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sabato 16 gennaio 2016

LA MIA INTERVISTA SU FREETIME

                  

San Gaetano da Thiene diceva: "Sfidate la Provvidenza, lei vi schiaffeggerà con l’abbondanza". Padre Ignazio La China, parroco della Chiesa di San Giuseppe a Scicli ha sperimentato nei lunghi anni del suo sacerdozio, ventotto oramai, che è proprio vero. Anni del suo apostolato impiegati nel servizio di tre parrocchie povere (prima la Madonna della Scala a Noto, poi San Giuseppe Lavoratore in Zappulla a Modica, San Giuseppe a Scicli) in cui spesso non c’è neanche di che pagare la bolletta della luce. Specie in quest’ultima parrocchia, un tempo centro storico ma ora in parte abbandonata dai suoi abitanti e diventata il quartiere con il più alto numero di immigrati di Scicli, tra tunisini, albanesi e rumeni. Sempre sfidando la provvidenza dunque, confidando in essa che non lo ha mai deluso e che lo ha sempre ripagato proprio per via dei suoi grandi sacrifici, specie quando, di fronte alle crescenti situazioni di povertà ci si è dovuti attrezzare per far fronte alle nuove necessità, al servizio degli ultimi, degli umili, dei disagiati e degli sfortunati.
Ai bisogni materiali si è sopperiti con la convenzione col Banco Alimentare e creando un raccordo con le associazioni di volontariato cittadine (P. Ignazio è Assistente della Commissione Caritas cittadina e del Centro di Ascolto di ascolto cittadino) ma spesso il vero bisogno sono la solitudine e tante povertà spirituali: e da qui il suo duro impegno nel non mancare mai nell'arduo e spesso difficile compito di offrire una spalla su cui piangere, una mano di aiuto ed anche contributi concreti a chi ne ha di bisogno. Lo incontriamo accompagnati da una cara collega, Pinella Drago, che prima di introdurci a lui ci fa da cicerone lungo le viuzze e le strade che conducono nella sua parrocchia.
E’ reduce di una riunione preparatoria della “Cavalcata di San Giuseppe”. E’ stanco ma col sorriso di chi è soddisfatto per come sono andate le cose. E’ molto legato Padre Ignazio a questa  rappresentazione religiosa e soprattutto tiene molto al fatto che essa, nonostante l’inevitabile ed affascinante folklore di cui è intrisa, non perda la sua intima essenza. “E’ una festa ricca di suggestioni, lunga e dalla laboriosa preparazione delle straordinarie bardature dei cavalli, che coinvolge una intera città ma che non dobbiamo dimenticare – tiene ad evidenziare Padre Ignazio – possiede una imprescindibile dimensione sacra. La cavalcata di San Giuseppe è la Rievocazione della biblica Fuga in Egitto della Sacra Famiglia, narrata dagli Evangeli. ll coloratissimo corteo, con la Sacra Famiglia in testa, si snoda per le vie della città dove, in vari punti e quartieri sono accesi i pagghiara, falò attorno ai quali si raccoglie la gente del vicinato in attesa del passaggio della Sacra Famiglia. La tradizionale Cena, che come ogni anno, si svolge sul sagrato della Chiesa di San Giuseppe è una cena di beneficenza con l’offerta dei doni per i poveri. Tutto ciò rischia di diventare più coreografia che un modo per poi stare anche accanto al più povero e bisognoso.  Ogni anno, durante i preparativi della festa la questione nodale che mi trovo ad affrontare come una sorta di baluardo della sacralità  è sempre quella  di riuscire a far convivere, in un sano equilibrio, folklore e fede” . Per Padre Ignazio La China la Chiesa vicina ai più bisognosi ed agli ultimi non può abdicare al suo ruolo di madre caritatevole in nessuna occasione, sia essa festosa che di vita quotidiana. Sul solco di questo pensiero preponderante nasce, ci racconta con malcelato orgoglio ancora Padre La China, “Casa Valverde” ad opera della Fondazione San Corrado di cui lo stesso Padre Ignazio ne è presidente per volontà del Vescovo di Noto, Mons. Antonio Staglianò. Sulla scia di esperienze diocesane analoghe come ad esempio quella di Pachino denominata “Casa dopo di noi” dedita alla cura e all'ospitalità dei soggetti affetti da disabilità fisica che non hanno o avranno più il supporto dei genitori, o quella di Noto “Casa Tobia” sorta con l’intento di animare di integrare e recuperare ragazzi con handicap mentale o il cantiere educativo progettato insieme con la Scuola Media Maiore di Noto per l’integrazione della comunità dei “camminanti” fortemente presente nel territorio netino.
A Scicli padre Ignazio è stato il promotore, insieme con la Caritas Diocesana,  di “Casa Valverde” dove si sta sperimentando l’esperienza di “Housing first”: assicurare prima di ogni bisogno l’opportunità di una casa a quelle famiglie che versano in situazione economica per via della quale il mantenimento di una casa non permetterebbe loro di provvedere agli altri bisogni di prima necessità . Le stanze dell’ex convento cinquecentesco delle suore Mercedarie a Scicli, da sempre adibito ad orfanotrofio, sono state ristrutturate ed adibite ad appartamenti in grado di ospitare interi nuclei familiari. Debitamente attrezzati con camere  da letto, frigo, cucina, lavanderia, gli appartamenti, tre in tutto,  rappresentano una opportunità concreta di alloggi dignitosi. Una gemma pienamente incastonata nella struttura della Chiesa caritatevole di Papa Francesco e che ogni giorno è testimonianza viva di quanto piccoli gesti  possano farci sperimentare la Santità di  vivere  con Dio, insieme a Dio. “Dio – afferma Padre Ignazio - ci è accanto nella nostra vita a partire dal battesimo. Tendiamo a dimenticarlo. San Paolo chiamava Santi i suoi. Noi siamo già santi e dovremmo sperimentarlo pienamente nel nostro intimo e poi manifestarlo nelle nostre opere ma non sempre ne siamo capaci, -  continua ancora Padre Ignazio - e per farlo non occorrono gesta eclatanti ma solo tanta fede e concrete azioni quotidiane. Nino Baglieri, ad esempio, lo ha espresso”. Padre Ignazio cita non a caso Nino Baglieri. Egli infatti è stato nominato Giudice Delegato per la causa di beatificazione di Baglieri ed in questa qualità è impegnato a  raccogliere le testimonianze a supporto della causa di beatificazione.“Ciò che emerge dall’ascolto di tutti i testimoni – ci racconta ancora Padre Ignazio -  sembra quasi un ritornello: un soggetto  straordinario in quella che è stata l’ordinarietà della sua  esperienza.   Egli ha vissuto il suo dramma in comunione con Dio e attraverso un percorso che invece altri hanno vissuto in senso opposto e completamente diverso. Nino Baglieri cade da una impalcatura, resta paralizzato.  Altri che hanno vissuto analoga esperienza hanno pensato ad un Dio distratto, forse anche inesistente ma per lui invece  è stata l’occasione per scoprirlo questo Dio.   Se ci riflettiamo col senno di poi in un modo strano Dio ha scelto di entrare nella sua vita. Una vita vissuta pienamente come se la sua disabilità rappresentasse per lui un momento di forza piuttosto che un limite. Nino Baglieri ha mantenuto rapporti e vecchi amicizie, ne ha create tante altre con una semplicità di cuore sbalorditiva che è possibile percepire concretamente anche dai suoi innumerevoli scritti.  Nino Baglieri sentiva che Dio era presente nella sua  vita  e  non perdeva occasione per  esprimere la sua  gioia nell’averlo incontrato”.  Padre Ignazio ci racconta come tra tutti i seminaristi ed i preti della diocesi che frequentavano abitualmente la sua abitazione sia stato  l’unico a non averlo mai visitato pur avendolo più volte incontrato a Noto. Un paradosso che oggi egli legge come un disegno divino affinché possa svolgere con più imparzialità ed obiettività il suo ruolo  nella causa di beatificazione. L’insegnamento che si può trarre secondo Padre Ignazio dalla vita di Nino Baglieri è quello di saper fare della vita un dono. “Nino Baglieri – dice Padre Ignazio - sceglie di seguire il Cristo sulla Croce e alla fine diventerà egli stesso il Cristo sulla croce  per la sua sofferenza finale”. La nostra conversazione con Padre Ignazio prosegue nonostante l’ora tarda, affascinati da quest’uomo di Chiesa che si reputa un intellettuale sui generis. Uno studioso appassionato dei classici greci e latini, legge la Bibbia in ebraico e recita il breviario in latino per non perdere la ricchezza di sfumature che nelle traduzioni non si colgono più, ma che da prete marginale come ama definirsi sente forte la responsabilità di essere dal momento della ordinazione sacerdotale un alter Christus, nonostante i propri limiti. Dove prendere la forza? L’Eucaristia e poi la preghiera. Non tanto dire parole, quanto stare a guardarlo in silenzio, Lui nel tabernacolo e io in fondo alla chiesa, e mettergli davanti le persone che si amano e magari chi proprio non va giù… Inevitabilmente si parla della recente nomina ad arcivescovo di Palermo di Don Corrado Lorefice. Padre Ignazio ci esprime tutta la sua gioia per questa nomina. Con Mons. Lorefice sono coetanei, hanno fatto il  seminario insieme  e studiato insieme sia a Catania e che a Roma. Mons. Lorefice ha studiato morale.  Padre Ignazio  Diritto canonico.  “E’ sicuramente l’uomo che ci vuole oggi a capo di una Diocesi così importante per storia ed estensione. Al di là degli studi e della sua formazione ciò che ho ammirato sempre in don Corrado  é la sua calda umanità, ci dice.  E’ indispensabileper creare un solido  rapporto con chi crede ma anche con chi non crede. Questa caratteristica gli sarà utile per il tipo di lavoro che andrà a fare”. Padre Ignazio è uno di quei preti che hai grande difficoltà ad immaginare su un pulpito ad impartire vuote benedizioni e pronunciare roboanti discorsi. E’ immediato, sanguigno, vero. Con lui è possibile creare subito un contatto che in un non niente si trasforma in empatia ed eccoci già ad affrontare tematiche più profonde ed intime. Parliamo di gioie e sconfitte che caratterizzano il percorso di vita di ognuno di noi e a maggior ragione quelle di chi ha scelto di essere un pastore di anime: le sue.
“Avverto forte il senso della sconfitta – inizia a confidarsi Padre Ignazio - quando  non  riesco  a far comprendere  bene agli altri come il sacro  si deve incarnare sempre nella storia così come l’esperienza di fede. Ma proprio dalle sconfitte, da quelle più cocenti, ho imparato molto. Il Signore ha voluto che imparassi proprio da esse ed oggi ringrazio il Signore per questo dono immenso al punto che “prete”, secondo il concetto di servizio e di donazione completa agli altri,  sento di esserlo pienamente  dal  25° anno di ordinazione sacerdotale sia per  la maturità, l’esperienza, ma anche  la grazia immensa  che il Signore mi ha dato di raccogliere i frutti di quanto seminato. Frutti migliori raccolti lì dove non mi aspettavo nulla. Per me la gioia più bella è data da tutti coloro i quali oggi vivono a pieno la  parrocchia e partecipano a tutte le attività della comunità. Sono i ragazzi di un tempo, piccoli chierichetti allora,oggi uomini e padri di famiglia. Ho avuto la gioia e l’onore di accompagnarli nel loro cammino di fede e di crescita. Li ho cresimati, sposati, ho battezzato i loro figli ed oggi siamo sempre più comunità. Credo che sia questo il dono più grande per un prete. Vivere in sintonia con la propria comunità, accompagnarla nella crescita e mai mortificandone le diversità culturali e religiose che in una società sempre più multietnica come la nostra è ovvio ci siano. Sono un docente, ho insegnato all’Istituto   Magistrale di Scicli, all’istituto di teologia di Noto e ora insegno all’Istituto Teologico San Metodio di Siracusa. Sono incaricato diocesano per l’ecumenismo e dialogo. Ho anche la grazia di poter vivere a contatto con Ebrei, musulmani ed Ortodossi. Vivere una esperienza di Chiesa con  rappresentanti di diverse  religioni la giudico una delle esperienze più arricchenti tra quelle che il sacerdozio mi ha regalato. Mi commuove ancor oggi ad esempio  - prosegue Padre Ignazio - che il rappresentante della chiesa ortodossa  a Ragusa, oramai da oltre cinque anni qui (è arrivato giovanissimo diacono a 28 anni),  nonostante gli anni di frequentazione che contraddistinguono il nostro rapporto di amicizia e di stima  ad oggi  si rivolge a me  dandomi del Lei.  Lo fa in segno di grande stima “Dopo mio padre, tu e il vescovo Paolo Urso”, mi dice, e vi assicuro che quando si riesce a mettere in disparte le ideologie e si vive pienamente  il rapporto umano, l’esperienza  è fortemente arricchente”. E che l’esperienza di interreligiosità ed interculturalità sia un modo  attraverso il quale Padre Ignazio riesce a dare un volto pragmatico al suo concetto di Chiesa, lo si percepisce immediatamente. È come se per certi versi la comunità di San Giuseppe fosse più avanti rispetto le istituzioni stesse. Non appena si presenta un caso che gli assistenti sociali reputano più delicato o complesso non esitano a confrontarsi con Padre Ignazio. Spesso più che aiuti economici i casi necessitano sostegno morale, dialogo ed ascolto. Lo stesso che Padre Ignazio agevola e coltiva coi suoi parrocchiani. Le piccole dimensioni della parrocchia lo permettono. Non riunioni di gruppi per categoria che tendono sempre ad escludere qualcuno ma riunioni che coinvolgono tutta la comunità parrocchiale, dai giovani alle famiglie, insieme con assoluta semplicità magari anche condividendo un dolce preparato in casa. I giovani – ci dice Padre Ignazio – se li convochi per una riunione di catechesi ti snobbano ma se crei un pretesto per stare insieme a loro, essi  non fuggono. Tutt’altro. Ed è in quei momenti che puoi stargli veramente vicino, seguirli ed indicare loro il giusto cammino. Senza assurgere a maestro o censore ma essendo uno di loro. Un loro amico. Padre Ignazio è sui generis anche nella capacità di parlare ai giovani e diciamo anche nell’utilizzo degli strumenti tipici dei giovani e della società moderna. Alcuni nell’ambiente ecclesiastico demonizzano i social però per lui sono uno strumento di  dialogo e  di opportunità di incontro con chi magari per orgoglio o per pudore ha difficoltà a chiedere aiuto, l’aiuto di un prete. L’intervista a Padre Ignazio si prolunga, diventa un piacevole dialogo e confronto. Si continua a trattare argomenti di scottante attualità. L’ultimo, ci ripromettiamo, prima di salutarci: il sinodo sulla famiglia e il gran parlare che si è fatto sulle unioni gay.  “Non mi scandalizza  il fatto che due persone dello stesso sesso possano amarsi. La chiesa con il suo insegnamento si mostra critica verso tali  sentimenti solo nella  misura in cui li  si vogliono catalogare con definizione tipiche di istituzione secolari  come il sacramento del matrimonio che è una istituzione che nasce in relazione ad un uomo ed una donna ai fini della procreazione. Tutto ciò che esula da ciò non può rientrare nella definizione di matrimonio. Il problema non è dato dal fatto di due persone dello stesso sesso che si amano e stanno insieme. Poi bisogna sempre distinguere tra chi crede e chi non crede. La Chiesa ricorda che non l’orientamento ma l’esercizio dell’omosessualità è peccato. Ma mentre condanna il peccato accoglie sempre l’uomo peccatore. In coscienza ognuno poi davanti  al Signore – ci ricorda Padre Ignazio – risponde delle proprie scelte.  Il primato delle coscienze viene innanzitutto. Un figlio ha il diritto di avere un padre ed una madre, per questo non è corretto parlare di matrimonio tra gay. Ho diversi amici gay ma  nessuno di essi  mi ha mai manifestato questa loro voglia di sposarsi. Mi viene da pensare che spesso dietro questi argomenti così scottanti ci sia una lobby minoritaria che possiede strumenti e risorse economiche tali da influenzare le grandi scelte della società. Stiamo andando verso una società sempre più pluralista, in cui non hanno senso forti pregiudizi. Per chi crede, chiunque sia, l’importante è sempre voler fare un cammino di conversione e di fede. Mutuo quindi le parole di Papa Francesco “se una persona è gay e cerca il Signore e ha buona volontà, chi sono io per giudicarla?» Una citazione con la quale Padre Ignazio si conceda da noi e ci lascia col  profondo convincimento che è davvero un prete sui generis.

