lunedì 24 ottobre 2011

Chi induce i vescovi in tentazione?

A quei vescovi che sono  “tentati” di cambiare nel padrenostro “e non ci indurre in tentazione” rispondo in modo articolato cosa ne penso io.
Credo che lo “scandalo” non sia teologico ma sia solo un problema di "scivolamento" linguistico nell’uso corrente del significato della parola "tentazione" (che è invece semplicemente un calco latino da "temptationem" che traduce il greco “peirasmos” e significa prova), giacchè oggi questa parola ha una connotazione negativa (sembra ad esempio quasi che la tentazione - perdendo la sua connotazione neutrale di prova - sia ipso facto peccato, mentre non è detto che uno cada nella tentazione! o che comunque sia solo sollecitazione al male, mentre la prova è sempre situazione di scelta tra bene e male) perciò più che cambiare il  verbo “indurre” cambierei la parola "tentazione".   
Infatti, in latino, "temptatio, temptare" significano semplicemente mettere alla prova, provare, il cui significato originario è quello di toccare/tastare/palpare per verificare la consistenza di una cosa: da qui il significato traslato di sondare,  fare la prova di/a... mettere alla prova, da qui ancora il senso di provare la fedeltà di qualcuno, e infine cercare di corrompere, tentare (nel senso odierno del termine di “provare per vedere se qualcuno cede o no ad una prova/proposta”) e così si arriva anche a sollecitare qualcuno a fare qualcosa e quindi anche del male. In latino l'originario termine non è per niente negativo, la prova di cui si parla anzitutto la potremmo definire una sorta di "collaudo" che un artefice fa per vedere se la sua opera è riuscita bene o no, o un compratore quando "prova" la merce prima di comprarla. Se oggi parlassimo ancora latino dovremmo dire che tutti gli elettrodomestici o le automobili ad esempio "sono tentati" (cioè provati, collaudati) per vedere se superano il controllo di qualità!
E qui dobbiamo dire che il latino non fa altro che riprendere letteralmente il significato del verbo greco peirazo (tento di fare una cosa, provo, esploro qualcosa o qualcuno per vedere come è fatto, esamino come è fatta una cosa) e da qui il  vedere/provare  la qualità morale di qualcuno (diremmo oggi: vedere, provare di che pasta è fatto!), fino ad arrivare al senso di indurre qualcuno ad una reazione/ a compiere una azione, e perciò anche di sollecitare qualcuno al male. La parola peirasmòs mantiene i significati del verbo: prova, l'atto di esplorare, l’atto di provare la consistenza (morale) di qualcuno.
Il senso originario sia latino che in greco di prova è rimasto ad esempio nell'uso di "tento" come sinonimo di "fare la prova a/di": tento di aprire la porta (faccio la prova ma non so se ci riuscirò ), tento di saltare (faccio la prova a saltare)...
La domanda fondamentale dunque potrebbe essere se nel padrenostro l'espressione "indurre in tentazione" sia da intendere
·         nel significato originario ampio di "mettere in una situazione di prova/ mettere alla prova"
·         oppure in quello ultimo derivato di "sollecitare al male".
Chiaramente è da escludere questo senso derivato, perchè Dio non sollecita nessuno a compiere il male (cfr Gc) e un senso del genere davvero sarebbe scandaloso!
E' invece da scegliere, a mio parere, il senso di "mettere alla prova" che risponde a tutta la tradizione biblica.
Infatti  in questo senso il linguaggio corrisponde alla mentalità biblica: la prova/temptatio/peirasmos che Dio fa tramite il serpente ad Adamo ed Eva non è una sorta di verifica di fedeltà, un collaudo (!) che il Creatore fa della sua creatura?
E il mettere alla prova Abramo non è sulla stessa linea della verifica/collaudo?
Non è nella libertà di Dio provare/collaudare la fede di Abramo per vedere se è così forte da "tenere" il peso dell'Alleanza?
Dove sarebbe lo scandalo? 
Lo stesso per Giobbe e per tutti gli altri: chiaramente il male che Giobbe accetta da Dio non è il male morale ma sono le disgrazie che gli capitano (io non teologizzerei tutto: ebraicamente Giobbe sta dicendo - lo dico banalmente - "se da Dio accetto il bel tempo, perchè non devo accettare il mal tempo?". E' chiaro che mentre il bene/bel tempo non mette in crisi la mia fedeltà al Signore, il male/maltempo invece lo fa e per questo l'esperienza del “maltempo” (sofferenza, avversità ecc.) diventa banco di prova della mia fedeltà a Dio (cioè luogo di “tentazione”).
Non vedo dove stia la difficoltà a capirlo o a spiegarlo.  
E se Dio metta alla prova personalmente o, per mettere alla prova, Dio si serva del serpente/diavolo il fatto non cambia (nella storia sacra è Dio che manda il tentatore), anzi, è un modo tutto ebraico per salvaguardare l'unicità di Dio e la sua signoria su tutto.
