venerdì 30 gennaio 2015

la fede e i gialli

Sono un appassionato lettore di G. K. Chesterton che ammiro sia per lo stile e l’impegno culturale sia insieme per il coraggio che seppe avere, nella conversione al cattolicesimo, di vivere controcorrente nella società anglicana puritana e conformista dei suoi tempi. Forse qualcuno lo ricorderà per essere il creatore di quella straordinaria figura di prete - investigatore che è Padre Brown. Ed è proprio di P. Brown che qui voglio parlare. Non perché questo detective in talare abbia qualcosa da spartire con gli altri pur famosi quali la Mrs. Marple o il signor Poirot o la Jessica Flecther o il solito Holmes. Ma proprio perché in realtà questo detective è proprio l’antidetective ! Perché Padre Brown in realtà non investiga, o almeno nel senso comune della parola. Questo pretino dall’apparenza insignificante compie si delle investigazioni davanti ai delitti che gli si commettono davanti : ma sono investigazioni nel profondo del cuore. Del proprio cuore. Questo è il suo segreto che candidamente confessa agli increduli : non c’è delitto che il suo cuore non si senta capace di commettere. Perché il delitto è frutto del peccato e nessuno ne è immune. Ogni cuore è sempre potenzialmente aperto al delitto. Per questo P. Brown è capace di “sentire” il peccato e il delitto e l’orrore che ne viene fuori : “Sono un uomo - dice - e pertanto ho tutti i diavoli nel cuore”. Sentendo e pensando come chi il delitto l’ha realmente commesso (“ho visto davvero me stesso, il me stesso reale, commettere gli omicidi. Non ho ucciso materialmente le persone, ma non è questo il punto...voglio dire che ho pensato e ripensato a come un uomo possa arrivare a compiere tali azioni, finché ho capito che anch’io ero così, in tutto tranne nel concedermi il permesso dell’atto finale...è una specie di esercizio religioso”) non desta nessuna meraviglia che poi l’autore del delitto schiuda il suo cuore non al detective ma al prete nella confessione non del delitto in se ma del peccato che l’ha generato. Sono grato a Chesterton per aver “inventato” questo prete : che è, lo confesso uno dei miei “modelli”  ministeriali. A Chesterton in fondo il giallo interessa per avere l’occasione di riflettere e di far riflettere sul dramma del peccato, del genere umano capace di toccare vette altissime di grazia ma insieme di sprofondare anche negli abissi della degenerazione. E Padre Brown “investiga” proprio in questi abissi. Lo fa da prete. E proprio perché prete. Perché un prete non può fare a meno di farsi carico del peccato altrui. Ma lo fa senza farsi giudice del fratello. Anzi, proprio con una consapevolezza di fondo : che il baratro del peccato è sempre in agguato anche sotto i suoi piedi. Solo chi è in grado di comprendere questo può essere ministro della compassione divina. Ma qual è il segreto di P. Brown ? E’ che nella ripetizione di questa “specie di esercizio religioso” ,come lo chiama, lui alimenta in sé la capacità di continuare a provare orrore per il male e riconoscerne la radice diabolica che perverte la natura umana. E’ l’orrore per il male presente in sé che lo blocca da quello che lui chiama l’atto finale, ciò dall’accondiscendere alla tentazione della perversione. E’ l’orrore per il male che glielo fa riconoscere e leggere negli occhi degli altri.
Ecco perché ne scrivo oggi : perché credo che la lezione di Padre Brown dovrebbe essere seguita non solo da un umile prete qual io sono che cerca di fare bene il suo “mestiere” ma anche da chi prete - e aggiungo di più, cristiano o credente - non è. Oggi ci siamo assuefatti al male. Non ne proviamo più orrore. Non ci disgusta il male che ci circonda, dalle guerre alla violenza diffusa, dalle truffe agli inganni, dalla calunnia alla diffamazione... I lunghi rosari delle sciagure snocciolati dai telegiornali non ci scuotono più, il  male di cui veniamo a conoscenza, oppure quello solamente rappresentato in film e telefilm vari ci lascia indifferenti. E tutto ciò  forse proprio perché non ci disgusta il male che ci portiamo dentro : o perché ci siamo abituati a conviverci o peggio perché neanche più lo riconosciamo come male. Non ci scandalizziamo del male nel mondo perché prima dovremmo scandalizzarci dal male che sta in noi, e non ci impegniamo a combattere il male esterno in modo radicale perché in fondo sentiamo che dovremmo cominciare a combatterlo in noi stessi. Scusatemi : non è una predica. E’ per un estremo atto di amore, anzi direi di più, è per un estremo atto di giustizia, verso di me e verso gli altri in quanto persone umane e per il mondo e per l’uomo creati buoni e belli da Dio ma sempre tentati verso l’abbrutimento dal Serpente antico : come P. Brown scrivo non da giudice ma a partire dall’esperienza del male che per primo in me stesso ritrovo. Perché come P. Brown mi convinco sempre di più che se noi e il mondo dobbiamo avere un futuro allora dobbiamo ritornare a provare orrore per il male, per la stortura, per la bruttezza che rovina il bene. Dobbiamo ritornare a provare la gioia per il bene in se stesso, la gioia di quella buone azioni e magari di quei “fioretti” che facevamo da piccoli con la consapevolezza di mettere un argine anzitutto al male che alberga dentro di noi. Non scrive infatti Tagore che la prima rivoluzione contro il male del mondo la si combatte nel proprio cuore ? Un tempo si parlava di “anime belle”,  di “bei caratteri” . Oggi, per il mancato orrore del male,  si è perso il gusto e il senso estetico per il bene e per il bello (che filosoficamente “convertuntur”) : ma se è vero che la “bellezza salverà il mondo”  (Dostoevskij) allora il nuovo mondo (quello del terzo millennio), e quindi ognuno di noi, o sarà bello (e buono) o non sarà affatto.