sabato 19 dicembre 2015

La cavalcata di san Giuseppe: parliamone prima con calma. Ecco cosa scrivevo nel 2000. Cosa rimane e cosa è cambiato?

Confesso di essere stato il primo  a stupirmi del dibattito animato intorno alla Calvalcata. E non per il solito rumore che si fa intorno a questo evento, a volte attento solo a note marginali o negative, quanto invece per la positività con cui - a mio parere - una collettività intera si è interrogata in fondo sulle proprie origini e sulle proprie tradizioni. Che nei crocicchi delle strade, nei bar, nei circoli, nei servizi televisivi  si parli di cavalli e bardature, ci si interroghi se bisogna rimanere fermi al modo tradizionale di cucire ‘u balucu’ nei ‘manti’ o se bisogna aprirsi a nuove tecniche, se conta di più il cavallo o il manto, se la cavalcata è ‘un’infiorata su cavalli’ o se basta un mazzo di fiori e un filare di campane per bardare un cavallo, che ci si interroghi se è giusta una premiazione o no e in che termini vada concepita... io credo che sia altamente positivo. Perché al di là delle discussioni più o meno animate e delle conclusioni alle quali si approda,  credo che il confrontarsi su un qualcosa che viene sentito come un patrimonio comune da conservare, da tenere vivo, da tramandare alle nuove generazioni  non possa che fare bene ad una città che, come qualsiasi collettività, se non vuole perdere la propria identità, se vuole guardare in modo serio al futuro, non può prescindere dalla propria storia e alla propria cultura. Spesso purtroppo ci si ferma alle banalità quotidiane, tirando quasi a campare da un giorno all’altro, senza avere il coraggio di confrontarsi né con il proprio passato né di proiettarsi con intelligenza verso il futuro. Come pure spesso chi potrebbe avere un ruolo determinante in questo progetto di recupero della memoria e della cultura della nostra cittadina si fa distrarre da motivi forse più alla moda o che solleticano di più il gusto di qualche elité piuttosto che aiutare un ripensamento serio sulle proprie radici. E’ facile sparare a zero su certe manifestazioni come obsolete, come è facile ridurre tutto a puro folklore e attrazione turistica : ma il contatto con tante persone che in occasione della Cavalcata e della festa di San Giuseppe ha voluto condividere con me la propria idea, magari raccontandomi qualche aneddoto in proposito, mi ha dato modo di vedere come ancora nonostante tutto non solo resistono tradizioni, ma resiste quella bontà, quella genuinità di fondo che  fanno di una tradizione una ‘sana’ tradizione ! E sono le sane tradizioni che a volte ci aiutano a trovare o ritrovare il gusto della vita. Quando  si vedono i volti di tutti, sia dopo la Cavalcata come dopo tutta la festa - ma il pensiero corre parallelo alla festa del Cristo Risorto per cui si potrebbe ripetere pari pari quanto stiamo dicendo a proposito di Cavalcata - ritornare sereni a casa, quasi soddisfatti per aver fatto una cosa che proprio così andava fatta, allora uno comprende come abbia ragione quel grande studioso di religiosità naturale che fu Mircea Eliade, nel definire queste esperienze come quelle - e solo quelle - capaci di far aprire il profano al sacro e dal sacro dare senso al profano e alla quotidianità dei giorni, la cui monotonia deve essere rotta dall’esperienza della festa, l’unica capace di sublimare il dolore dell’uomo. Perché la festa è importante e fondamentale anzitutto per chi la celebra, per chi ne è protagonista, per chi vi si lascia coinvolgere. E non per gli spettatori o i turisti. Perché questi vedono solo l’esterno, il folklore, la curiosità, ma poi se ne vanno. La festa è di chi fa festa ! La gioia è di chi fa la Cavalcata o di chi si ‘carica’ il Cristo Risorto : anche se non ci fosse un solo spettatore o un solo turista. Per questo credo che non bisogna indulgere a nessuna tentazione che vuol far diventare la Cavalcata o la festa dell’Uomo Vivo uno spettacolo da osservare o un evento compreso in un pacchetto prepagato per agenzie turistiche. L’evento culturale - e che qui si fonde col religioso - è ben altro. Altrimenti trasformeremo le nostre feste in eventi freddi come purtroppo avviene da alcuni anni ad esempio a Modica per la ‘Madonna vasa vasa’ in cui la gente assiste passivamente ad una rappresentazione portata avanti da alcuni operatori pagati dal Comune, o per le altre feste in cui i parroci devono pagare i portatori dei fercoli delle statue ! Oppure arriveremo a organizzare Cavalcata e Pasqua ad agosto per avere più turisti !  Qualcuno mi dirà magari che mi sono fissato a ripetere sempre le solite cose : è vero, ma è perché ci credo profondamente. Perché penso che sia questo mio compito, anche come prete. Perché tutta l’esperienza di fede biblica si basa su una categoria : quella del memoriale : l’uomo che non ricorda, l’uomo che non ha memoria, l’uomo che non coltiva la memoria attraverso la tradizione, cioè la trasmissione della memoria di padre in figlio, è un uomo morto. No, anzi, non è mai esistito ! E confesso che la cosa mi preoccupa ! 

giovedì 17 dicembre 2015

Omelia apertura porta giubilare a Scicli

<<La fede è la religione dei peccatori che cominciano a purificare se stessi per Dio>>
Così scrive il Beato cardinale Newman in una sua riflessione sul vangelo e la fede.
E’, a mio parere, una definizione che va al cuore della nostra esperienza di fede e che è anche in grado di illuminare non solo il rito dell’apertura della porta santa, ma lo stesso anno giubilare che il santo Padre ha voluto con decisione, nel voler reindirizzare tutto il cammino della Chiesa verso l’incontro di grazia e di misericordia con Dio Padre, per mezzo del Cristo suo Figlio, nella forza dello Spirito santo.