Per evitare di introdurre un principio del male che tenta, separato e autonomo da Dio, per gli ebrei è preferibile dire che anche la tentazione viene da Dio  piuttosto che introdurre un principio estraneo che a questo punto sarebbe sì inspiegabile e darebbe scandalo.
Ma noi ci siamo così ammalati di buonismo che non riusciamo più oggi a capire tutto questo!
Salvo poi fare in pratica quello che vorremmo non facesse Dio: non è vero che noi prima di fidarci di un amico prima lo mettiamo alla prova? Mica gli diamo la fiducia tutta e subito o ci fidiamo di sconosciuti!
E non fa così un padre con un figlio che cresce, provando la sua resistenza prima di immetterlo in nuove responsabilità? Almeno così faceva mio padre in campagna con me: se non gli dimostravo che ero ormai in grado di fare una cosa mica mi lasciava da solo a farla!
E un vescovo ad esempio non "collauda" un prete prima di affidargli un incarico, o glielo dà alla cieca senza sapere se l'altro sarà in grado di portarlo al termine?
In questo senso anche il Figlio è stato "collaudato" nella sua quarantena nel deserto, prima che inizi il suo ministero! Per non dire della sua passione (Eb 2,18: Infatti proprio per essere stato messo alla prova ed avere sofferto personalmente, è in grado di venire in aiuto a quelli che subiscono la prova).
Ripeto: dove sarebbe lo scandalo nel fatto che Dio ci mette alla prova? Dove lo scandalo del "vaglio" che Dio fa di ognuno di noi? Sapendo che dalla prova-vaglio come da un crogiolo noi saremo purificati dalle impurità?
Non è forse lo scandalo segno di una non piena assimilazione del modo con cui, secondo le Scritture, Dio agisce e vive il suo rapporto con l'uomo?
E' la Scrittura che dobbiamo adattare a noi o noi che ci dobbiamo adattare ad essa?
E la “prova”, paradossalmente, è il vero terreno dove si gioca ultimamente la libertà dell’uomo nei confronti di Dio!
Dato per assodato che Dio dunque ci metta alla prova, allora io, riconoscendo che forse ad un animo semplice o a chi è un poco ignorante "di cose di Chiesa" la frase in questione "non ci indurre in tentazione" potrebbe suonare ambigua, non mi soffermerei tanto sul verbo "indurre in" che significa primariamente "introdurre/spingere uno dentro un luogo"  e da qui in senso figurato "mettere uno in una situazione"  e che non pone nessun problema di traduzione a livello filologico (a meno che non si legga il verbo già con pregiudizi esegetici o teologici! E’ quanto ha fatto Mons. Betori quando parla del senso concessivo che nel verbo non c’è!) quanto mi soffermerei invece sulla parola tentazione.
Infatti, incaponendosi sul voler cambiare il verbo indurre e lasciando la parola tentazione (dove risiede per me l’ambiguità),  ad esempio, la CEI non fa che ingarbugliare il problema e non aiuta a comprendere il testo rettamente:
·         perchè se si dice "non farmi entrare in tentazione " qualcuno potrebbe pensare ad un Dio che ti spinge quasi alla tentazione o comunque al male (e quindi per la mentalità corrente a commettere peccato) e ciò darebbe un'immagine sbagliata e crudele di Dio;
·         ma tradurre "non abbandonarci nella tentazione" è ancora più brutto perchè significa che c'è qualche altro che ti ha messo nella tentazione (chi? allora c'è qualcuno che può agire  indipendentemente da Dio?) e Dio allora è solo uno che fa un'azione di salvataggio quasi lanciando un salvagente ai naufraghi? E se chiedo di non abbandonarmi, allora vuol dire che c'è la possibilità che Dio mi abbandoni nella tentazione? E come fa a scegliere Dio chi abbandonare e chi salvare? Non avremmo qui un'altra immagine di un Dio arbitrario e partigiano? Lo stesso si dica per la traduzione “non farci cadere nella tentazione” perché significa che Dio potrebbe anche farti cadere?
·         Come pure non userei “non lasciare che entriamo/cadiamo/soccombiamo nella tentazione / non permettere che entriamo/cadiamo/soccombiamo nella tentazione”  perché più che in una traduzione qui con l’uso del concessivo siamo già nell’ambito di una interpretazione (che certo è attestata, ma è espressione della perdita del retroterra ebraico in ambito latino e greco), per cui è impensabile che Dio tenti, ma a volte è comprensibile come Dio “permetta” al diavolo di tentarci per provare la nostra fedeltà.