venerdì 23 gennaio 2015

Confessioni ad alta voce

Dite pure che c’è un pizzico di narcisismo, ma confesso che mi piace sentire le reazioni che queste mie note suscitano nei lettori : in fondo ogni scritto è una mano tesa per instaurare un dialogo con un potenziale interlocutore ! Credo infatti che nel dialogo - specie in quello socratico per cui, tra botta e risposta, tra affermazioni e negazioni, è possibile avvertire il travaglio che porta a partorire frammenti di verità. Per questo non mi sono mai negato a tutte le esperienze dialettiche che mi si sono presentate, tranne naturalmente a quelle in cui il dialogo corre il rischio di trasformarsi nello scambio di monologhi, frutto spesso di autogratificazioni cerebrali in cui, più che la comune voglia di ricerca della verità, l’altro  serve da specchio su cui riflettere le proprie “brame”, oppure si corre il rischio di cadere nel pettegolezzo sterile che certamente non aiuta a crescere.
Dicevo dunque che mi piace sentire le reazioni a queste mie confessioni : non tanto per le lodi che potrei ascoltare (ché lasciano il tempo che trovano), quanto invece per un utile confronto di idee non solo con chi condivide le mie ( è bello sapere di non essere solo a provare alcune sensazioni : tuttavia il vero dialogo va al di là dello scoprire una comunanza di pensiero), ma soprattutto  con chi magari le mie idee non le condivide in tutto o in parte. Infatti spesso nel contrasto tra tesi e antitesi (Hegel insegna) si raggiungono sintesi ad un livello  superiore di conoscenza. Sono convinto profondamente infatti che la verità è “sinfonica”, come scriveva il grande teologo Hans Urs Von Balthasar, e che ogni strumento, pur suonando la “propria” parte di verità deve avere la consapevolezza di appartenere ad un’orchestra in cui solo la comunione sotto la guida del direttore riesce a dare come frutto la bellezza dell’armonia estetica ed esistenziale (chi non ricorda le “prove d’orchestra” del grande Fellini ?).
Voglio perciò approfittare stavolta di questo spazio per ringraziare quanti  con i loro riscontri puntuali, non importa se per esprimere consenso o dissenso, ogni mese mi hanno implicitamente sostenuto ed incoraggiato a continuare in queste mie confessioni che, nate quasi per scherzo, stanno diventando, almeno per me, una cosa seria, perché mi costringono in ogni caso a riflettere su me stesso e a mettermi continuamente a nudo, cercando di non cadere nelle tentazione di rifugiarsi dietro quelle maschere nella cui descrizione, a volte nelle vere e proprie patologie, Pirandello è stato maestro.
