venerdì 1 novembre 2013

Actus credendi non terminat ad enuntiabile sed ad rem ipsam.


C'è un principio in teologia che è anche principio per la spiritualità e per la catechesi:
Come dire: l'atto del credere non finisce nella enunciazione di cosa o in chi si crede, ma nella esperienza stessa dell'oggetto del credere.
Cioè che il credere non è semplicemente un fatto di "enunciazione" di dogmi di fede (un tempo si parlava di fides quae creditur, cioè di contenuti di fede che sono creduti appunto dal "credente") anche se questo aspetto, che comporta l'impegno a rendere intelligibile la stessa fede, a mostrane le ragioni e perciò la sua razionalità, è certamente importante e necessario, giacchè - e ce lo ricorda continuamente papa Benedetto - la fides non può mai essere separata o prescindere dalla ratio.
Ma l'atto del credere non può mai essere ricondotto ad un puro atto - illuministicamente - di comprensione intellettuale: il comprendere razionalmente, ad esempio, come il dogma fondi ed esprima la coesistenza in Gesù Cristo della divinità con l'umanità, è certamente fondamentale ed importante, ma questo non significa ipso facto che questo sia automaticamente un atto di fede, un actus credendi. Anzitutto perchè a questa comprensione può addivenire anche un ateo, senza implicare alcunchè di fede. Ma poi, soprattutto, perchè l'esperienza della salvezza (cioè il perdono dei peccati e il dono della vita eterna) non è il frutto della comprensione intellettuale del fedele: se così fosse saremmo in presenza non più della fede cristiana ma di una pura e semplice esperienza di gnosi (che in greco significa conoscenza), cioè appunto di conoscenza intellettuale, in cui si crede che per il semplice fatto che io ho compreso una verità di vita (ho cioè avuto - come si dice in gergo - una "illuminazione" intellettuale) io sia automaticamente già salvo!
La gnosi è stato il pericolo più sottile e insidioso del cristianesimo, nei suoi duemila anni di storia, e anche oggi si ricicla nella teoria dei "valori" o dei "pricipii" del cristianesimo.
Ma ridurre la fede ad alcune enunciazioni di alti ideali (più o meno condivisibili anche da chi vive in altre fedi o non è animato da nessuna fede), quali quelle oggi di moda: la pace, la giustizia, i diritti, la natura, e via di seguito, significa snaturare l'essenza stessa del cristianesimo.
Il cristiano non è colui chiamato a vivere di belle idee! E' colui che è chiamato a vivere l'incontro con una persona, Gesù Cristo, capace di cambiarti la vita.
Per questo noi parliamo di "esperienza di fede": cioè di un atto del credere che coinvolge non solo l'intelletto ma tutte le dimensioni dell'esistenza (e perciò oltre alla  fides quae creditur   
occorre sempre anche la   fides qua creditur  cioè la fede per mezzo della quale si crede, in pratica quell'atteggiamento fondamentale di affidamento della propria persona nelle mani di colui che si riconosce come il proprio Signore e Salvatore).
Allora si capisce meglio il principio enunciato all'inizio.
L'atto del credere, cioè il mio cammino di fede, non finisce quando io comprendo che Gesù è il Signore e il Salvatore, ma quando io di questa stessa salvezza concessami in Cristo e per Cristo ne faccio una esperienza piena,completa, personale.
Che questo sia un principio fondamentale per la teologia dovrebbe essere evidente di per sè: perchè la vera teologia non è mai riconducibile solamente ad una dotta discussione "su Dio" (questa la può fare anche un ateo, abbiamo detto) ma è sempre anche intelligenza piena e quindi esperienza vitale di Dio! Cosicchè non ci può essere vero credente che non sia anche "teologo" e non ci può essere teologo senza che sia anche un vero credente.
E' la lezione di San Tommaso d'Aquino, capace di innalzare la mente nelle esplorazione delle alte vette di Dio, ma poi anche di saper piegare le ginocchia davanti al Santissimo Sacramento e di saper dire che davanti al mistero della transustanziazione dove falliscono la vista, il tatto e il gusto, solo la fede è capace di fondare l'atto del credente: e forse il dramma di oggi è quello di avere tanti sedicenti teologi ma pochi veri credenti!
Se questo è dunque un principio teologico non astratto ma esistenziale, allora è anche il fondamento della vita spirituale: non si comprende come si possa avere vita spirituale (che poi significa vita di grazia, nello Spirito Santo, cioè esperienza della presenza salvifica di Dio in Cristo nella nostra persona) senza che questa sia per l'appunto esperienza, e non solo precomprensione razionalista di tecniche e metodi mentali di "accaparramento del sacro" che si fermano al chiacchiericcio senza attingere alla rem ipsam cioè alla stessa esperienza della grazia e della salvezza, riducendosi a forme di autogratificazione personale, al limite dell'autoerotismo psicologico.