Inoltre porrei più attenzione alla richiesta che segue, perchè non è slegata dalla precedente, giacchè le due frasi sono collegate da un "ma/sed/allà": "ma liberaci dal male" : infatti poi si chiede al Padre di essere tirati fuori, strappati, salvati, liberati (è il senso di liberare latino, in greco ruomai: essere portati fuori pericolodal (potere del )  male/Maligno.
Qui non sono due le richieste separate che fa Gesù, in realtà è una sola in cui si chiede a Dio:
·         di non fare una cosa:  "non farci entrare in tentazione
·         e di farne invece un'altra: ma  tiraci fuori dal male".
Si veda come ci sono in contrapposizione due luoghi figurati: in uno si chiede di non farci entrare, dall'altro di farci uscire.
Ecco per me il senso della preghiera: "e non metterci alla prova per verificare la nostra fedeltà, perchè siamo deboli e fragili e potremmo cedere agli inganni del male/diavolo e perciò tradirti  ma proprio per questo invece tiraci fuori dal potere del male". 
Che farei allora io? Tradurrei, se si trattasse di un compito scolastico: "e non metterci alla prova ma liberaci dal male". Ma siccome si tratta di parola di Dio non lo  farei! E lascerei tutto com’è!
Pechè arrivati a questo punto, faccio un'altro tipo di osservazione: non siamo a scuola e non stiamo traducendo Senofonte.
Voglio dire che in tutte le lingue lungo il corso dei secoli, di fatto non abbiamo avuto del padrenostro se non calchi letterali dal greco e mai vere traduzioni: nei commenti al Pater si vede come quello che ho scritto io è tutta roba risaputa e quindi tutti avrebbero potuto tradurre il testo diversamente in modo che la traduzione fosse anche esplicativa e chiarificatrice della frase (tranne rarissime eccezioni circonstanziate), invece ci si è limitati ad una fedeltà letterale, per quale motivo?
Per il    fatto, credo, che si trattasse di Sacra Scrittura e di parole di una preghiera – l’unica - che tutta la tradizione (a partire dalla Didachè che le riporta uguali e questo ci dovrebbe far riflettere) attribuisce direttamente a Gesù.
La polemica se siano ipsissima verba oppure no è curiosa: come se solo gli ipsissima verba fossero intangibili mentre le altri parti del vangelo si potessero tradurre a piacimento, a volte anche ad usum delphini!
Ma se la parola è sacra, è sacra sempre: ma già, noi, per non scandalizzare i lettori abbiamo finanche censurato i Salmi togliendone i versetti imprecatori! Questo sì con grande scandalo e protesta dei fratelli maggiori ebrei di cui però nessuno si è mai preoccupato!
E perciò io farei come la Chiesa (e un motivo ci deve pur essere) ha fatto in duemila anni: lascerei il padrenostro così come è, riservandomi poi di spiegarlo   nelle omelie e nella catechesi come si è sempre fatto (basti guardare ai Commenti al padre nostro fioriti nei primi secoli).
Perché la Bibbia non è un manuale di catechesi e se poi devo fare delle brutte traduzioni che aprono più problemi di quanti ne risolvono, come quella ultima della CEI allora meglio non farla!
E fra l’altro credo pure che non ci sia una linea coerente: qua il letteralismo disturba, intanto proprio oggi si annuncia che si ritornerà a tradurre nel Sanctus Deus Sebaoth con Dio degli eserciti (spiegando che si tratta di schiere angeliche): qui non si teme che l’uomo contemporaneo si scandalizzi di un Dio capo di eserciti?
Ma forse il fatto è che in tanta parte di questa generazione di teologi si nasconda un criptomarcionismo che ha paura di mostrare il vero e unico volto di Dio a partire da tutte e due le parti, antico e nuovo testamento, della Bibbia?
E aggiungo una notazione riguardo al dialogo con gli ebrei: si è mai pensato di chiedere a loro? Il padre nostro a detta loro è la più “ebraica” delle formule evangeliche, paragonata al Qaddish, e tutti gli autori interessati al rapporto tra Gesù ed ebraismo sono concordi nel dire che questa formula rispecchia la matrice culturale ebraica di Gesù, e noi ci mettiamo a cambiarla? Bel rispetto per l’ebraismo!
E infine: non mi risulta che gli episcopi siano pieni di gente che va dai vescovi a chiedere spiegazione sul padrenostro! In 49 anni mai nessuno si è lamentato con me del perché si dica “non ci indurre in tentazione”. E non penso proprio che i ragazzi del post cresima fuggano dalle chiese perché scandalizzati dal Dio che tenta!
Per me quello del padrenostro è un falso problema: i veri problemi pastorali ed educativi del popolo cristiano sono altrove (ma i vescovi delle chiese vuote tutto l’anno non se ne accorgono perché tanto alle cresime ancora sono piene).
Ma allora, chi è che tenta i nostri vescovi?
Perdonatemi le battute finali.

                                                                                                                    

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