E questo perché penso faccia bene a me sia come uomo comune, sia come prete, anzi direi proprio in quanto prete. Qualcuno forse in questi mesi più che sui singoli contenuti ha dubitato sull’opportunità stessa che un prete faccia in pubblico le proprie “confessioni” : ma a questo ipotetico dubbioso rispondo che proprio oggi più che mai è necessario dare, almeno secondo me, questo tipo di testimonianza. Ci fu, è vero, all’inizio del secolo (o alla fine dello scorso) un vescovo di Catania che aveva dato ai suoi preti l’ordine di andare a confessarsi senza l’abito talare (quando tutti lo portavano !) perché altrimenti i fedeli si potevano scandalizzare se vedevano un prete confessarsi : “se si confessa è dunque un peccatore” potevano pensare e allora i preti  potevano essere scalzati da quel piedistallo di pseudo-santità su cui una certa ideologia bigotta li aveva innalzati ! E  forse per quei tempi era pure giusto così...Ma oggi credo che sia giusto invece per un prete mostrare di essere fatto di carne e sangue, di sentimenti e idee, di essere impastato di grazia e peccato, come ogni cristiano, perché quello che importa è mostrare come la santità più che frutto di volontaristici sforzi è puro affidarsi all’amore di Dio e il ministero sacerdotale un puro traslucere di quest’amore sugli altri.  Non si è preti perché più buoni degli altri, ma solo perché si è riposta fiducia in “Colui che ci ha accordato fiducia chiamandoci al ministero” (San Paolo): don Primo Mazzolari appunto per questo invitava a guardare non alle mani, più o meno pulite, dei sacerdoti, quanto a quello che queste mani portano e operano: la grazia di Dio. E dieci anni di ministero sacerdotale appena compiuti me lo riconfermano giorno dopo giorno. E poiché allora esercitare il ministero del prete non è questione di fare una professione ad ore quanto di offrire la  testimonianza che nella mia povera persona “la grazia del Signore non è stata vana” (San Paolo) affinché anche altri ardiscano coraggiosamente di farsi coinvolgere in questa avventura, credo che ciò possa avvenire anche con le mie “confessioni ad alta voce”. “Confessioni” che, deliberatamente fin dal primo numero, ho voluto avvertire, rivestono sempre il carattere di una pro-vocazione, cioè letteralmente, di una azione a favore della vocazione, in altri termini di un’azione finalizzata a che ognuno rispondendo allo stimolo offerto, a volte magari volutamente duro e brusco,  prenda maggiore consapevolezza di ciò che è e di ciò che è chiamato ad essere. Cresca, cioè, maturi, si incammini verso la verità della sua esistenza. Direi che questo sia il più grande atto di carità che si possa fare agli altri, aiutarli a dare un senso alla propria vita : a questo tende in ultima analisi la mia disponibilità al dialogo, il mio parlare, il mio ascoltare. “Tutto osare, perché sia annunziato il vangelo,” “opportune et importune” (sono sempre espressioni di San Paolo) : perché credo che solo il vangelo contenga la lieta notizia sull’uomo. Qualcuno forse si scandalizzerà : ma io non mi vergogno nel dire di considerare questo mio blog una sorta di nuovo areopago da cui interpellare i miei lettori. Anzi, giocare a carte scoperte è per me questione di onestà intellettuale. E poi, se davvero “tutto è grazia” (Bernanos), chi lo sa, in fondo, se finanche questi post non possano rappresentare per qualcuno la sua “via di Damasco” ?