Religione di peccatori: così afferma Newman.
La nostra è una storia di peccato.
<<Un tempo non era così; l’uomo fu creato giusto, e allora vedeva Dio; cadde, e perse l’immagine e la presenza di Dio. Come potrà riacquistare il suo privilegio? … Egli lo perse col peccato; lo deve quindi riguadagnare con la purezza …>>
così scrive ancora il Cardinale Newman.
La fede cristiana niente altro è che lo scoprirsi peccatori e sentirsi orfani di Dio, scoprire ciò che il peccato ha provocato: la rottura della relazione e di comunione tra l’anima e colui che l’ha fatta.
A causa del peccato noi possiamo parlare alle sue creature, ma non possiamo parlare con lui.
La fede cristiana nasce dunque come consapevolezza di un ritorno, di un reindirizzamento della propria esistenza  verso il Dio Creatore e Signore di ogni cosa, come ci ha ammonito oggi Isaia:
Poiché così dice il Signore,
che ha creato i cieli,
egli, il Dio che ha plasmato
e fatto la terra e l’ha resa stabile,
non l’ha creata vuota,
ma l’ha plasmata perché fosse abitata:
«Io sono il Signore, non ce n’è altri.
Volgetevi a me e sarete salvi,
voi tutti confini della terra,
perché io sono Dio, non ce n’è altri.

Ma se la fede cristiana è esperienza del peccato, è ancor di più esperienza di perdono e di salvezza:
fede è religione di salvati
il peccatore, se lo vuole, può sperimentare che il Creatore è anche il Salvatore, colui che libera e riscatta dal peccato e dalla colpa. Il Dio giusto è colui che giustifica, cioè colui che giudica il peccato e salva il peccatore, come ancora ci ha ricordato Isaia:
Lo giuro su me stesso,
dalla mia bocca esce la giustizia,
una parola che non torna indietro:
Si dirà: «Solo nel Signore
si trovano giustizia e potenza!».
Dal Signore otterrà giustizia e gloria
tutta la stirpe d’Israele.

Ma come salva il Signore? Come giudica? Come rimette i peccati e le colpe?
<<Sia benedetto Dio e Padre del Signore nostro Gesù Cristo; nella sua grande misericordia egli ci ha rigenerati, mediante la risurrezione di Gesù Cristo dai morti, per una speranza viva, per una eredità che non si corrompe, non si macchia e non marcisce. >>  così inizia la prima lettera di Pietro.
La fede cristiana dunque si caratterizza proprio in questo suo specifico: essere l’esperienza di chi sa che la salvezza ci è donata da Dio per mezzo di Cristo suo Figlio.

Noi crediamo che, sì, davvero, hanno stillato, i cieli, dall’alto
e le nubi hanno fatto piovere la giustizia;

che, sì, davvero si è aperta la terra e ha prodotto la salvezza
ed è germogliata insieme la giustizia.

Sì, il Signore, ha creato tutto questo.

Verità germoglierà dalla terra:
Cristo, il Germoglio;

giustizia si affaccerà dal cielo: Cristo, il Frutto;

Amore e verità s’incontreranno, giustizia e pace si baceranno.
In Cristo giustizia e pace.
Cristo, il Giusto. L’unico Giusto.
Cristo il salvatore, come cantano gli angeli a Betlem:
«Non temete, ecco vi annunzio una grande gioia, che sarà di tutto il popolo: oggi vi è nato nella città di Davide un salvatore, che è il Cristo Signore.

Si, oggi noi non abbiamo più bisogno di aspettare altri salvatori:
«Sei tu colui che deve venire o dobbiamo aspettare un altro?».

Noi confessiamo il Cristo come il veniente: colui che è venuto, verrà e sempre viene a salvare.

Alla gente smarrita, oggi come ieri, in cerca di salvatori e salvezze, noi diamo il lieto annuncio, noi evangelizziamo la venuta del Salvatore e l’inaugurazione dell’anno di grazia del Signore:
«Andate e riferite a Giovanni ciò che avete visto e udito: i ciechi riacquistano la vista, gli zoppi camminano, i lebbrosi sono purificati, i sordi odono, i morti risuscitano, ai poveri è annunciata la buona notizia. E beato è colui che non trova in me motivo di scandalo!». 

Il solo Salvatore.
Lo annuncerà in modo franco San Pietro, il giorno di Pentecoste, a Gerusalemme:
<<In nessun altro c'è salvezza; non vi è infatti altro nome dato agli uomini sotto il cielo nel quale è stabilito che possiamo essere salvati».

E questa salvezza è dono gratuito, grazia:
<<Ma Dio, ricco di misericordia, per il grande amore con il quale ci ha amati, da morti che eravamo per i peccati, ci ha fatti rivivere con Cristo: per grazia infatti siete stati salvati>> così ricorda Paolo agli Efesini.

E’ Cristo, infatti la giustizia di Dio
Scrive papa Benedetto in un suo messaggio quaresimale: <<L’annuncio cristiano risponde positivamente alla sete di giustizia dell’uomo, come afferma l’apostolo Paolo nella Lettera ai Romani: “Ora invece, … si è manifestata la giustizia di Dio... per mezzo della fede in Gesù Cristo, per tutti quelli che credono. Infatti non c’è differenza, perché tutti hanno peccato e sono privi della gloria di Dio, ma sono giustificati gratuitamente per la sua grazia, per mezzo della redenzione che è in Cristo Gesù. E’ lui che Dio ha stabilito apertamente come strumento di espiazione, per mezzo della fede, nel suo sangue” (3,21-25).
Quale è dunque la giustizia di Cristo? E’ anzitutto la giustizia che viene dalla grazia, dove non è l’uomo che ripara, guarisce se stesso e gli altri. Il fatto che l’“espiazione” avvenga nel “sangue” di Gesù significa che non sono i sacrifici dell’uomo a liberarlo dal peso delle colpe, ma il gesto dell’amore di Dio che si apre fino all’estremo, fino a far passare in sé “la maledizione” che spetta all’uomo, per trasmettergli in cambio la “benedizione” che spetta a Dio (cfr Gal 3,13-14).
In realtà, qui si dischiude la giustizia divina, profondamente diversa da quella umana. Dio ha pagato per noi nel suo Figlio il prezzo del riscatto, un prezzo davvero esorbitante>>.
Ma se l’uomo è stato giustificato in Cristo, quale è questo cammino di purificazione che l’uomo deve compiere, di cui parla il Cardinale Newman?
Non sono opere frutto di volontarismo umano e protagonismo narcisista, quanto invece un aprirsi alla grazia della salvezza attraverso la conversione e il coinvolgimento nella stessa opera salvifica della croce attraverso i sacramenti.
Ecco allora il senso del Giubileo:
anzitutto un cammino di conversione: esso mette in evidenza che l’uomo non è un essere autarchico, ma ha bisogno di un Altro per essere pienamente se stesso. Convertirsi a Cristo, credere al Vangelo, significa in fondo proprio questo: uscire dall’illusione dell’autosufficienza per scoprire e accettare la propria indigenza - indigenza degli altri e di Dio, esigenza del suo perdono e della sua amicizia.
E poi un modo, attraverso le indulgenze e le opere penitenziali, un modo per immergersi nella grande ricchezza della giustizia divina, con umiltà:
giacché - aggiunge ancora papa Benedetto - <<occorre umiltà per accettare di aver bisogno che un Altro mi liberi del “mio”, per darmi gratuitamente il “suo”. Ciò avviene particolarmente nei sacramenti della Penitenza e dell’Eucaristia. Grazie all’azione di Cristo, noi possiamo entrare nella giustizia “più grande”, che è quella dell’amore (cfr Rm 13,8-10), la giustizia di chi si sente in ogni caso sempre più debitore che creditore, perché ha ricevuto più di quanto si possa aspettare>>.
Solo da questa esperienza della giustizia più grande, dell’amore, che poi si riesce a comprendere il dono di se stessi, nell’amore del Cristo, ai fratelli e al prossimo.
<<Non c’è amore più grande che dare la vita per i fratelli>>.
Senza questo orizzonte di fede le stesse opere di misericordia e gli atti di carità che siamo chiamati a porre come segno della vita nuova in Cristo, si riducono a meri gesti di filantropia.
Accogliamo dunque oggi l’appello alla conversione che ci viene da Dio tramite la Chiesa:
Ascolterò che cosa dice Dio, il Signore:
egli annuncia la pace.
Sì, la sua salvezza è vicina a chi lo teme,
perché la sua gloria abiti la nostra terra.

Cari fratelli e care sorelle,
quest’anno santo celebreremo in modo speciale la giustizia divina, che è pienezza di carità, di dono, di salvezza. Che questo tempo giubilare sia per ognuno di noi tempo di autentica conversione e d’intensa conoscenza del mistero di Cristo, venuto a compiere ogni giustizia e a rivelare il cuore misericordioso del Padre.
A lui sia gloria nei secoli dei secoli. Amen.


sabato 12 dicembre 2015

Essere parroco

Sono Parroco di San Giuseppe di Scicli.

Una nomina che per primo ha sorpreso proprio me ! E  che mi ha riempito di gioia non tanto perché diventai parroco nella mia stessa città natale, ma perché mi diede l’occasione di ‘sdebitarmi’ in un certo senso con il carissimo P. Angelo Cargnin, di venerata memoria, per quanto lui ha fatto per me e per la mia vocazione. Il ritornare a lavorare in quella stessa parrocchia di cui P. Angelo è stato primo parroco e per cui ha speso tutte le sue energie fino alla morte e dove io ho svolto il mio ministero di catechista fino all’accolitato, ha per me il valore di un segno forte: come prete ho donato le forze in qualsiasi luogo il Signore, tramite l’obbedienza al vescovo, mi ha chiamato e il mio impegno sarebbe rimasto invariato anche se il vescovo mi avesse mandato in qualsiasi altro luogo della diocesi, ma il fatto di essere stato chiamato proprio a Scicli, e proprio a San Giuseppe, lo colsi come un rinnovato appello a dare la vita certo per Cristo e la sua Chiesa, ma per quella Chiesa, per quel popolo di Dio che vive, soffre e spera a Scicli. Una città di cui mi sento figlio e che porto sempre con me nel cuore e per cui il giorno della mia prima Messa ho offerto il mio sacerdozio. Quell’undici settembre 1988 infatti alla consacrazione ho fatto un “patto” con il Signore: “io ti offro la mia vita e il mio sacerdozio per la conversione di Scicli: non mi importa se io sarò parroco a Scicli o meno, purché Scicli  si rinnovi nella fede dei padri”. E’ la prima volta che parlo di questo (anche se tante volte in passato avrei voluto dirlo a quelli che mi attribuivano mire di ‘conquista’ ora su questa ora su quell’altra parrocchia di Scicli !!!)  e lo faccio per rimettermi ancora una volta nelle mani del Signore: come già dissi nella Messa di ingresso in parrocchia la mia gioia grande è stata anzitutto la possibilità di poter rinnovare in questa occasione le promesse della mia ordinazione. Per me è stato infatti quasi un rivivere il giorno della mia ordinazione e come già per la mia prima messa salendo i gradini dell’altare ho ripetuto quel versetto che ormai non si recita più: “salirò all’altare di Dio, del Dio che rallegra la mia giovinezza !” (ma che io sottovoce continuo a recitare all'inizio di ogni messa). Da quel giorno sono passati anni : voglio approfittare di questo spazio per ringraziare quanti (e più di quanto io stesso potessi immaginare) mi sono stati accanto in questo momento importante della mia vita e che continuamente fino ad oggi mi fanno regalo della loro stima. Ma scrivo anche per rispondere ad una domanda che molti mi fanno su come intendo il mio stile e il mio programma di parroco. Io qui confesso di non pensare ad altri stili e ad altri programmi se non a quelli che il Cristo stesso ci suggerisce con il suo esempio. Non penso a tante organizzazioni, a tante attività, quanto ad offrire ai miei parrocchiani quella “compagnia della fede” che sola la Chiesa può dare: la vicinanza del Cristo compagno’ di strada che ci offre il viatico del suo Corpo e della sua Parola e che si fa carico della pena di vivere dei fratelli. E poi, soprattutto, l’impegno-dono della pace. 
E' il tema che ho scelto fin dalla messa di ordinazione, con le parole di Paolo: noi fungiamo da ambasciatori di Cristo... vi scongiuriamo, lasciatevi riconciliare!
A fondamento di un ministero importante quale quello di parroco, in questo anno giubilare che stiamo per cominciare,  credo che i sentimenti con cui un sacerdote si appresti a vivere il suo ufficio non possano che essere quelli stessi del Papa: cioè di sentirsi strumento di pace e di riconciliazione, della misericordia di Dio e per questo chiedere e offrire perdono, a tutti, indistintamente.  Solo cristiani pacificati  con se stessi e con gli altri saranno portatori di pace nel mondo. Questo me lo auguro per la mia parrocchia, per tutte le parrocchie di Scicli, per il bene della Chiesa, per il bene di Scicli. 

lunedì 20 aprile 2015

del nascere...