E la garanzia che si arriva a vivere, a sperimentare il dono della grazia, cosa in cui consiste di fatto l'esperienza della salvezza, è data dall'inveramento del principio nell'esperienza liturgico-sacramentale. Giacchè l'esperienza della salvezza di Cristo è possibile oggi solo attraverso i sacramenti e nella liturgia della Chiesa, dire oggi che l'atto del credere non si conclude con l'enunciazione del dogma ma deve arrivare alla ipsam rem  della salvezza, vuol dire concretamente che la confessione della fede deve terminare nell'esperienza sacramentale. Non c'è fede senza Sacramento. Non c'è proclamazione di fede che non nasca dunque dalla Parola e dal suo accoglimento, ma che non si concluda nel Sacramento. 
Nel Battesimo-Confermazione anzitutto come a conclusione del cammino di conversione (e nei sacramenti collegati del perdono che sono la Confessione e l'Unzione dei malati); e poi nei sacramenti della vita nuova del servizio ecclesiale (Ordine e Matrimonio) ma soprattutto nel Sacramento dell'Eucaristia che della vita nuova in Cristo è centro. 
Ciò vuol dire allora che questo principio teologico è anche il principio che sottostà a tutto l'impegno catechistico. A cosa deve tendere infatti la catechesi se non ad una pedagogia della fede che accompagni il cristiano non solo a saper confessare la sua fede e a renderne ragione, cioè a saper interiorizzare ed esprimere i contenuti del suo credere perchè ne risulti tutta la sua razionalità e credibilità e il credere non sia ridotto a miti e favole per bimbi, ma che arrivi anche e soprattutto a far fare di quella fede confessata una esperienza celebrata nei sacramenti e vissuta nelle varie dimensioni dell'esistenza personale del credente?
Una catechesi che non sbocchi nella celebrazione sacramentale dà solo l'illusione di un cammino compiuto, che si arresta invece proprio davanti alla porta dell'esperienza della salvezza che pur vorrebbe favorire! Non solo: staccando poi l'esperienza di fede dal percorso dell' intellectus la stessa esperienza sacramentale viene ridotta ad una esperienza o magica o puramente estetica o ad una pura esperienza celebrativa ridotta ad una cerimonia avulsa dalla realtà del credente, incapace di produrre frutti di grazia (cioè di attingere alla pienezza dell'esperienza di salvezza se non per il minimo vitale dell' ex opere operato) e quindi anche di sostenere l'impegno del credente in una coerente testimonianza di vita. 
Così abbiamo percorsi catechistici che si riducono solo all' enuntiabile (quasi percorsi scolastici paralleli incapaci di toccare il cuore dei credenti) oppure ispirati solo ad una esperienza di fraternità cristiana ridotta però al solo humanum del "vogliamoci bene, come è bello stare insieme!".
Questo spiega perchè tanti bambini e ragazzi, pur frequentando il catechismo il sabato non riescano poi a comprendere le ragioni della partecipazione alla Messa domenicale; o perchè tanti ragazzi e giovani abbandonino la vita sacramentale al culmine della iniziazione cristiana, quando questa vita dovrebbe prendere le mosse  proprio dalla pienezza della iniziazione che dovrebbe vedere nell'Eucaristia (e non nella Cresima) la fonte ed il culmine di tutta la vita cristiana, come insegna il Concilio Vaticano II.
Riscoprire l'impegno educativo della Chiesa - come è detto nel progetto delle Chiese in Italia per questo decennio - significa a mio avviso ripartire anzitutto da una comprensione della catechesi come accompagnamento pedagogico che aiuti ad entrare pienamente nel mistero della salvezza, che niente altro è che la stessa esperienza della misericordia divina rivelata a noi nel Cristo e diffusa nel nostri cuori dallo Spirito Santo. E' per questa misericordia che noi siamo salvi e ci è data in dono la vita nuova.  E perciò una catechesi vera conduce a sperimentare la misericordia divina nei sacramenti della Chiesa. E solo una sapiente mistagogia (cioè di introduzione ai sacramenti per ritus et preces) saprà rendere l'esperienza sacramentale della misericordia la base per una coerente testimonianza di vita. Se vogliamo cristiani capaci di essere annunciatori dell'amore di Dio, dobbiamo avere prima cristiani che di questo amore ne facciano esperienza vera e sincera.
L'impegno è dunque quello di non essere solo enunciatori, quanto sperimentatori della salvezza. 
Per poi vivere l’impegno della vita nuova.           

Nessun commento:

Posta un commento

IO ACCUSO…

Tra epidemia e calura estiva è passato sotto silenzio un importante responso della Congregazione della Dottrina della fede e approvato in pr...