di pane, ma che l’uomo vive di quanto esce dalla bocca del Signore”.

L’eucaristia ci insegna dunque anzitutto come guardare al mondo e alla storia: come al tempo e al luogo in cui il Signore ci mette alla prova per saggiare la nostra fedeltà.
Non dimentichiamo che Gesù è venuto, secondo la profezia di Simeone, perché siano svelati i pensieri di molti cuori.

Nella tradizione rabbinica la manna non è solo il pane degli angeli, ma anche il pane dei forti: cioè di chi sa resistere alle tentazioni del cammino, ai miraggi del deserto. E dei deboli che vogliono rivestirsi del vigore della grazia.
Non è il cibo degli imbelli, dei pavidi, di chi mette mano all’aratro e poi si volge indietro, non è il cibo di chi mormora, degli ipocriti, degli ingrati.
E allora chiediamoci: Davvero l’eucaristia ci trasforma? Davvero permettiamo che il Cristo ci assuma in sé? Davvero permettiamo di coinvolgerci nella sua vita nuova?
“Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue rimane in me e io in lui. Come il Padre, che ha la vita, ha mandato me e io vivo per il Padre, così anche colui che mangia me vivrà per me.” 

E la prova che lasciamo che il Cristo ci assuma nella sua vita e nel suo corpo è data dal fatto che il lasciarci incorporare in lui diventa anche un lasciarci edificare nella sua Chiesa:
“Poiché vi è un solo pane, noi siamo, benché molti, un solo corpo: tutti infatti partecipiamo all’unico pane”.
Il sentire cum Christo è sempre un sentire cum ecclesia.
Il vivere in Cristo è anche un vivere nella Chiesa.
Dobbiamo constatare invece che tanti ancora oggi vorrebbero vivere un Cristo, separandolo dalla appartenenza ecclesiale.
Ma non ci può essere comunione con Cristo senza comunione con i fratelli.
Chi accetta di vivere in Cristo deve accettare anche che Cristo tramite l’eucaristia lo coinvolga nel sacrificio della propria vita per la salvezza dei fratelli.
Tanti che vivono la loro devozione eucaristica in modo solitario ed egoistico, rinchiusi in una dimensione privatistica della loro religiosità senza nessuna attenzione ai fratelli, specie quelli che soffrono e hanno bisogno di essere accolti e curati, non si rendono conto di stare vivendo una fede falsa e alienante che tradisce la stessa eucaristia cui partecipano.

E dunque bisogna stare attenti a come accedere all’eucaristia.
San Tommaso, con le parole di  San Paolo ammonisce:
Vanno i buoni, vanno gli empi;
ma diversa ne è la sorte:
vita o morte provoca.
Vita ai buoni, morte agli empi:
nella stessa comunione
ben diverso è l'esito!
Ecco il pane degli angeli,
pane dei pellegrini,
vero pane dei figli:
non dev'essere gettato ai cani.

Vogliamo pregare dunque Maria, primo tabernacolo della storia, che aiuti ognuno di noi a diventare tabernacoli viventi sulle vie del mondo e della storia.
Per portare e far cibare del Cristo pane del Cielo ogni fratello che incontreremo sulle nostre strade.



martedì 3 giugno 2014

PAPA FRANCESCO IN TERRASANTA.