C’è chi crede alle coincidenze e chi no, c’è chi pensa che le cose accadano per caso e chi invece vi legge il disvelarsi di un progetto divino. Senza cadere in visioni deterministiche, tuttavia penso che il nascere in un giorno piuttosto che in un altro, un qualche significato debba pure averlo. 
Io, ad esempio, sono nato a Scicli, in casa, di Venerdì santo, durante la processione tradizionale, mentre i simulacri dell’Addolorata e del Cristo morto della Chiesa di San Giovanni erano fermi davanti alla mia abitazione: e non credo che questa sia solo una coincidenza. Mi piace infatti credere che le “cifre” della mia storia, personale e sacerdotale, siano già state impresse nella mia vita a partire dal giorno della mia nascita: in tutta umiltà confesso che se non ci fosse il comune denominatore della mia nascita il venerdì santo, non saprei spiegare altrimenti le vicende della mia vita. Anzitutto infatti, nel mio nascere il venerdì santo, leggo la chiamata a condividere nella mia vita la stessa vicenda dolorosa del Servo sofferente che dà la vita per i molti: e questo sia attraverso il ministero sacerdotale, sia attraverso la partecipazione personale all’esperienza della croce, soprattutto della sofferenza spirituale. Non so quello che il Signore mi riserva per il futuro, ma so per certo che sarà inscritto nel mistero della croce e nel mistero dell’iniquità che la croce mette a nudo. Come già successo finora. Il Signore infatti mi ha dato una grazia particolare, quella che spesso la mia azione o la mia presenza riesca a far venire allo scoperto il peccato che si annida nell’animo dell’uomo, nel mio e in quello degli altri, e questo talvolta comporta sofferenza e lacerazioni. Ma è una grazia che si vive appunto nella partecipazione alla croce di Cristo. Chiamato a stare ai piedi della croce di Cristo, ho però avuto la grazia di trovarmi, come il discepolo prediletto, in compagnia della Madre Addolorata: è come se Cristo stesso il giorno della mia nascita mi avesse affidato a Maria. Potrei  dire che la devozione alla Madonna, nella mia vita, è nata con me.
Qualcuno potrebbe chiedersi perché abbia raccontato oggi tutto questo: l’ho fatto perché, se la confessione, per un cristiano, come ci ricorda il grande sant’Agostino, è anzitutto confessione di lode, narrazione delle “gesta di Dio” che si sono sperimentate nella propria vita, anch’io, con queste mie - piccole e povere - confessioni ad alta voce, vorrei dare lode al Signore per le cose grandi che  ha operato in mio favore: non è proprio questo che il grande Agostino ci testimonia appunto nelle sue confessioni ? Non ho la pretesa di paragonarmi al Santo di Ippona, ma vorrei offrire umilmente la mia testimonianza perché anche altri possano essere aiutati a rileggere nella propria storia la presenza di Dio: se nella Bibbia ci viene testimoniato come il Dio che entra nella storia dell’uomo ed è presente nella vicenda esistenziale di questi fin dal suo essere concepito nel grembo della madre, allora già la nascita di un uomo (anche nelle sue modalità di tempo e luogo) porta inscritti i segni della sua  vocazione e della sua missione. Sta a noi poi riuscire a decifrarli.

Dunque il confessarsi è sempre un qualcosa che va al di là del semplice raccontare se stesso o le proprie idee o le proprie vicissitudini , è il mostrare come storia di Dio e storia dell’uomo si intrecciano nell’unica storia della salvezza 
Perché la croce non è mica uno scherzo. Ma il Signore ha voluto aiutarmi: si dice che chi nasce di venerdì sia “senza fiele”, dato che  il venerdì è il memoriale della morte del Cristo (e il fiele del peccato se 'è preso lui) e quindi del perdono per tutti i peccatori, chi nasce il venerdì si dice che non sappia odiare o tenere rancori. E meno male che io sono nato il venerdì santo: altrimenti come fare a perdonare il fratello o il confratello che ti pugnala alle spalle ?   
Ma Pasqua non è solo il venerdì santo: c’è il sabato santo, ed è il giorno del riposo nel sepolcro, del silenzio, della riflessione...
E poi c’è la domenica di Pasqua : il giorno della gioia e del rinnovamento. Anche qui il Signore mi ha voluto bene : mi ha fatto nascere il venerdì santo, ma almeno mi ha fatto nascere in un paese dove la domenica di pasqua “il gioia” della resurrezione si celebra davvero !


domenica 5 aprile 2015

SCICLI O LA CITTA’ DEL GIOIA



Solo chi non è sciclitano può pensare che nel nostro titolo ci sia un errore : sì, perché non è della gioia astratta che stiamo parlando, ma dell’appellativo che tradizionalmente viene dato al Cristo Risorto nella nostra città. Oggi è Pasqua e sappiamo tutti cosa questa parola rappresenti per la cristianità, ma sappiamo anche cosa significhi per Scicli. Dire Pasqua a Scicli significa non solo richiamare il Cristo Risorto in generale, ma indicare un simulacro - quello del Cristo Risorto - e la sua esposizione alla venerazione dei fedeli nella notte di Pasqua ( “a risuscita” che non comprendiamo perché non si faccia più durante la veglia pasquale) e soprattutto la sua traslazione nella Chiesa del Carmine nel mezzogiorno della Domenica : un simulacro che, insieme a quello dell’Addolorata, rappresenta nell’immaginario collettivo sciclitano un forte e fondamentale momento di coesione e di rappresentazione di una identità particolare. Non si può essere sciclitani senza sentirsi ribollire il sangue nelle vene alla vista del Cristo Risorto, specie se accompagnata dalle note musicali della marcia di Busacca. Perché la Pasqua a Scicli è tutta sintetizzata in questo simulacro e in quello che è il momento “clou” della festa : cioè l’attimo in cui “il Gioia”  dall’antro buio della Chiesa di Santa Maria La Nova esce balzando fuori trasportato  dall’incontenibile fercolo di mani e braccia nerborute, quasi a rappresentare plasticamente il momento della resurrezione, della vita che non si lascia trattenere dalla morte ! Il resto del giorno e della festa non è che commento, esplicitazione, variazioni su tema e contrappunto di questa esperienza fondamentale che si vorrebbe quasi prolungare all’infinito nel moto perpetuo dei giri in Piazza Busacca e dell’avanti-indietro  per le strade adiacenti per succhiarne fino in fondo forza ed energia per tutto l’anno ! Pasqua è quindi la data che più di ogni altra ha fatto e continua a far fare conti alla rovescia a generazioni di giovani e adolescenti che aspettano con ansia il momento in cui potranno dar prova della loro forza e resistenza alle prese con la “vara” del Cristo Risorto. E’ l’appuntamento atteso da un’intera città che aspetta  questo giorno per far  esplodere  nel suo cuore tutta la voglia di nuovo che si porta dentro.
E’ il giorno in cui la voglia di gioia, pace, serenità che ogni uomo si porta dentro può essere messa fuori e gridata e invocata al di là della stessa consapevolezza che si ha. Ogni anno,  si dice ed è vero, c’è sempre più gente che viene ad assistere a questa celebrazione. Folklore ? Certo, anche. Ma se anche dai paesi vicini vengono in tanti lasciando altre manifestazioni pasquali a loro dire più fredde e compassate, per farsi coinvolgere dalla passione e dall’esuberanza degli sciclitani, crediamo che sia non solo per una nota di colore. Proprio nel momento in cui la “pena di vivere” , come qualcuno ha chiamato il difficile compito di realizzare ogni giorno la sua umanità, sembra frustrare i desideri più intimi e autentici di ogni uomo mortificandone giorno dopo giorno la dignità, crediamo venga quasi spontaneo guardare a Colui che invece viene salutato come l’Uomo Vivo, quasi a dire l’Uomo per eccellenza. “Ecco l’uomo” sembra sentirsi ripetere chi guarda il Gioia. L’Uomo Vivo che è uscito vincitore dalla lotta con la vita e con la morte. E allora ognuno è spinto a non cercare fra i morti colui che è vivo, a non cercare, a non lasciarsi ancorare dal vecchiume di una vita che vuole, che deve continuamente rinascere, risorgere, rinnovarsi. E’ la Pasqua tempo allora in cui - mentre le situazioni politiche, sociali, economiche del mondo intero come delle vicende personali di ognuno vorrebbero indurci nella tentazione della disperazione - siamo invitati ad aprirci alla speranza, anche contro ogni speranza : e questo è quello che ci testimonia il Cristo Risorto. Oggi più che mai l’uomo ha bisogno di modelli di umanità vera : per questo l’Uomo Vivo ha la capacità di riproporsi ogni anno come “l’uomo riuscito” a cui ognuno può guardare con speranza. E solo questa speranza può essere fonte di gioia : perché la gioia non ha prezzo e non si acquista e non consiste nelle frivolezze del mondo, è il frutto di un incontro con qualcuno capace di aprirti il cuore e aiutarti a rileggere la tua storia, in positivo, nel segno della speranza appunto, come fece il Risorto con i due discepoli di Emmaus. Perciò a Scicli il Risorto è Il Gioia : mai appellativo fu più azzeccato ! E a Scicli ogni anno abbiamo la ventura di rivivere questo “dramma sacro” in cui tutto il popolo è protagonista, in cui - superata la distanza di spazio e di tempo - siamo riportati a quell’evento che duemila anni fa ha sconvolto la storia : di chi crede come di chi non crede ! Scicli come Gerusalemme (non l’aveva intuito già forse Vittorini ?) : Gerusalemme, città della pace, Scicli città del Gioia : non sembri un accostamento azzardato ! Vuole essere solo un augurio : di pace e di gioia, oggi più che mai per Scicli e gli sciclitani e per quanti vengono a condividere la Pasqua con noi, ma insieme e - oggi più che mai ce n’è di bisogno - per tutto il mondo. Buona pasqua !
   

giovedì 11 dicembre 2014

Camilleri? che vecchiaccio!!!