giovedì 15 gennaio 2015

Figli e padri

Confesso che non ho mai avuto dubbi sull’esistenza di Dio, semmai invece sul suo modo di intervenire nella storia dell’uomo (ma chi di noi prima o poi  non si è trovato nella stessa situazione di Giobbe da chiedere allo stesso Altissimo di affacciarsi   dal cielo per vedere se aveva il coraggio Lui - si, proprio Dio, -  di guardarci in faccia ?). Talora però faccio fatica a trovare il senso della sua Parola depositata nelle parole della  scrittura sacra. Fatica perché la realtà sembra andare in tutt’altra direzione.
Prendiamo ad esempio un’affermazione che si legge nella Prima lettera di Giovanni (cap. 2, 13-16) :
“Ho scritto a voi, padri, perché avete conosciuto colui che è fin dal principio.
Ho scritto a voi, giovani, perché siete forti, e la parola di Dio dimora in voi e avete vinto il maligno.
Non amate né il mondo, né le cose del mondo! Se uno ama il mondo, l'amore del Padre non è in lui;
perché tutto quello che è nel mondo, la concupiscenza della carne, la concupiscenza degli occhi e la superbia della vita, non viene dal Padre, ma dal mondo.”
Nella sua costruzione, se volete un po’ retorica, Giovanni in fondo ripete due cose : che i padri hanno conosciuto Gesù Cristo (e questo per Giovanni sottintende che si è in una novità di vita) e che i giovani grazie alla loro forza e al fatto che vivono nella parola di Dio hanno vinto il maligno (cioè il male stesso nella sua radice e nelle sue inclinazioni).
Tutto questo fa sì che padri e figli possano vivere senza rimanere invischiati nei lacci del mondo (e qui Giovanni intende non il mondo buono creato da Dio ma solo quelle realtà che rifiutano di farsi illuminare dall’amore di Dio).
Dovremmo perciò avere una situazione  idilliaca dove padri e figli vivono ormai in una condizione paradisiaca. Eppure, ed è qui la mia perplessità, questo non succede. Il mio stare a contatto con le realtà giovanili (parrocchia, scuola, scout) e quindi indirettamente    con le realtà familiari che vi stanno dietro mi fa scontrare ogni volta con una situazione diversa, dove i padri (specie gli ex sessantottini) non hanno conosciuto niente e nessuno che possa dare senso alla loro vita e a quella dei figli, e dove perciò i figli precipitano nel baratro della vacuità dei padri, risultandone i veri sconfitti perché allevati nella bambagia esistenziale di un pensiero che più che essere debole è inconsistente. Mi scuseranno i pochi genitori che hanno ancora vivo il senso del loro dovere e hanno ancora la passione per l’educazione dei figli, purtroppo scrivendo si deve generalizzare, ma qui il mio pensiero va soprattutto a quei genitori che credono che per fare un figlio ci voglia solo l’abilità fisica, o che il mestiere di padre e di madre non si debba apprendere perché se uno sa fare i figli automaticamente sa pure educarli. Penso a quelli che credono che educare figli sia non fare mancare loro nulla (materialmente parlando), anzi a volte ricoprirli di cose quasi a tacitarsi la coscienza per l’incapacità di saper dare altro, penso a quelle