mercoledì 23 novembre 2016

UN POPOLO DI SACERDOTI CHE OFFRE A DIO IL CULTO SPIRITUALE DELLA PROPRIA VITA



Romani: 6,[16] Non sapete voi che, se vi mettete a servizio di qualcuno come schiavi per obbedirgli, siete schiavi di colui al quale servite: sia del peccato che porta alla morte, sia dell'obbedienza che conduce alla giustizia? [17] Rendiamo grazie a Dio, perché voi eravate schiavi del peccato, ma avete obbedito di cuore a quell'insegnamento che vi è stato trasmesso [18] e così, liberati dal peccato, siete diventati servi della giustizia. [19] Parlo con esempi umani, a causa della debolezza della vostra carne. Come avete messo le vostre membra a servizio dell'impurità e dell'iniquità a pro dell'iniquità, così ora mettete le vostre membra a servizio della giustizia per la vostra santificazione. [20] Quando infatti eravate sotto la schiavitù del peccato, eravate liberi nei riguardi della giustizia. [21] Ma quale frutto raccoglievate allora da cose di cui ora vi vergognate? Infatti il loro destino è la morte. [22] Ora invece, liberati dal peccato e fatti servi di Dio, voi raccogliete il frutto che vi porta alla santificazione e come destino avete la vita eterna. [23] Perché il salario del peccato è la morte; ma il dono di Dio è la vita eterna in Cristo Gesù nostro Signore.

Ø  Possiamo scegliere il nostro padrone, ma, che si tratti di Dio o di Mammona, qualcuno dobbiamo servire. Non possiamo assolutamente restare in posizione neutrale o intermedia. Una tale posizione, infatti non è ammissibile perché, se non vogliamo servire il primo, diventiamo immediatamente schiavi del secondo, e poi perché Cristo ci ha liberati da Satana solo rendendoci suoi servi. (Card. Newman, Al servizio di Cristo).

v  CHIAMATI A SERVIRE: “Dio ci ha creati per conoscerlo, amarlo, servirlo in questa vita …” (Catechismo)
ð  Il servizio è l’essenza e lo scopo dell’esistenza del popolo di Dio: “lascia partire il mio popolo perché mi serva” (Es 7): cfr. in principio c’è la richiesta di andare nel deserto per fare un sacrificio a Dio.
ð  Liberazione dall’Egitto come passaggio dalla schiavitù verso il Faraone che si fa dio, al servizio verso Dio che restituisce all’uomo la sua dignità.
ð  In Egitto non si può servire Dio perché si è obbligati all’idolatria.
ð  Solo chi è libero può scegliere di servire Dio: cfr. l’alleanza al Sinai e la sua ripresa a Sichem con Giosuè.
ð  L’alternativa fondamentale: o il servizio a Dio o l’idolatria.
IL SERVIZIO DI DIO

ð  “lascia partire il mio popolo perché mi renda culto” (Es 7): cfr. in principio c’è la richiesta di andare nel deserto per fare un sacrificio a Dio.
ð  IL SERVIZIO LITURGICO: avodà / opus Dei
ð  QUALE SACRIFICIO?
ð  LA LOGHIKE’ LATREIA
ð  UN SERVIZIO DELLA GIUSTIZIA PER LA SANTIFICAZIONE
v  “… e goderlo pienamente nella vita eterna” (catechismo)

PER RIFLETTERE:
Ø  Liberi da (= premessa): l’Egitto da cui devo sempre uscire
Ø  Liberi di (= la scelta): una decisione da rinnovare ogni giorno
Ø  Liberi per (= scopo): il servizio a cui sono chiamato
Ø  La terra della mia libertà: la Chiesa come terra promessa 
Ø  Il mio “culto”: cioè la mia vita