Gli sciclitani si sono “ricreati” a vedere  Scicli trasformata nella Vigàta del Commissario Montalbano! Confesso di essere anch’io un ammiratore di Camilleri, della sua scrittura originale : e da prima che il fenomeno Camilleri/Montalbano esplodesse ! Però. Però nonostante la sua prosa ammaliante e le sue storie coinvolgenti a me Camilleri non la dà a bere ! Camilleri appartiene a quella schiera di scrittori pericolosi perché hanno, come dicono gli antichi il “venenum in cauda”, il veleno nella coda come gli scorpioni e per questo sono pericolosi, più degli altri ! Perché dopo averti affascinato poi  ti mordono ! Prima era solo una sensazione che avevo nel leggere i vari romanzi, poi quando ho letto La bolla di componenda tutto mi è stato chiaro e i conti mi sono tornati ! Mi spiego. Sono un prete e perciò mi piace vedere tra l’altro come gli scrittori delineano la figura dei miei colleghi nei loro romanzi e, più in generale, come viene affrontato il mondo della fede e della religione, quale immagine di Chiesa viene mostrata. Ebbene, in Camilleri preti e Chiesa, quando ci sono, sono trattati sempre nell’unico modo anticlericale e illuminista secondo il vecchio cliché stantio. La Chiesa è oscurantista, alleata dei potenti, alleata dei mafiosi, concorre allo sfruttamento dei poveri, li nutre di illusioni e i preti sono mezze figure che pensano a fare  soldi vendendo sacramenti e bolle di indulgenze, a fare i mezzani tramite il plagio del confessionale... Niente di nuovo sotto il sole : così Sciascia, per restare nell’Isola o Eco nel Nome della rosa. come in un’antologia per le scuole, Centosicilie , curata da Bufalino : tutte le dimensioni della Sicilia sono illustrate, tranne una, quella della religione : che siamo un’isola di atei e agnostici e non ce ne siamo mai accorti ? Ma davvero i tesori di devozione, di arte, di pietà, le testimonianze di santi siciliani laici e preti (penso al Cusmano del Boccone del povero di Palermo, all’Annibale Maria di Francia e alla ricostruzione di Messina dopo il terremoto, a Sturzo, al Don Puglisi ucciso dalla mafia : cosa erano, sardi o veneti ? alle tradizioni di un cattolicesimo sociale che a fine secolo dà vita alle casse rurali in tutta l’isola o forse era la Corsica ?) non sono da tenere in conto ?
D’accordo, lo sappiamo, come ogni famiglia la Chiesa ha avuto ed ha le sue pecore nere e i suoi periodo bui, ma non vedo in base a quale criterio di equità i demeriti della Chiesa si debbano sempre sbandierare ad oltranza e i suoi meriti invece debbano essere sempre diminuiti se non misconosciuti del tutto ! Abbiamo un papa che ha saputo chiedere perdono per i misfatti della Chiesa, ma la cultura laica quando sarà capace di fare autocritica ? O davvero la pretesa del laicismo è quella di avere la verità in tasca ? Assistiamo ancora a balle storiografiche come quella dei secoli oscuri del medioevo e della Chiesa nemica della cultura : Eco ci ha saputo fare a dipingere i monaci che bruciano i libri, ma la verità è un’altra, che se non ci fossero stati i monaci a copiare nel medioevo non solo i codici della bibbia, ma anche quelli dei filosofi greci e arabi, a quest’ora la cultura europea non sarebbe mai nata ! Ed Eco da onesto intellettuale  che fa invece di dire grazie alla Chiesa e alla sua opera di conservazione ? Dice che la Chiesa  è nemica della cultura e finanche del ridere ! Poi però gli storici del teatro ad esempio dicono che il teatro moderno è nato dalle sacre rappresentazioni medievali e la commedia moderna riprende le tradizioni del “risus paschalis” medievale con cui i preti suscitavano l’ilarità e la gioia dei fedeli nel giorno di Pasqua ! E’ innegabile che i tesori dell’arte, in ogni suo campo sono stati creati da uomini animati da grande fede capaci di innalzare imperituri monumenti alla grandezza dell’uomo e del suo creatore: cosa ci ha dato la cultura laica invece se non  la dissoluzione e la frammentazione dell’uomo moderno ? Per rimanere in Italia penso ad un Moravia capace solo di raccontare in salse diverse sempre la solita storia di coiti anonimi e di solitari dialoghi con il suo ammennicolo : eppure è stato contrabbandato come un grande della letteratura ! E qual è la grandezza di un Dario Fo, premio nobel per gli sberleffi anticlericali del suo mistero buffo ? Per non parlare della accozzaglia dei luoghi comuni contro la Chiesa che comunemente si leggono nei nostri giornali e riviste radical - chic ! Luoghi comuni frutti di ignoranza atavica e impenitente ! Serviti a volte così bene da farci cadere anche il credente ingenuo. Come le fantasie sull’inquisizione, ormai smontate dalla critica storica seria, o quelle sulle ricchezze fantasmagoriche del vaticano : la santa sede pubblica un bilancio ogni anno ma nessuno ne parla perché dovrebbe parlare di deficit, altro che ricchezze ! O quella sui preti ricchi : quando io dico quanto ricevo dai fedeli al mese poi tanti mi fanno le scuse perché devono confessare di prendere il doppio di me ! Come la mettiamo allora ? Non scrivo queste cose per ritornare alla vecchia apologetica o per riprendere temi da crociate. Scrivo ancora una volta per dire anzitutto a chi con come condivide la fede : attento a non farti imbrogliare (e smettila di leggere Repubblica senza insieme poi leggere Avvenire !) e poi per invitare chi fa professione di laicità ad un dialogo serio e costruttivo : nella verità e non a partire dai pregiudizi. Perché confesso che mi fa male parlare con persone che pur di difendere il loro modo di vedere la Chiesa sono pronti a negare anche l’evidenza dei fatti ! Viaggio spesso e a volte ho passato intere giornate sul treno a cercare di dialogare con chi invece non vuole sentire ragioni perché significherebbe mettere in crisi le proprie sicurezze. No, ormai non mi arrabbio più : mi viene solo una gran pena nel vedere il professore, il medico, l’avvocato, lo scrittore arrampicarsi sugli specchi e fare solo mostra di ignoranza ! Che pena Camilleri, che non sai dimostrare se la bolla di componenda sia mai esistita o meno e però ti diverti a liberare il venticello della calunnia :  non ti ha insegnato il nostro Orlando che la politica del sospetto prima o poi si ritorce su se stessa ? Ricordati che solo la verità libera : perché non cercarla insieme ? O ti vuoi solo cullare nella tua verità come il tuo Montalbano si gusta da solo i suoi pranzi ? Ma se sei un buongustaio sai che le pietanze gustate in compagnia di amici hanno più gusto : perché non esci dal tuo mondo e non vieni a mangiare con noi ?

martedì 1 aprile 2014

La mia chiesa, la mia parrocchia


LA CHIESA

La Chiesa di San Giuseppe fu costruita nel 1504 da parte di un devoto nel suo podere sito nel quartiere medievale extra moenia detto del Casale. La cura della Chiesa e lo sviluppo della devozione a San Giuseppe furono affidate alla nata confraternita di cui facevano parte i nobili, i cavalieri e tutti gli artigiani di Scicli. Nei primi del 1600 la Confraternita di Santa Agrippina, dopo aver ceduto il proprio oratorio e il proprio orto ai Frati minori cappuccini perché vi costruissero il loro convento con annesso lazzaretto per la cura degli appestati, si fuse con la Confraternita di San Giuseppe e trasferì il suo altare con il simulacro della santa presso la chiesa di S. Giuseppe. A partire da questo periodo la chiesa fu elevata a Gancia della Matrice come succursale per l’amministrazione del battesimo, dell’unzione degli infermi e del viatico ai fedeli che non potevano salire sul colle dirimpetto alla chiesa di San Matteo. Perciò ebbe il privilegio di poter avere il fonte battesimale e la conservazione degli olei sacri e del Santissimo Sacramento pur non essendo chiesa parrocchiale. Come tutte le altre chiese del Val di Noto crollò in buona parte nel terremoto del 1693 e i lavori di ricostruzione furono ripresi già ai primi del 1700 con l’impianto di una nuova chiesa in stile barocco in armonia con tutte le altre chiese ed edifici della città. I lavori furono terminati nel 1772 così che al presente abbiamo una chiesa a navata unica con cinque nicchie per lato dove sono collocati gli altari laterali e un grande catino absidale con l’altare maggiore e un presbiterio spazioso. La decorazione dello spazio interno è pregevole per gli stucchi e la tenue colorazione delle volte secondo il nuovo gusto dell’epoca. Purtroppo un primo restauro degli anni ’60 ha un po’ tradito l’armonia primigenia e il primitivo progetto della chiesa settecentesca con la distruzione dell’altare maggiore e di tutta la decorazione absidale e dei quattro altari laterali. La chiesa è stata elevata a parrocchia il 1 dicembre 1950 ed è tuttora aperta a tutte le attività pastorali. Di  interesse artistico nella chiesa si trovano la statua marmorea di Santa Agrippina, in marmo bianco colorato, su una base che porta in bassorilievo la storia del martirio della santa, datata 1497 e attribuita al famoso scultore Donatello Gagini, inserita in una parete abbellita da un panneggio in stucco dorato con al centro la colomba dello Spirito  Santo;        il fonte battesimale con catino in unico pezzo in pietra dura locale sormontato da copertura lignea a cupola ottogonale; due angeli che reggono una conchiglia a mo’ di acquasantiera in pietra dura locale ai due lati dell’ingresso della chiesa di pregevole fattura; un crocifisso ligneo attualmente conservato in una nicchia laterale; La statua lignea di San Giuseppe, realizzata tra il 1773 e il 1780, rivestita parzialmente con lamine di argento decorate con motivi floreali a cura di Don Giuseppe Iemmolo e del Barone Penna che donarono dieci once d’argento ad hoc. L’incarico della statua fu dato al napoletano Pietro Padula, autore del presepe ligneo conservato nella chiesa di San Bartolomeo di Scicli. L’opera, interrotta a causa della morte del Padula avvenuta nel 1778 fu ultimata dallo scultore sciclitani Pietro Cultraro (o Cultrera). Un quadro con la Madonna delle  Grazie  tra le sante martiri siciliane Agata e Lucia e le anime del Purgatorio, ex voto di un certo D’Antonio di Lorenzo datato 1745 di buona fattura locale; Un quadro della stessa epoca raffigurante la cacciata dei   venditori dal tempio in una ricca cornice lignea dorata di stile barocco; La balconata lignea del coro dove era situato l’organo a canne della stessa epoca, con pregevoli decorazioni barocche. la sede lignea del celebrante e i due sgabelli decorati a foglie di oro zecchino e le due consolle laterali dell’altare maggiore in legno.

LA RETTORIA DEL CALVARIO

Poco più in alto della chiesa parrocchiale si trova la chiesa rupestre di Santa Maria al Monte calvario. Scavata nella roccia ha un abside arricchito da un altare barocco con un paliotto con un altorilievo della Deposizione. Sull’altare è collocato un sepolcro in pietra con una scultura anche essa lapidea del Cristo morto. Ai lati del presbiterio in due nicchie laterali si trovano i busti in pietra della vergine Addolorata e di San Giovanni. Nelle pareti rimangono tracce di una ricca decorazione a pannelli colorati. Ancora oggi nella chiesa si tengono le Ufficiature della settimana santa. Dopo il crollo di San Matteo e delle altre chiese, questa chiesa ebbe il privilegio di fungere da matrice per tutto il periodo della ricostruzione dopo il terremoto.