Se anche non avesse tenuto nessun discorso, credo che i gesti di Papa Francesco e alcune immagini significative sarebbero state altrettanto eloquenti.  Mi piace fra tutte evocarne tre che, per il mio impegno al servizio per il dialogo ecumenico ed interreligioso mi hanno colpito.
La prima immagine che mi ha commosso è stata la preghiera silenziosa, l’uno accanto all’altro, quasi addossati alla pietra della tomba di Cristo di Francesco e Bartolomeo: come non pensare a Pietro e Giovanni in quel giorno di Pasqua, entrati per vedere e per credere, sfidati alla fede proprio da quel sepolcro vuoto! Ma su quella pietra c’era il vangelo, c’era l’annunzio, la lieta novella: “è risorto, non è qui!” Che bello il gesto liturgico di far proclamare il vangelo della resurrezione proprio dall’evangelario portato fuori dal Santo Sepolcro: qui si supera ogni ecumenismo di facciata o di scuola, in Pietro e Giovanni che entrano ed escono dalla tomba vuota, ed escono insieme per annunciare l’inaudita novella, ci vien detto che la Chiesa ha un futuro e l’unità dei cristiani non è più un esercizio accademico ma un cammino di fratelli.
Sulla mia pagina di face book, a commento poi di una immagine che mette insieme le tre foto di Giovanni Paolo II, Benedetto XVI e Francesco mentre depongono la loro preghiera nella fessura del muro del Tempio, ho scritto: <<Questa è la chiesa che dialoga!>> Perché in quel gesto, credo sia espressa tutta l’intensità e la continuità del dialogo che la Chiesa sta portando avanti col popolo ebraico. Tre tappe di un unico cammino. Giovanni Paolo II nel suo scritto riportò la richiesta di perdono al popolo ebraico pronunciata in occasione del grande Giubileo del 2000; Benedetto XVI si ispirò ad un salmo “delle ascensioni” per sottolineare l’imprescindibilità dalle radici ebraiche da parte del cristianesimo; Francesco ha deposto il testo del Padre Nostro per ribadire la comune adorazione di uno stesso Dio. Né fratelli maggiori o minori, ma padri e figli di un’unica fede: è questo il vero modo di guardarci reciprocamente!
E infine l’immagine dei tre amici, il papa, il rabbino, l’imam che si abbracciano: dove l’amicizia indica il cammino al dialogo interreligioso, perché lo supera nel rispetto della diversità in carità che, come esperienza di Dio è sempre “maior”, più grande. E proprio da qui può partire l’impegno comune per non strumentalizzare il nome di Dio e la collaborazione perché Gerusalemme diventi davvero la metafora della casa comune di ogni figlio di Adamo.
Tre  immagini, un unico desiderio di Francesco: la pace e l’unità, che poi è il desiderio di tutti. Ma che penso segnino un modo nuovo di guardare alla Chiesa e al dialogo da parte della Chiesa. Lo si è visto nella proposta di Francesco di offrire la propria “casa” (e la casa la si apre agli amici) per la preghiera comune tra Israeliani e Palestinesi. Credo sia questo forse il momento ad oggi più alto del pontificato di Francesco.

Ignazio La China

domenica 4 maggio 2014

Il fico e l'anima


Il fico è tra le piante più comuni in Israele e la pianta del fico e i suoi frutti hanno dato spesso origine a episodi, modi di dire e parabole nella lingua ebraica.

Tra l’altro è una delle poche specie ad avere più nomi (ad esempio c’è un dove diverso per indicare in fico selvatico, un fico immaturo, un fico precoce, il fico grosso da quello piccolo, un albero carico di fichi, un fico sterile.

Tra l’altro, l’esegesi rabbinica individua nel fico l’albero del bene e del male e quindi nel fico anche il frutto proibito (in occidente diventerà poi mela per la ambiguità di malum: mela e male), sicuramente anche per il gioco (sono le stesse consonanti della radice) tra ficus e quello che lo Zorell nel suo Lexicon definisce appetitus venereus. Di fatti poi la tradizione popolare identificherà col frutto del fico anche l’organo sessuale femminile.

E c’è poi anche il nome della ficulnea/ficetum specie se si vuole sottolineare l’albero col suo tronco e rami, il suo legno: è t’nh  ma nel linguaggio comune col suffisso recupera la radice piena e diventa t’nty dalla radice aramaica tin(t) a sua volta dall’assiro tintu. Fra l’altro noto che la stessa radice t’in è rimasta anche nell’arabo.

La radice tematica per indicare il legno di fico perciò in tutte queste lingue è tintu.

Quando lessi per la prima volta queste note nel lexicon mi ricordai che anche noi usiamo una parola e una espressione equivalenti.

Mio padre per indicare uno che era un buono a nulla, che non voleva lavorare, che non serviva a niente diceva che era “lignu i ficu” oppure, con significato equivalente che era “tintu” spesso accompagnato con “tintu e vili”, oppure dall’espressione: “chiddu è tintu: a chi serava?”, “chiddu è tintu: ‘nserava a nenti”. E nel vedere uno preso dalla “tinturìa” che è la caratteristica propria di chi è tintu, cioè il lasciare che le giornate passino senza far nulla, (ma spesso era anche usato in modo bonario) lo salutava con “ahi! Lignu i ficu”.

E c’è tuttora da noi anche la forma completa: “è tintu cuomu ‘nlignu i ficu”.

Per capire questa espressione bisogna capire qual è la caratteristica del legno del fico: il legno del fico non è buono a niente, non si può seccare per intagliare, non brucia bene come combustibile, in pratica uno non sa che farsene, non ha nessun pregio né valore, anzi a stare in contatto con questo, specie se verde si può restare infastiditi e sporcati dal “latte” che secerne.

Dire oggi ad un uomo che è tintu significa appunto dire che è insignificante, senza nessuna qualità, specie a volte di dubbia moralità, che da lui non ti puoi aspettare niente di buono.