che credono che ruolo dei genitori sia solo eliminare la sofferenza della crescita e dell’impatto con la realtà, che non fanno vedere il nonno morto nel tentativo di esorcizzare la stessa morte, che si intristiscono invece che gioire nel vedere il figlio che cresce e che pian piano arriva alle normali tappe della vita... Dove sono i genitori capaci di diventare punto di riferimento per la vita dei figli, di testimoniare valori solidi su cui i figli possano costruire il loro futuro ? A volte c’è quasi la paura a riconoscersi genitori e allora ci si traveste da amici e coetanei dei figli con esiti quasi pirandelliani ! Dove sono i padri che hanno conosciuto la vita , quella vera? Dove sono i giovani forti e vittoriosi ? Mi scontro continuamente con giovani in cui magari  fosse avvertito il male di vivere : spesso non viene avvertita neanche la vita ! Ma i giovani in fondo fanno pena, sono scusabili, non sono stati loro a mettersi in questa situazione. La tragedia è nel vedere invece come tanti genitori non riescano a prendere coscienza di essere loro stessi gli artefici del vuoto dei figli. Che fare allora ? Credo che la risposta stia nella preghiera che una volta mi rivolse un adolescente: “Se mi vuoi bene, se mi vuoi aiutare a crescere, non mi devi far vincere. I miei mi fanno vincere sempre e io sto rimanendo bambino... Io non voglio soldi, vorrei solo essere ascoltato, seguito, a volte anche punito per i miei errori, ma vorrei essere presente nella loro vita : invece per parlare con mia madre la debbo rincorrere da una stanza all’altra mentre lei pensa solo alle sue cose.”  Si possono far vincere ai figli le battaglie e far perdere loro la guerra della vita : mi si scusi il ricorso ad una frase fatta, ma che allora non sia questo invece l’eterno paradosso a cui ci vuole ricondurre San Giovanni, che chi vuole vincere prima deve perdere, chi vuole vivere veramente deve prima far morire una vita insignificante ?  Che il fare il padre passi prima dall’imparare a vivere la vita per poi trasmetterla ? Che il dare la vita stia più che in un atto fisiologico     nella capacità di prendere per mano il figlio ed educarlo, cioè tirarlo fuori dal suo egoismo, per far uscire la pianta dalla dura scorza del seme ? Che la vittoria dei figli sulla vita passi attraverso la sconfitta del “peccato originale” dei padri? Che la vittoria stia proprio nell’educare e nell’apprendere a non farsi irretire dalla logica del mondo che è solo superbia e desiderio sfrenato di ogni cosa ?  Forse sta qui il segreto di quella frase di Giovanni, nel suoi descrivere all’indicativo quello che sta in un tempo futuro e la cui attuazione dipende anche da noi. Almeno lo è per me. Quando infatti sono deluso e amareggiato perché vedo giovani che non si interessano e non si coinvolgono in niente che non sia futile ed effimero e genitori che in questo li superano, e mi domando che senso abbia il mio ministero davanti ad un muro di gomma, non ho che questa frase a darmi conforto e speranza. E si sa, la speranza, è l’ultima a morire.  