Da «La Città di Dio» di sant'Agostino, vescovo (Lib. 10, 6; CCL 47, 278-279)
<<Il vero sacrificio consiste in ogni azione con cui miriamo a unirci con Dio in un santo rapporto, rivolgendoci a quel sommo. Bene che ci può rendere veramente beati. Perciò anche le stesse opere di misericordia, con cui si viene in soccorso dell'uomo, se non si fanno per Dio, non possono dirsi vero sacrificio. Infatti, benché il sacrificio venga compiuto e offerto dall'uomo, tuttavia è cosa divina, tanto che gli antichi latini l'hanno designato anche con quest'ultimo nome. Perciò un uomo consacrato a Dio e votato a lui, in quanto muore al mondo per vivere a Dio, è un sacrificio. E' anche un'opera di misericordia che ciascuno fa verso se stesso, come sta scritto: «Abbi misericordia della tua anima, rendendoti gradito a Dio» (Sir 30, 24 volg.).
Dunque veri sacrifici sono le opere di misericordia sia verso se stessi, sia verso il prossimo in riferimento a Dio. D'altra parte le opere di misericordia non si compiono per altro motivo, se non per essere liberi dalla miseria e rendersi così beati di quella beatitudine che non si consegue se non per mezzo di quel bene di cui fu detto: «Il mio bene è stare vicino a Dio» (Sal 72, 28). L'Apostolo ci esorta ad offrire i nostri corpi come sacrificio vivente, santo e gradito a Dio, come nostro atto di culto spirituale (cfr. Rm 12, 1). Ci raccomanda di non conformarci al mondo presente, ma a trasformarci rinnovando la nostra mente per poter discernere qual è la volontà di Dio, per capire qual è il vero bene a lui gradito e perfetto, per comprendere che noi stessi costituiamo tutto intero il sacrificio. Per questo soggiunse: «Per la grazia che mi è stata concessa, io dico a ciascuno di voi: Non valutatevi più di quanto è conveniente, ma valutatevi in maniera da avere di voi un giusto concetto, ciascuno secondo la misura di fede che Dio gli ha dato. Poiché, come in un solo corpo abbiamo molte membra e queste membra non hanno tutte la medesima funzione, così anche noi pur essendo molti, siamo un solo corpo in Cristo e ciascuno per la sua parte siamo membra gli uni degli altri. Abbiamo pertanto doni diversi secondo la grazia data a ciascuno di noi» (Rm 12, 3-6).
Questo è il sacrificio dei cristiani: «Pur essendo molti siamo un corpo solo in Cristo» (1 Cor 10, 17). E questo sacrificio la Chiesa lo celebra anche con il sacramento dell'altare ben noto ai fedeli, in cui le viene mostrato che, in ciò che essa offre, essa stessa è offerta nella cosa che offre.>>
<<Ne consegue senza dubbio che tutta la città redenta, cioè la comunità e la società dei fedeli, viene offerta a Dio quale sacrificio universale, per mezzo del grande Sacerdote, che ha offerto anche se stesso per noi nella sua passione, sotto le sembianze di servo, perché divenissimo corpo di così grande capo. Ha offerto, infatti, questa natura umana e in essa venne offerto perché proprio per essa è mediatore, sacerdote, sacrificio. >>