LA FESTA

La chiesa di San Giuseppe a Scicli è il centro della devozione cittadina al Santo Patriarca. La festa di San Giuseppe a Scicli infatti è una delle più tradizionali e antiche non solo della città ma dell’intera provincia. E’ all’estendersi della devozione a San Giuseppe in epoca post-tridentina dovuta ai vari ordini religiosi presenti nella nostra Isola che anche a Scicli prese forma la festa nella sua configurazione attuale che ha i due punti peculiari nella Cavalcata e nella Cena, oltre alle consuete espressioni religiose legate alla processione e agli altri riti liturgici. In tante feste patronali non solo isolane ma anche nel meridione d’Italia noi troviamo una Cavalcata di Nobili che vanno a rendere omaggio al Santo Patrono sontuosamente vestiti e con cavalli riccamente bardati. La peculiarità della cavalcata di Scicli in onore di San Giuseppe è data anzitutto dalle gualdrappe delle cavalcature che sono realizzate non in stoffa ma decorate interamente con il fiore della violacciocca, in dialetto locale “BALUCU”. La scelta di questo fiore è determinata dal fatto di essere conosciuto, per la sua forma, come “bastone di San Giuseppe” (a ricordo del miracolo della sua elezione a sposo della Vergine Maria) come ricorda il nome stesso: Balucu da “BACULUM (= bastone)”. Secondo la tradizione quindi ancora al presente la vigilia della festa un gruppo di cavalieri vestiti con gli antichi costumi contadini (pantaloni e gilet di velluto nero, camicia bianca ricamata, fascia multicolore intessuta ai fianchi, fazzoletto rosso, burritta, stivali e pipa di canna) e a cavallo di queste cavalcature riccamente addobbate si danno appuntamento nella piazza centrale della città da dove, all’ora stabilita, il corteo si muove dirigendosi verso la chiesa di San Giuseppe. Sul sagrato ci si ferma insieme per ricevere la benedizione e prendere “in consegna” tre figuranti che interpretano la Santa Famiglia. Infatti nel corso degli anni la seconda parte della Cavalcata si è rivestita di un particolare significato religioso, passando da un semplice atto di omaggio alla rievocazione della FUGA IN EGITTO. I cavalieri dunque faranno quasi da scorta alla Santa Famiglia che con un asinello farà il giro della città rievocando le tappe della fuga e della ricerca di ospitalità, mentre al passaggio del corteo tutti gridano: Patriarca, Patriarca!!! Dietro di loro segue ogni tipo di cavalcatura: cavalli, muli e asini e, dopo quelli bardati, anche quelli con solo campanacci o niente semplicemente, tutti con in mano le tradizionali ciaccare, le fiaccole per illuminare la strada fatte con gli steli del locale ampelodesmo. Lungo il percorso la Cavalcata si fermerà in vari punti della città dove sono accesi i “PAGGHIARA” caratteristici FALO’ per illuminare e riscaldare la Famiglia in fuga. Gli abitanti del quartieri che curano il falò offriranno così ospitalità e qualcosa da mangiare ai membri della cavalcata che poi riprenderà il suo giro della città per concludersi nuovamente sul sagrato della Chiesa di San Giuseppe. I falò accesi, dal loro significato apotropaico antico, passeranno poi a costituire i punti di ritrovo e di incontro delle famiglie del quartiere e degli amici e dei passanti che saranno ospitati cortesemente in una serata in cui la condivisione del cibo diventa elemento aggregante e fonte di comunione e gratuità. Della festa in passato si sono occupati storici locali come il nostro Carioti e poi il Pitrè e Serafino Amabile Guastella. Vedere infatti i cavalli coperti dai manti infiorati in mezzo ai bagliori delle fiaccole e dei falò e fra lo scampanio assordante delle sonagliere e il vociare dei cavalieri rappresenta certamente uno spettacolo eccezionale e di grande attrazione turistica. La festa liturgica che ha  i suoi prodromi nei sette mercoledi precedenti si concentra poi nella celebrazione  della festa esterna con le  Messe e nella processione pomeridiana del Simulacro del Patriarca cui intervengono di nuovo i cavalieri, stavolta senza le bardature (esposte come atto di omaggio sul sagrato della chiesa) ma ai cavalli sono messi solamente i FILARI al collo con tante campane appese e dal suono caratteristico. La serata è conclusa dalla CENA (vendita all’incanto cioè dei doni offerti per i poveri e per i bisogni della chiesa: ceste di primizie e di frutta, formaggi, animali dolci tipici locali, vini, centrini ricamati e prodotti dell’artigianato locale) e dallo spettacolo pirotecnico. A queste manifestazioni principali ogni anno sono connesse altre attività di vario genere che ne costituiscono quasi la cornice.

LA PARROCCHIA

Il territorio della parrocchia  comprende l’antico quartiere del Casale (la cui caratteristica delle viuzze che si arrampicano sul lato della collina della Croce e rimasta soprattutto nel quartiere dell’Altobello) a cui man mano si sono aggiunti gli altri quartieri storici della Villa Penna, di San Marco,del Gesso e, in basso le vie parallele all’ex via larga di San Giuseppe. La parrocchia si estende però ampiamente verso tutte le contrade di campagna che fanno capo alle due strade per Sampieri e per Cava d’Aliga. Proprio per le sue vicende storiche nel quartiere di San Giuseppe sono convissuti sempre insieme la parte nobiliare ed alto borghese (di cui rimangono gli eleganti palazzotti) con la parte popolare formata da artigiani di vario genere ed agricoltori. Dopo gli anni della fuga verso le nuove zone adesso si registra un ritorno verso le vecchie case che vengono riadattate per le moderne esigenze. Inoltre in questi ultimi anni si registra anche un notevole incremento della presenza di immigrati polacchi, marocchini, tunisini e senegalesi. Nel guarire la comunità islamica ha aperto pure una moschea per la preghiera e gli incontri comunitari. Il tasso di natalità  non è basso come altrove per cui ancora si possono vedere bambini giocare insieme nelle stradine della parrocchia. Come alto è il numero delle persone anziane e sole. Certo, una attenzione maggiore da parte della pubblica amministrazione verso questo quartiere non dispiacerebbe (pulizia strade, recupero villa penna, migliore illuminazione, aiuti per chi vuole recuperare le abitazioni antiche…).  La parrocchia sta cercando, pur nella povertà di mezzi (fondi disponibili, mancanza di locali adatti, atteggiamento passivo di tante persone), di diventare non solo centro di evangelizzazione ma anche di promozione umana, specie in casi di disagio familiare. Inoltre si sta facendo un lavoro  per stimolare, specie i giovani, ad un senso di appartenenza  che si sta perdendo: crediamo che le nuove generazioni devono essere aiutate e invogliate a recepire e a continuare i tesori di tradizione, di pietà popolare e di folklore patrimonio della nostra terra: e il quartiere di San Giuseppe e la sua festa sono proprio ricchi di quanto di meglio la nostra storia locale ci possa dare. Da un sano orgoglio in questo senso penso potrà nascere anche la voglia per gli abitanti di un riscatto sociale del quartiere.

 

mercoledì 13 novembre 2013

Saluto del vicario foraneo di Scicli per l'apertura della visita pastorale del vescovo

Eccellenza Reverendissima,
è con gioia e con affetto che oggi la accogliamo fra di noi per l’inizio ufficiale della visita pastorale nella nostra città. Lei già conosce la nostra città per la sua ripetuta presenza nelle nostre chiese in occasione delle cresime e di tante altre celebrazioni che lei ha voluto presiedere nelle varie parrocchie del nostro vicariato e in altri eventi in cui ha potuto incontrare non solo la comunità cristiana ma anche la comunità civile di Scicli.
Ma oggi si può dire che il nostro incontro assume i crismi della ufficialità nel senso più bello del termine: ufficialità da officium – dovere / responsabilità: lei è infatti qui a svolgere il suo ufficio di Pastore proprio della chiesa locale che è stata affidata alle sue cure, la visita al gregge che lei è chiamato a pascere con la parola, i sacramenti, il suo stesso buon esempio.
Ed è un officium anche per tutti i fedeli di Scicli che si riconoscono guidati dal suo ministero pastorale e nel quale e dal quale, ognuno per il modo suo peculiare, tutti sono coinvolti e stimolati. Poiché per noi accoglierla non è un mero atto di cortesia ma un vero evento di Chiesa e quindi direi quasi un’esperienza teologale.
La accogliamo anzitutto noi parroci che condividiamo con lei il munus pastorale del gregge di Dio in quelle porzioni della chiesa locale che sono le parrocchie, e che, insieme con gli altri presbiteri e diaconi ci sforziamo di servire per la formazione e la crescita di comunità cristiane autentiche che credano in ciò che celebrano, che annuncino ciò che credono e vivano ciò che annunciano.
La accolgono le comunità religiose, i membri delle Associazioni, dei Movimenti e dei Gruppi ecclesiali che sono impegnati tutti nell’essere anticipo e realizzazione fattiva dell’avvento del Regno, specie nell’esercizio della carità e nel servizio ai poveri e ai bisognosi.
La accolgono i fedeli tutti delle parrocchie che vivendo nella quotidianità del lavoro e della vita familiare si sforzano di vivere la loro fedeltà al vangelo nella trama delle opere e dei giorni che richiedono di essere fecondati dalla forza rinnovatrice dello Spirito.
Ma oggi la accoglie anche la comunità civile di Scicli, non connotata da coloriture religiose o ideologiche, ma forte di quella sana laicità che vede nella collaborazione tra le istituzioni civili e quelle religiose il terreno propizio per la costruzione del bene comune a servizio della persona nella integralità della sua persona.
E ciò che dico non vuol essere solo un riconoscimento formale ma è frutto di una vera e leale collaborazione sperimentata negli anni passati e che proprio nell’ultima tragedia dello sbarco degli immigrati eritrei a Sampieri e della morte per tredici di loro, che ha scosso profondamente la nostra città, ha visto fianco a fianco le nostre autorità in testa e poi tutti i rappresentanti delle istituzioni, dei presidii militari e sanitari, insieme a noi sacerdoti e fedeli e a tutti gli uomini di buona volontà nella prima accoglienza sulla spiaggia dei sopravvissuti, nella composizione dei cadaveri, nel supporto dato ai parenti venuti per il riconoscimento delle vittime e per il funerale, che non è stato il funerale – e la riprova è stata la celebrazione ieri del trigesimo – di forestieri sconosciuti ma il saluto commosso a tredici giovani che la città – se così si può dire – ha adottato e sentito come figli: lo abbiamo espresso in quel drappo cremisi, il colore della nostra città, che ha stretto in un abbraccio commosso quelle tredici bare. Una commozione sentita ancora da tanti che recandosi al cimitero dai loro cari non hanno mancato in questi giorni di porre un fiore anche sulle loro tombe.
Perché Scicli è stata e vuole continuare ad essere la città della accoglienza e della solidarietà verso tutti. Ha ben ragione lei nel dire che prima ancora di aprire spazi per l’accoglienza, bisogna aprire i cuori: perché l’accoglienza prima che essere un problema logistico è un problema di affetto e di cuore. Ebbene eccellenza, le posso assicurare che tanti cuori di cristiani e non cristiani a Scicli sono già aperti e che da questi cuori scorrono fiumi sotterranei di quella carità che magari non fa notizia e che pure si fa vicinanza concreta e solidale col fratello che  soffre. E tanti altri sono i cuori in attesa di un evento che li faccia aprire, che li faccia sbocciare come fiori al sole della fraternità.
Ecco, eccellenza, mi piace immaginare la sua visita – come fra l’altro lei l’ha voluta scegliendo di dare la priorità delle visite agli ammalati e dell’ascolto dei poveri e delle loro vicissitudini ed attese – come a quell’evento di grazia che tocchi ogni sciclitano nel profondo e lo interpelli e lo spinga a interrogarsi sul senso reale della propria esistenza, e lo spinga soprattutto a decidersi per una vita vissuta nella fraternità: una vita autenticamente umana e dunque veramente cristiana.
Questo auguro a lei come frutto del suo ministero, questo auguro ad ognuno di noi sciclitani.
Dunque Eccellenza, benvenuto fra noi, cammini con noi, si senta uno di noi.