sabato 10 gennaio 2015

SE ANCHE LE MATITE UCCIDONO

Confesso che non è facile scrivere queste note senza tener conto della commozione per l’ennesimo attentato contro la sede del giornale satirico di Parigi che ha provocato 16 morti e 20 feriti, da parte di terroristi islamici che reagivano così ad una pretesa offesa contro il loro profeta.
Ad una prima reazione direi: “e ora chiedete scusa a Benedetto XVI e a Oriana fallaci” che avevano intravisto i pericoli dell’avanzata dell’integralismo islamico in Occidente.
Attenzione, per favore, non vorrei essere frainteso, perché so che questo è un terreno minato: non scrivo islam tout court ma nemmeno ipocritamente terrorismo solamente; perché dire che tutto l’islam ha come via obbligata la violenza non sarebbe giusto, ma non sarebbe nemmeno veritiero ignorare che la radice di tanto terrorismo contemporaneo affonda nelle tante correnti integraliste in cui è diviso oggi l’islam.
Il problema sta nel fatto che siamo davanti ad una questione che ha implicazioni che vanno dalla religione alla politica, passando per tante implicazioni geo-economiche e sociologiche. Per cui bisogna stare cauti nel cercare di dipanare prima le fila di un gomitolo che a tanti farebbe comodo invece ingarbugliarle sempre di più. Mi limiterò qui a qualche nota per cercare di far luce su qualche causa vera non detta e su qualche causa falsa sbandierata invece in ogni dove.
Anzitutto sul fatto che si creda che necessariamente il monoteismo debba sfociare nella intolleranza e nella violenza e che ciò sia un fatto congenito e perciò irriformabile. Ora di fatto i monoteismi nel mondo sono tre: ebraismo, cristianesimo, islamismo. Generalmente la teoria espressa nei riguardi di questi è formulata così: l’ebraismo, e poi soprattutto il cristianesimo, con la pretesa di avere la verità in tasca l’hanno imposta agli altri con la violenza; l’islam non ha fatto che reagire, da quando è nato fino ad oggi, alla violenza “crociata”. Di fatti si vede come il dito è puntato contro il cristianesimo e finora si è stati molto cauti a dire che c’è altrettanta violenza originaria e non di reazione in tante letture del credo musulmano. Però non si può fare di tutta l’erba un fascio.
La Commissione teologica Internazionale ha reagito con forza a questa lettura con un documento (io credo sottaciuto perché scomodo per la sua franchezza) pubblicato nel giugno 2014 dal titolo: Dio Trinità, unità degli uomini. Il monoteismo cristiano contro la violenza. Difatti è la ripresa della tesi del discorso di Papa Benedetto a Ratisbona, allora tanto dileggiato. Ma cosa aveva detto il papa? Che ogni religione deve potersi autoriformare a partire dal confronto con la ragione: cosa che porta ad esempio ad una lettura non integralista e fondamentalista dei testi sacri di ognuna. Se nei primi secoli per i padri della Chiesa era un vanto poter scrivere nelle loro apologie del cristianesimo che il Logos, la Ratio, la ragione trovava pieno titolo di cittadinanza nella fede cristiana, dobbiamo riconoscere che poi in seguito non sempre fu così. A partire dall’Umanesimo e Rinascimento, e poi con l’Illuminismo, la nascita ad esempio del metodo storico critico in esegesi ha fatto sì che non si credesse più in una coincidenza letterale tra le parole della Scrittura e la Parola di Dio (Galileo insegna) per cui la Chiesa ha un criterio interno per verificare le sue letture della Bibbia: cioè tra il testo e la sua applicazione ci deve essere il non sempre facile lavoro di interpretazione. Il papa a Ratisbona non faceva che prendere atto che nell’islam questo confronto con il Logos, la Ratio, non è ancora avvenuto, per cui l’islam oggi si potrebbe dire che si trova in una posizione pregalileana: c’è un ritardo di cinquecento anni che ha provocato un irrigidimento ad esempio nella lettura integralista del Corano. Se ogni sura (i capitoli del corano) è stata dettata direttamente da Dio (cosa molto diversa dalla concezione della ispirazione