<<Oggi abbiamo sentito un testo – lo sentiamo e lo meditiamo – della Lettera ai Romani: Paolo parla ai Romani e quindi parla a noi, perché parla ai Romani di tutti i tempi. Questa Lettera non solo è la più grande di san Paolo, ma è anche straordinaria per il peso dottrinale e spirituale. E’ straordinaria anche perché è una lettera scritta a una comunità che non aveva fondato e neppure aveva visitato. Egli scrive per annunciare la sua visita ed esprimere il desiderio di visitare Roma, e preannuncia i contenuti essenziali del suo Kerygma; così prepara la Città alla sua visita. Scrive a questa comunità che non conosce personalmente, perché è l’Apostolo dei Pagani - del passaggio del Vangelo dagli Ebrei ai Pagani - e Roma è la capitale dei Pagani e quindi il centro, alla fine, anche del suo messaggio. Qui deve giungere il suo Vangelo, perché sia realmente arrivato nel mondo pagano. Giungerà, ma in modo diverso da come lo aveva pensato. Paolo arriverà incatenato per Cristo e proprio in catene si sentirà libero di annunciare il Vangelo.
Nel primo capitolo della Lettera ai Romani, egli dice anche: della vostra fede, della fede della Chiesa di Roma si parla in tutto il mondo (cfr 1,8). La cosa memorabile della fede di questa Chiesa è che se ne parla nel mondo intero, e possiamo riflettere come stia oggi. Anche oggi si parla molto della Chiesa di Roma, di tante cose, ma speriamo che si parli anche della nostra fede, della fede esemplare di questa Chiesa, e preghiamo il Signore perché possiamo far sì che si parli non di tante cose, ma della fede della Chiesa di Roma.
Il testo letto (Rm 12, 1-2) è l’inizio della quarta ed ultima parte della Lettera ai Romani e comincia con le parole “Vi esorto” (v. 1). Normalmente si dice che si tratti della parte morale che segue alla parte dogmatica, ma nel pensiero di san Paolo, e anche nel suo linguaggio, non si possono dividere così le cose: questa parola “esorto”, in greco parakalo, porta in sé la parola paraklesis parakletos, ha una profondità che va molto oltre la moralità; è una parola che certamente implica ammonizione, ma anche consolazione, cura per l’altro, tenerezza paterna, anzi materna; questa parola “misericordia” – in greco oiktirmon e in ebraico rachamim, grembo materno - esprime la misericordia, la bontà, la tenerezza di una madre. E se Paolo esorta, tutto questo è implicito: parla col cuore, parla con la tenerezza dell’amore di un padre e parla non solo lui. Paolo dice “per la misericordia di Dio” (v. 1): si fa strumento del parlare di Dio, si fa strumento del parlare di Cristo; Cristo parla a noi con questa tenerezza, con questo amore paterno, con questa cura per noi. E così anche non fa appello soltanto alla nostra moralità e alla nostra volontà, ma anche alla Grazia che è in noi, che lasciamo operare la Grazia. E’ quasi un atto nel quale la Grazia data nel Battesimo diventa operante in noi, dovrebbe essere operante in noi; così la Grazia, il dono di Dio, e il nostro cooperare vanno insieme.
A che cosa esorta, in questo senso, Paolo? “Offrire i vostri corpi come sacrificio vivente, santo e gradito a Dio” (v. 1). “Offrire i vostri corpi”: parla della liturgia, parla di Dio, della priorità di Dio, ma non parla di liturgia come cerimonia, parla di liturgia come vita. Noi stessi, il nostro corpo; noi nel nostro corpo e come corpo dobbiamo essere liturgia. Questa è la novità del Nuovo Testamento, e lo vedremo ancora dopo: Cristo offre se stesso e sostituisce così tutti gli altri sacrifici. E vuole “tirare” noi stessi nella comunione del suo Corpo: il nostro corpo insieme con il suo diventa gloria di Dio, diventa liturgia. Così questa parola “offrire” – in greco parastesai – non è solo un’allegoria; allegoricamente anche la nostra vita sarebbe una liturgia, ma, al contrario, la vera liturgia è quella del nostro corpo, del nostro essere nel Corpo di Cristo, come Cristo stesso ha fatto la liturgia del mondo, la liturgia cosmica, che tende ad attirare a sé tutti.