giovedì 18 luglio 2013

Domingo de Serraton e la moglie Teresa: due benefattori di Scicli sconosciuti (seconda parte)


RITROVATA LA TOMBA DEI FIGLI 
Davvero non pensavo che il caro Uomo libero sarebbe riuscito, col suo fiuto da investigatore di storie patrie, a trovare così tante informazioni sul nostro Sergente Maggiore, incuriosito da una chiacchierata fatta insieme su alcuni aspetti del passato della nostra città.
Ciò mi rafferma nell’idea che gran parte della nostra storia debba essere riscritta, giacché per anni, per non dire secoli, ci si è limitati a ripetere quello che il Carioti, forse l’unico vero nostro storico, nonostante i suoi limiti, scrisse nel ‘700. Il Pacetto e lo Spadaro lo ripresero, il Pluchinotta li compendiò tutti, il Cataudella ne fece una sintesi. E, come sempre avviene, tutte le sintesi e i compendi non rendono conto della ricchezza dei dati originari. La storia (e la cultura) non si fa coi Bignami! E da allora dunque niente di nuovo sotto il sole. In verità non è che il nuovo non ci sia, anzi, ma il fatto è che tanti non se ne sono accorti o preferiscono non accorgersene. Tanto per fare dei nomi di quanti hanno prodotto delle novità e aggiornato i dati a nostra disposizione basti pensare al nostro Paolo Nifosì, ai fratelli Pietro e Paolo Militello, e se permettete mi ci metto anch’io per quanto riguarda la storia religiosa di Scicli: eppure ho avuto modo di vedere alcune ultime pubblicazioni e tesi prodotte a Scicli in quest’ultimo anno compilate senza tener conto delle nuove acquisizioni e dove l’ultimo autore in ordine di tempo citato è il Santiapichi del secolo scorso! I nostri giovani non leggono i giornali locali a stampa né quelli on line né si aggiornano sulle altre pubblicazioni prodotte in proposito a livello locale e perciò abbiamo il ripetersi di cliché obsoleti che rendono vecchi e inutili le loro tesi pur fresche di stampa. Scrivo ciò non per vena polemica, ma per stimolare invece ad una attenzione maggiore e ad uno scambio fecondo tra studiosi e appassionati di storia patria: le ricerche di Un Uomo libero che ogni tanto pubblica su questo sito credo vadano proprio in questa direzione e di questo dobbiamo essergliene grati. Così come quelli di tutti gli altri qui pubblicati, penso ad esempio alle note di Di Stefano e all’ultimo scritto del Nifosì sul nostro San Matteo.

Tutto ciò ci aiuta ad avere un’immagine nuova ed inedita della nostra città. Ci siamo incaponiti ad esempio sull’idea che l’unico benefattore di Scicli sia stato il Busacca, quando abbiamo avuto figure che per l’operato e la generosità non gli sono state seconde.

Si prenda il caso del nostro Domenico Serraton e della moglie Donna Teresa. Mi sono imbattuto in lui facendo le mie ricerche sulla Madonna delle Milizie.

Purtroppo non sappiamo quando arrivò a Scicli, perché non si è ancora trovata la sua nomina. Ma sappiamo quando arrivò a Palermo, nel 1696, quando era stato appena nominato Cavaliere di San Giacomo. Ha appena 38 anni, è già sposato con Donna Teresa, di 15 anni in meno di lui e quindi ventitreenne, e col figlio Pedro, nato a Cartagena nel 1692, che porta il nome del nonno paterno come è giusto che sia, di appena 4 anni, e che come secondo nome si chiama Ambrosio, cui è legata la madre Teresa e la sua parentela. A Palermo sarà rimasto per qualche anno, sia perché la seconda figlia gli nascerà proprio a Palermo nel 1699 e lui la chiamerà Rosalia, il nome della Patrona amata dai palermitani; e questo dimostra la grande squisitezza d’animo di questa coppia che pur potendo dare alla figlia un nome spagnolo gli impongono il nome della Santa della città che li ospita. E a Palermo saranno stimati perché sono una decina le richieste provenienti dai nobili di quella città perché i coniugi facciano da padrini di battesimo ai loro nascituri: i Serraton (con atti stilati ancor prima della nascita dei bambini) delegheranno altre coppie nobili della stessa Palermo o di altre città vicine, e poi in seguito delegheranno lo stesso figlio Pedro ad assistere a questi battesimi. Così come sono tante le analoghe richieste da parte di tutti i nobili delle città della Contea ma anche di altre parti della Sicilia e che stanno ad indicare come, prima di essere nominato Sergente Maggiore a Scicli, lui abbia svolto qualche incarico che gli ha permesso di intrattenere rapporti con tutta la nobiltà dell’Isola. Certe alcune richieste di comparatico saranno state dettate da interesse o opportunismo, ma crediamo che altre saranno state sincere. In seguito le stesse richieste saranno rivolte al figlio Pedro: la prima è registrata in un atto del Notaio Errera del 3 luglio 1706, in cui Don Pietro Cerranton “come asserisce lui e appare dal suo aspetto, essendo maggiore di 14 anni” può fare da padrino e quindi dà la procura per il battesimo del figlio di Don Alois Guarino e Lina Consales, spagnoli, all’amico Marco de Leo, pure spagnolo, perché funga da padrino in suo nome. E tante altre ne seguiranno. La procura tra l’altro è interessante perché riprende il principio del diritto romano della inspectio corporis per provare la pervenuta adolescenza: le guance del giovane Pietro dovevano essere già ricoperte della peluria adolescenziale che attestava l’aver raggiunta la capacità per poter esercitare alcuni diritti, tra cui appunto quello di poter fungere da padrino.

Ma ritorniamo al nostro Sergente. Il Pluchinotta recensisce il Serraton come sergente a Scicli già alla fine del ‘600, potrebbe essere arrivato tra il 1698-1699? Purtroppo finora non ci sono documenti che suffraghino questa ipotesi. Forse più sicuramente qualche anno più tardi. Un atto mutilo che gli si potrebbe attribuire starebbe ad indicare il 1701.

Però il primo atto sicuro è la procura per la riscossione della gabella della macina del 9 ottobre 1703: ora noi sappiamo che lo stipendio, per dire così, dovuto al Capo della Sergenzia era il risultato appunto dei proventi della Gabella della Macina. E infatti da quest’anno in poi troveremo questa procura annuale che lui faceva ai suoi riscossori, comprese altre entrate la cui riscossione era affidata a suoi procuratori a Palermo, a Noto e in altre città della Sicilia.

Perciò io propenderei per questa data per il suo arrivo a Scicli, anche perché poi il 25 gennaio 1704 Domingo de Cerrandon “cavaliere di san Giacomo, hispanus” affitta una casa di otto stanze dal proprietario Francesco d’Angelo, comprendenti “due sale, un camerino, una cucina e antecucina al primo piano e sotto  comprendente l’entrata con scala, un catodio e un magazzino, in contrada Xifazzo confinante con altre case del detto d’Angelo e la via pubblica”.

Ma nel 1706 si trasferiranno in una casa più grande vicina alla chiesa di Santa Maria Maddalena affittata loro dalle suore di Valverde (le agostiniane di San Michele).

I Serraton sono una famiglia pia e cominciano a frequentare, i vicini conventi e le altre chiese della città. Don Domenico si prenderà subito cura delle povere orfanelle che hanno trovato rifugio nell’ex convento delle Suore Agostiniane di Valverde, che dopo il terremoto hanno trovato nuova dimora nella chiesa di San Michele. Fra i ruderi del convento, che nel dire comune della gente rimarrà sempre di Valverde, dando nome allo stesso quartiere,  una bizzocca (diremmo oggi “monaca di casa”, terziaria francescana) aveva radunate alcune orfanelle e creato un “conservatorio” con l’annessa chiesa di Santa Maria degli Angeli. Il Sergente le aiuta, così come scrive il Carioti e l’amico Uomo libero ci ha ricordato.

Ma l’opera più grande del Serranton sarà quella compiuta in favore della divulgazione della devozione alla Madonna delle Milizie. Nel 1708, in aprile, all’arrivo dei primi venti caldi dell’Africa, ritorna pure la piaga delle cavallette. E perciò gli sciclitani, il 24 aprile 1708 indicono una processione penitenziale con il busto reliquiario di san Guglielmo fino all’eremo dei Milici, passando per le campagne di Scicli, come si era fatto in passato.

Si noti come ci si rivolge a san Guglielmo perché preghi la Madonna per ottenere dal Signore la cessazione del flagello: è la perfetta manifestazione della concezione della intercessione dei santi presso Dio e del ruolo peculiare della Vergine. Ma l’invasione non cessa. Per tutto il mese di maggio le orazioni nelle chiese sono continue e alla fine, il 2 giugno del 1708, dalla chiesa delli Milici il simulacro della Madonna è condotto in processione penitenziale per le campagne di Scicli a scongiurare l’invasione delle cavallette venute dall’opposto lido africano. Al passaggio della processione orante le locuste muoiono o fuggono via: la Città è preservata dal rinnovato pericolo delle locuste grazie all’intercessione della Vergine delle Milizie, pertanto gli sciclitani fanno voto di ripetere ogni anno la processione in segno di ringraziamento per lo scampato pericolo.

La descrizione di questo prodigio è fatta dall’Alberti nel 1718 e  il Carioti si limiterà a riprendere la sua narrazione.

Ancora una volta dunque la liberazione dall’invasione delle locuste è attribuita alla Vergine dei Milici, come già nei secoli precedenti: ma a questo fatto si aggiunge anche un altro motivo di ringraziamento, il fatto che stavolta Scicli è rimasta indenne dalla peste che invece a Modica e altrove nel 1708 ha mietuto migliaia di vittime.

Ma d’improvviso scoppia la tragedia: la morte dei due figli per una febbre (certo malarica o colerica) nello stesso giorno, il 31 agosto 1708.

Lo strazio è grande non solo per i genitori ma per tutta Scicli. Pietro, di 16 anni morto dopo aver ricevuto tutti i sacramenti, e Rosalia di 9 anni, dopo aver ricevuto appena il sacramento della penitenza, sono sepolti insieme nel presbiterio della chiesa del Carmine, sotto la nicchia della Madonna, dopo che i funerali sono stati fatti dall’Arciprete Virderi nella Matrice San Matteo: proprio l’undici luglio ultimo scorso abbiamo ritrovato la loro lapide che così li piange:

Dom: Petrvs et Domina Rosalia

Illvstrivm ex Hyspaniis Orivndiis

Dvcis D: Dominici Serraton e Regno Castille Veteris

Eqvitis Habitus S: Iacobi Siclensisqve Militie

Primarii Maiorisve

Sergentis

Ac Dominae Theresiae de Yzsco Qvin

conzes e Regno Valentiae Ivgalivm

Filii Merito Predilecti

qvos eodem mense terris die

celis hora fvneri communi fletv

datos

eadem

charitas devotio pietas

infirmitas mors et sepvltvra

vere fecit esse germanos

 

Ecco una trascrizione dal latino dell’epigrafe: 

[QUI RIPOSANO]

DON PIETRO E DONNA ROSALIA

DEI CONIUGI - ILLUSTRI TRA GLI ORIUNDI SPAGNOLI -

IL COMANDANTE DON DOMENICO SERRATON

DEL REGNO DI CASTIGLIA LA VECCHIA, CAVALIERE DELL’ORDINE DI SAN GIACOMO E SERGENTE PRIMARIO E MAGGIORE DELLA MILIZIA DI SCICLI

E DONNA TERESA DE YZCO QUINCOSES

DEL REGNO DI VALENCIA

FIGLI MERITATAMENTE PREDILETTI

CHE

- CONSEGNATI

NELLO STESSO MESE E NELLO STESSO GIORNO

ALLA TERRA E AI CIELI

(oppure: DALLA TERRA AI CIELI)

CON GENERALE PIANTO NELL’ORA DEL FUNERALE -

LA STESSA

CARITA’ DEVOZIONE PIETA’

MALATTIA MORTE E SEPOLTURA

LI FECE ESSERE VERAMENTE FRATELLI

E’ davvero strana questa coincidenza che fa sì che in pochi giorni si arrivi alla conoscenza di cose rimaste nell’oblio per secoli.