Infatti spesso tintu (si pensi al tiempu tintu o a una jurnata tinta) diventa sinonimo di abbrutito, cattivo.

Mentre il senso della impossibilità di passare ad una posizione positiva ha dato luogo all’altra espressione “è gghjuntu tintu; a cchjui è tintu”  per indicare un malato in fin di vita, un ammalato senza speranza di guarigione.

Ora, siccome è sicuro che certamente da noi tintu non significa certamente dipinto o tinteggiato (qualcuno lo sostiene: ma ditemi voi che senso avrebbe dire ad uno che è colorato?) e che sicuramente la tinturìa  non è l’antesignana delle odierne tintorie e lavasecco, io credo che questa espressione (con l’immagine che veicola) del nostro dialetto ci sia arrivata proprio dal mondo semitico (ebraico e forse anche arabo).

E in fondo non è l’unica: basti pensare all’assiro myskinu ( in ebraico misken, in arabo maskin) rimasto nel nostro miskinu/ miskinieddu che è il povero e il misero senza nessuna speranza: il povero di spirito cui appartiene il Regno dei cieli.

Ma c’è poi un’altra parola che mi ha fatto riflettere per una imprecisa, secondo me, traduzione e quindi attribuzione di significato tra il dialetto e l’italiano.

Il versetto di Genesi 2,7 letteralmente così dice “e plasmò YHWH Dio l’homo polvere dall’humus e alitò nelle sue nari un fiato/ neshamah di vita”.

Neshamah è proprio l’alito (diverso dal soffio): il fiato che viene su dai polmoni, è il segno della respirazione e quindi della vita (l’immagine che richiama la Genesi è proprio quella di una respirazione bocca a bocca tra Dio e l’uomo che ha plasmato).

Proprio per questo è sinonimo di anima.

Ora c’è una espressione – tra le più belle – che da noi usa una madre nei confronti del suo bambino (e si noti che è propria del momento in cui si coccola il figlio avendolo in braccio e di fronte, quasi bocca a bocca): “shamma, shamma miu” . Con la variante “arma mia, arma ro ma cori” (cioè anima del mio cuore).

Alcuni hanno inteso questa espressione come “fiamma”. Ma, a parte il fatto che il nostro dialetto non conosce l’equivalente dell’italiano “fiamma” (noi abbiamo solo u luci – e non il fuoco: ma il discorso sulla luce ci porterebbe lontano – e i faiddj : le faville) c’è una comparazione che credo ci aiuti a capire meglio: nel dialetto della Contea di Modica l’espressione equivalente è “ciatu miu, ciatu ro ma cori”. E anche “vita, vita mia”.

Ed è indubbio che ciatu/ sciatu sia fiatu, fiato, o meglio, alito.

Questo mi spinge a concludere che il nostro shamma sia da intendere più come fiato/anima piuttosto che con fiamma.

Nel linguaggio parlato infatti la “n” iniziale è destinata a cadere e la piccola “e” è quasi impronunciabile mentre la “m” è molto forte  per cui non fa impressione che da neshamah si sia arrivati a shamma. Il verbo nshm/ alitare – sospirare  nella forma Hi’phil porta appunto la radice shmm.  Del resto anche in arabo la radice nshsh simile a nshmh  indica l’animo, l’animare, il dare la vita.

Da notare poi così come shamma è correlata ad arma, così ciatu è correlato a vita. Questo ci riporta all’unico vocabolo all’origine nei suoi significati complementari: alito-fiato-anima-vita, ma ci riporta anche all’uso semitico di ripetere sempre le affermazioni due volte usando dei sinonimi (basti pensare ai salmi), in cui la seconda volta il sinonimo però è anche una spiegazione del primo, un allargamento di significato.

Perciò la dichiarazione d’amore della mamma è sempre fatta così:

“tu sei il mio fiato /

Tu sei la mia vita”

O anche:

“tu sei il mio alito /

Tu sei la mia anima”.

Così dicendo la mamma dice al figlio: “in te c’è il mio stesso alito di vita, in te c’è la mia anima: io ti ho dato la vita, quello che c’è in me è in te e quello che c’è in te è in me”.

E così si capisce l’altra espressione che generalmente viene aggiunta nell’abbraccio finale (ho ricordato proprio la posizione in principio per giungere a questo fatto): la mamma si rivede nel figlio, vede se stessa, vi si specchia, e proprio per questo può dirgli: “specchju miu, specchju ro ma cori”.

– salvo migliore opinione –.

IO ACCUSO…

Tra epidemia e calura estiva è passato sotto silenzio un importante responso della Congregazione della Dottrina della fede e approvato in pr...