della Bibbia) ogni singola parola allora è eterna, immutabile e non necessita di interpretazione ma solo di applicazione: difatti l’unica disciplina permessa a partire dal Corano è la giurisprudenza e non altro. Inevitabilmente una lettura del genere sfocia nel fondamentalismo e si trova in collisione (anche violenta) con la modernità e con i principi su cui si basa la convivenza moderna: il rispetto, la tolleranza, il dialogo fra le culture e le religioni. Mettete poi che una lettura fondamentalista avvalora una lettura teocratica della società islamica e vedrete quanto siamo distanti da una sana laicità della società e dello stato.
Quello di Papa Benedetto era in fondo un augurio: quello che l’islam avesse subito il coraggio di trovare nella ragione l’istanza critica e purificatrice di una religione capace di inserirsi poi a pieno titolo nel consesso mondiale delle fede e delle culture in un dialogo fecondo a favore della pace.
Un certo pacifismo ipocrita, così come tante politiche interessate hanno fatto finta di non vedere questa deficienza nell’islam (difatti l’Occidente e gli Stati Uniti non hanno azzeccato una, dico una, mossa in Medio Oriente), così come tanti sognano un islam “moderato” che non potrà mai svilupparsi se non se ne creano le premesse: e le premesse non sono né la guerra all’islam né il respingimento dei migranti. Abbiamo detto che l’islam è rimasto mezzo millennio indietro: provate a immaginare cosa significhino cinque secoli di assoluta mancanza di libri di ogni genere, e poi giornali, di riflessione filosofica e teologica, di storia, geografia … e vedrete che il risultato sarà solo ignoranza, una profonda ignoranza su cui speculano i venditori di morte. E’ come avere davanti un bambino che deve essere mandato a scuola. L’Occidente deve “esportare” non la falsa democrazia delle false primavere arabe, ma cultura, cultura, cultura: il guaio è che essendo tutta la cultura occidentale radicata sulla tradizione greco-romana e giudaico-cristiana, dal momento che queste radici non sono state riconosciute, anzi ripudiate (si veda la vicenda vergognosa della Costituzione Europea) adesso, ad esempio, all’Europa sono mancati gli strumenti per leggere la vicenda del mondo islamico e la stessa crisi dell’occidente che sta implodendo in se stesso in un lento ma inesorabile suicidio.
Perché l’anticristianesimo di cui si è ammalato alla fine si è rivelato antiumanesimo. E’ così che va la storia: quando qualche musulmano ha gettato via il crocifisso dalle stanze dell’ospedale o dalle aule scolastiche nessuno si è indignato a sufficienza, anzi magari qualcuno si è rallegrato perché vedeva in quel gesto l’affermarsi della laicità! Pur di buttare via il crocifisso non ci si è accorti a chi in realtà si stavano spalancando le porte: e ora che gli integralisti sparano ai campioni della laicità, che dire?
Ricordare anzitutto che laicità vera è rispetto! Non concordo con chi si dimostra offeso per una vignetta, però è anche vero che forse il recupero per il rispetto reciproco ci aiuterà nel recupero di un dialogo. Certo i musulmani dovrebbero imparare dall’autoironia ebraica su Mosè ad esempio, o dalle tante barzellette cattoliche raccontate su San Pietro in Paradiso: ecco, dovremmo aiutare i musulmani a sorridere, ma è anche vero che non tutte le vignette o tanti altri gesti sono fatti per suscitare un sorriso bonario o una seria riflessione magari autocritica; tante opere spesso sono fatte per puro dileggio o provocazione: c’è bisogno di ricordare tutte le oscenità perpetrate nei riguardi tante immagini di Cristo e della Madonna?  Perché nessuno si è scandalizzato quando le femen in piazza san Pietro si sono masturbate nude con dei crocifissi? Ecco forse anche una reazione scomposta e drammatica ci ricorda però che il futuro si costruisce nel reciproco rispetto. Soprattutto rispetto di quanto per tanti rappresenta l’esperienza del sacro, per ebrei, cristiani, musulmani e qualunque altro.