Ad esempio: mi ero convinto che appartenendo il Convento del Carmine alla parrocchia di Santa Maria la Piazza gli atti di morte dovevano trovarsi nell’archivio di questa chiesa e non avendoli trovati mi ero convinto che erano andati perduti e avevo smessa la ricerca.

Ma l’insistenza del caro Uomo Libero mi ha convinto a ricercarli nell’archivio di San Matteo: ed eccoti la sorpresa il 17 luglio!

 Ecco gli atti:

A di ultimo di agosto mille setticento ed otto 1708

Don Pietro Ambrosio nato in Cartagena, figlio legittimo e naturale del Sergente maggiore del terzo di Scicli, don Domenico Serraton del Regno di Castiglia, e di Donna Teresa Schincosi di Valenza, Iugali,avendo ricevuto li santi sacramenti, in età d’anni sedeci rese l’anima a Dio, il di cui corpo fu sepolto nella venerabile chiesa del Convento del Carmine, per me Arciprete Dottor Don Guglielmo Virderi.

 ***

A di ultimo di agosto mille setticento ed otto 1708

Donna Rosa, nata in Palermo, figlia legittima e naturale del Sergente maggiore del terzo di Scicli, don Domenico Serraton del Regno di Castiglia, e di Donna Teresa Schincosi di Valenza, Iugali,avendo ricevuto il santo sacramento della penitenza, in età d’anni nove rese l’anima a Dio, il di cui corpo fu sepolto nella venerabile chiesa del Convento del Carmine, per me Arciprete Dottor Don Guglielmo Virderi.

Questo ci spiega meglio la lapide e ci porta  a fare alcune considerazioni sull’esattezza delle informazioni possedute. Infatti ci sembrava strano quanto scriveva il Pacetto, ma adesso sia la lapide sia gli atti di morte confermano che i due figli sono morti nello stesso giorno.
I coniugi Domenico e Teresa vivono questo momento con intensa fede. Rimasti senza eredi intensificano le loro opere di carità e si votano entrambi all’incremento della fede e della devozione di Scicli.

Nel 1709, ad un anno esatto il Procuratore della Chiesa delle Milizie, don Raimondo Penna, e il nostro Sergente Maggiore, che si rivela così benemerito devoto della Madonna delle Milizie,  faranno la richiesta al Vescovo di poter ottemperare al voto fatto con una processione di ringraziamento a Maria, cosa che il vescovo concede il 20 giugno:  il 30 giugno, si sciolse così il pubblico voto per ringraziare Maria della duplice grazia ricevuta.

Si noti, tra l’altro, come l’istanza è presentata non dal clero cittadino ma parte, per così dire, dall’iniziativa privata del Serranton e del Penna.

Questi ebbero dalla loro parte tre dei quattro giurati (Salonia, Papaleo, Novello), così come si evince dalla annotazione delle spese per la processione in cui è detto che il Sindaco si era rifiutato di approvare il bilancio della festa e certo perché forse non approvava questa nuova processione a carico delle casse comunali. La riprova è che il baldacchino sul fercolo della Vergine è portato dai tre giurati detti sopra e dal capitano di Giustizia: il Sindaco per protesta non partecipò alla processione!

A partire dal 1710 dunque la festa per la Madonna delle Milizie si sdoppia: si continuerà fare quella del Sabato di Lazzaro che servirà a ricordare il miracolo dell’apparizione durante la battaglia, e quella di luglio che servirà a sciogliere il voto fatto nel 1708 e che si celebrerà dal 1711 in poi senza soluzione di continuità fino al tempo della rivoluzione francese, come diranno il Pisani ed il Pacetto.

A Maria perciò la Città riconoscente dedicherà il Festino nella terza domenica del mese di luglio (come poi verrà chiamato e il nome già ci richiama il “festino” di Santa Rosalia), oltre alla tradizionale festa quaresimale.

Ma il sergente maggiore spagnolo Domenico Serranton non fu solamente il propugnatore del festino trionfale di luglio in onore della Madonna.

Fu parte attiva della ricostruzione fisica e spirituale della città.

Uomo di grande pietà e devozione, sentimenti cristiani che condivideva con la moglie e i figli, il Serranton fu munifico non solo verso l’orfanotrofio di Santa Maria degli Angeli, ma chiamò eremiti da Noto – essendo l’eremo dei Milici da alcuni anni ridotto ad un solo eremita (forse in seguito proprio alla mortalità dovuta al terremoto) - per rinverdire il culto della Vergine, come dice il Carioti: << Il pio sargente sempre ebbe l’occhio a questo rifuggio [delle orfane di Santa Maria degli Angeli] ed all’eremitorio della Madonna delli Milici, e non ebbe a rossore dentro d’entrambi dispensarvi più ore del giorno per soprastare a’ maestri muratori che vi faticavano. Egli provvide di letti le zitelle [del rifugio delle orfane di Santa Maria degli Angeli] e di arnesi fin la cucina. Chiamò alcuni eremiti da Noto per abitare l’antico eremitorio delli Milici, per più anni non abitato, che di un solo sacerdote ed  un sacristano, che serviva la chiesa>>.

Per far ciò il Serranton entrò  in contatto, nel periodo tra il 1708 - 1710, con il Venerabile Girolamo Terzo, eremita questi dapprima nell’eremo netino di San Corrado, e poi dal 1710 nominato dal vescovo di Siracusa Asdrubale Termini come superiore del novello romitorio della Madonna della Scala, che lo stesso Terzo aveva fondato: proprio a fra Girolamo il Serranton chiese l’invio di nuovi eremiti per l’eremo delle Milizie.

Fra Girolamo Terzo risponderà positivamente alla richiesta e verrà lui stesso in visita all’eremo dei Milici accompagnato dal Sergente Serranton. 

Qui all’eremo Domenico Serranton, che sovraintende ai lavori, si adopera per dare migliore sistemazione ad eremiti e pellegrini <<e leuar così la puoca riuerenza dei forastieri che si coricavano nella chiesa>> col suo contributo benefico, grazie anche ai consigli di Girolamo Terzo.

I Giurati di Scicli gli sono così riconoscenti per quanto lui ha fatto per la Chiesa di Sancta Maria Militum lo nomineranno, con atto del 20 gennaio 1710 Procuratore a vita della stessa chiesa: e questo è un riconoscimento importante perché attesta quanto lui si sia speso per la devozione verso quella Madonna che gli ricordava tanto il suo Santiago Matamoros! In questo forse ha ragione il nostro Uomo Libero quando suppone che la stessa idea del simulacro della Vergine amazzone sia stata proprio il frutto dell’accostamento al santo compostellano, per la vicinanza non solo iconografica, quanto per il fatto di essere entrambi combattenti contro i mori. Così come la stessa rievocazione della battaglia, che nella sua forma arrivata fino a noi conserva lo schema (ah se lo capissero i nostri registi improvvisati!) delle feste di “moros y cristianos” ancora celebrate in tutti i luoghi della Spagna da cui furono scacciati i mori all’epoca della riconquista, sicuramente deve al Serranton qualche suo contributo. Si noti come è proprio dall’epoca del Serrandon che troviamo il simulacro della Madonna a cavallo portato in processione ai Milici e per il resto dell’anno conservato in un locale apposito nel convento di Santa Maria degli angeli (altra coincidenza?).

La moglie al contempo, d’origine e indole nobile, stringe invece legami di amicizia con le suore benedettine di san Giovanni, monache di clausura, figlie delle famiglie più nobili e in vista di Scicli, fra cui diverse di origine spagnola: qui si sente a casa e ad esse il 27 gennaio 1709 dona un completo di cortine di seta bianche e rosse per parare a festa la chiesa di San Giovanni con la clausola, per la loro preziosità di non cederle o prestarle ad altre chiese, nel cui caso le cortine sarebbero passate al convento del Carmine!

La vita cerca di scorrere serena nonostante il lutto: il 9 febbraio 1709 il sergente diventa armatore di una piccola barca (di cui viene redatto un inventario minuzioso) nel porticciolo di Sampieri e che affidata, ad un marinaio del luogo servirà a procurargli il pesce per la famiglia.



Certo il povero Don Domenico non si riprese dal brutto colpo della sorte e, forse colpito dallo stesso male, è  colto dalla morte il 17 agosto  del 1710 e sepolto nella stessa fossa coi figli, ecco l'atto di morte: 
Alli dieci setti Agosto Mille Setticento e dieci 1710
Don Domenico Seratòn Sergente maggiore del terzo della Città di Scicli, nato nella città di Burgos nel regno di Castiglia, marito di Donna Tresa Quincosi, avendo ricevuto li santi sacramenti rese l’anima a Dio, il di cui corpo fu sepolto nella venerabile  chiesa del Convento del Carmine, per me Arciprete Dottor Don Guglielmo Virderi.

La data di morte, al 31 agosto 1708, anticipata rispetto a quanto avevamo supposto, spiega meglio i gesti di devozione e carità fatti dai coniugi e in ciò si concorda con l’affermazione che proprio dopo la morte dei figli i due coniugi furono ancora più prodighi in generosità: di fatto, essendo morti i due eredi diretti, scelgono di fare loro eredi i poveri! E questo è ancor più encomiabile. E illustra meglio il Serraton dedito alla ricostruzione dell’eremo dei Milici e dell’orfanotrofio di Valverde, come poi la meditata scelta della moglie di ritirarsi in convento: lei era ancora giovane quando rimane vedova e secondo l’usanza del tempo avrebbe dovuto risposarsi, eppure preferisce coltivare la memoria del marito e dei figli nella preghiera e nel chiuso del chiuso del chiostro. Quale fede amore più grande?
La povera moglie rimasta vedova e senza figli mette ordine alla sua eredità (con atto del 20 aprile 1711) e intende ritirarsi nel Monastero di San Giovanni a cui ha già fatto atto di donazione delle sue tele (e anche qui l’indicazione di Uomo libero, sulla provenienza del Cristo di Burgos di San Giovanni dalla famiglia Zerraton potrebbe essere azzeccata). Ma abbiamo visto come alla fine sarà convinta a ritirarsi invece nel convento di Santa Maria degli Angeli a continuare l’opera di beneficenza iniziata dal marito. L’orfanotrofio diventerà con la sua dotazione monastero di clarisse, per dodici suore povere, ricevendo nel 1713 dal Vescovo di Siracusa la clausura, e di cui l’ormai Suor Maria Teresa sarà la prima priora fino alla sua morte.

Don Domenico e Donna Teresa Serraton: due spagnoli che hanno speso la loro vita per Scicli. E forse sarebbe ora di ricordarli con gratitudine. Una via intitolata in loro memoria sarebbe troppo?  

Ignazio La China

    La seconda assemblea sinodale: un evento di Chiesa.   Doveva essere l’ultima assemblea del cammino sinodale delle Chiese in Italia...