Ecco allora di cosa ha bisogno il nostro dialogo col mondo islamico. Cultura per far comprendere che l’Occidente ha pure qualcosa di buono da offrire; sana laicità per far comprendere che la modernità non è solo negazione di valori e irreligiosità; rispetto da dare e da richiedere per far comprendere che la diversità non è opposizione ma complementarietà.

mercoledì 7 gennaio 2015

feste finite...

Scrivo ancora sotto l’effetto-choc del Natale: anche per quello che di per sé dovrebbe significare e che più non significa (ma ci pensate: come si può  pensare alla nascita di un Bambino celebrando un vecchio, che poi nella provincia babba è pure offensivo chiamare babbo, che sa dispensare solo regali a comando? Sono i miracoli della civiltà dei consumi a cui cristianamente noi diamo una mano!). Ma la fede è un fatto personale e su questo non voglio fare prediche a nessuno.
Ci sono però dei risvolti che credo ci  tocchino al di là del fatto personale per diventare quasi fatti di costume: mi domando però se i costumi sia lecito solo subirli (un po’ come subiamo la moda che ci fa vestire una volta così e una volta cosà ) o se non ci sia data invece la possibilità di sceglierli, di indossarli oppure rifiutarli o, meglio ancora modificarli.
Non capisco ad esempio la pratica generalizzata degli auguri di natale: possiamo scambiarci auguri tra chi non crede che il Dio si sia fatto uomo o che comunque questo gli risulta indifferente? Ma in questo caso cosa dobbiamo augurarci? Chi mi incontra in occasione del Natale sa con quanta ritrosia mi assoggetti a questi riti augurali, con benevoli assalti di baci e abbracci: non per paura di contagi, ma per paura di porre gesti  ipocriti. E così a Natale finisco per augurare solo buon anno! Questo sì, lo faccio volentieri, perché c'è sempre da sperare che le cose (e gli uomini che si nascondono dietro le cose) migliorino.
Vivo perciò con insofferenza questi giorni di buonismo, arrabbiandomi per i marciapiedi occupati da vasi ed alberi che ti obbligano fare pericolose gimkane (ma i marciapiedi non erano una volta solo per i pedoni?), o rassegnandomi a vivere in un paese di zombie perché le persone che incontri mostrano le occhiaie e tutti gli altri visibili segni  delle lunghe veglie passate a non attendere più nessuno e niente che non sia una vincita al gioco (ma è tutta qui la speranza?). O al vedere come anche questa sia una buona occasione per fare un po’ di folklore quali certi “presepi viventi” che di presepe hanno solo la grotta della natività appiccicata a scene da museo etnografico delle tradizioni popolari. Rimpiango i grandi dipinti della natività o i presepi dei secoli passati dove l’incarnazione era veramente un inserimento nella storia di un popolo (i dipinti del trecento ci mostrano la civiltà del trecento, quelli del seicento la civiltà del seicento e lo stesso si dica dei presepi: noi nel duemila rappresentiamo l’incarnazione nell’ottocento, non riuscendo a fare né un discorso solo storico, perché dovremmo ricostruire solo l’ambiente giudaico dell’epoca, ma avrebbe  senso?), né un discorso culturale perché quella cultura che noi rappresentiamo, con buona pace di tutti (anche di quelli a cui ancora piace la mangiata della ricotta calda nell’ambiente bucolico) non c’è più. Pensavo proprio questo salendo per le stradine della cavuzza di san Guglielmo dove le abitazioni e le grotte artificiali si mescolavano a quelle vere, a quelle in cui ancora oggi la gente vive in dignitosa povertà, vedendo come persone per sbaglio entravano in queste piuttosto che in quelle, o vedendo la gioia di un vecchietto nel vedere che tutti si fermavano a guardare il presepe dalla porta spalancata: forse proprio queste case sono state oggi le vere grotte del presepe, lì certamente bisognava cercare come i pastori o i magi il Dio che si è fatto uomo, accanto ad una mamma che ancora allatta, ad una vecchia che più non fila e che forse tesse ormai solo la trama dei ricordi, a quelle persone umili e semplici che sanno che non per due giorni l’anno ma per sempre Dio rende protagonisti della sua storia.
 Ora le feste sono finite (l’Epifania se le porta via si dice) e siamo stati richiamati alla dura realtà della vita quotidiana: e ogni volta il “rientro” non è indolore. Mi domando se questo sia giusto, se proprio non avesse ragione Pascal quando afferma che il problema di tante crisi di identità è proprio del divertessement, del divertimento, del tentativo che continuamente fa l’uomo di divergere, cioè di allontanarsi dal suo centro, dal suo io spesso non accettato, per trasferirsi in qualche paese delle meraviglie o dei balocchi: ma sono paesi dove non si può vivere per sempre. C’è sempre il biglietto di ritorno compreso nel prezzo, a meno che il divertimento non diventi alienazione e qui complichiamo le cose… Ma il divertimento non educa alla responsabilità, anzi: chi è stato a Disneyland ne sa qualcosa del tipo di mondo che viene proposto. Mi domando se la colpa sia di chi cerca il divertissement o di chi glielo offre. La Chiesa in  questo senso forse qualche   peccato deve confessarlo, ma certo non è la sola: tanti altri pensano che al popolo basti offrire alcuni ludi circenses ogni  tanto (penso che la droga di stato vada in questa direzione)… ma qui i discorsi vanno sul difficile. Forse è meglio smettere qua e dirci arrivederci alla prossima volta.




IO ACCUSO…

Tra epidemia e calura estiva è passato sotto silenzio un importante responso della Congregazione della Dottrina della fede e approvato in pr...