“Nel vostro corpo, offrire il corpo”: questa parola indica l’uomo nella sua totalità, indivisibile - alla fine - tra anima e corpo, spirito e corpo; nel corpo siamo noi stessi e il corpo animato dall’anima, il corpo stesso, deve essere la realizzazione della nostra adorazione. E pensiamo - forse direi che ognuno di noi poi rifletta su questa parola - che il nostro vivere quotidiano nel nostro corpo, nelle piccole cose, dovrebbe essere ispirato, profuso, immerso nella realtà divina, dovrebbe divenire azione insieme con Dio. Questo non vuol dire che dobbiamo sempre pensare a Dio, ma che dobbiamo essere realmente penetrati dalla realtà di Dio, così che tutta la nostra vita – e non solo alcuni pensieri – siano liturgia, siano adorazione. Paolo poi dice: “Offrire i vostri corpi come sacrifico vivente” (v. 1): la parola greca è logike latreia e appare poi nel Canone Romano, nella Prima Preghiera Eucaristica, “rationabile obsequium”. E’ una definizione nuova del culto, ma preparata sia nell’Antico Testamento, sia nella filosofia greca: sono due fiumi – per così dire – che guidano verso questo punto e si uniscono nella nuova liturgia dei cristiani e di Cristo. Antico Testamento: dall’inizio hanno capito che Dio non ha bisogno di tori, di arieti, di queste cose. Nel Salmo 50 [49], Dio dice: Pensate che io mangi dei tori, che io beva sangue di arieti? Io non ho bisogno di queste cose, non mi piacciono. Io non bevo e non mangio queste cose. Non sono sacrificio per me. Sacrificio è la lode di Dio, se voi venite a me è lode di Dio (cfr vv. 13-15.23). Così la strada dell’Antico Testamento va verso un punto in cui queste cose esteriori, simboli, sostituzioni, scompaiono e l’uomo stesso diventa lode di Dio.
Lo stesso avviene nel mondo della filosofia greca. Anche qui si capisce sempre più che non si può glorificare Dio con queste cose – con animali od offerte –, ma che solo il “logos” dell’uomo, la sua ragione divenuta gloria di Dio, è realmente adorazione, e l’idea è che l’uomo dovrebbe uscire da se stesso e unirsi con il “Logos”, con la grande Ragione del mondo e così essere veramente adorazione. Ma qui manca qualcosa: l’uomo, secondo questa filosofia, dovrebbe lasciare – per così dire – il corpo, spiritualizzarsi; solo lo spirito sarebbe adorazione. Il Cristianesimo, invece, non è semplicemente spiritualizzazione o moralizzazione: è incarnazione, cioè Cristo è il “Logos”, è la Parola incarnata, e Lui ci raccoglie tutti, cosicché in Lui e con Lui, nel suo Corpo, come membri di questo Corpo diventiamo realmente glorificazione di Dio. Teniamo presente questo: da una parte certamente uscire da queste cose materiali per un concetto più spirituale dell’adorazione di Dio, ma arrivare all’incarnazione dello spirito, arrivare al punto in cui il nostro corpo sia riassunto nel Corpo di Cristo e la nostra lode di Dio non sia pura parola, pura attività, ma sia realtà di tutta la nostra vita. Penso che dobbiamo riflettere su questo e pregare Dio, perché ci aiuti affinché lo spirito diventi carne anche in noi, e la carne diventi piena dello Spirito di Dio.
La stessa realtà la troviamo anche nel capitolo quarto del Vangelo di San Giovanni, dove il Signore dice alla samaritana: Non si adorerà in futuro su quel colle o sul quell’altro, con questi o altri riti; si adorerà in spirito e in verità (cfr Gv 4,21-23). Certamente è spiritualizzazione, uscire da questi riti carnali, ma questo spirito, questa verità non è un qualunque spirito astratto: lo spirito è lo Spirito Santo, e la verità è Cristo. Adorare in spirito e verità vuol dire realmente entrare attraverso lo Spirito Santo nel Corpo di Cristo, nella verità dell’essere. E così noi diventiamo verità e diventiamo glorificazione di Dio. Divenire verità in Cristo esige il nostro coinvolgimento totale.
E poi continuiamo: “Santo e gradito a Dio: è questo il vostro culto spirituale” (Rm 12,1). Secondo versetto: dopo questa definizione fondamentale della nostra vita come liturgia di Dio, incarnazione della Parola in noi, ogni giorno, con Cristo - la Parola incarnata -, san Paolo continua: “Non conformatevi a questo mondo, ma lasciatevi trasformare, rinnovando il vostro modo di pensare” (v. 2). “Non conformatevi a questo mondo”. C’è un non conformismo del cristiano, che non si fa conformare. Questo non vuol dire che noi vogliamo fuggire dal mondo, che a noi non interessa il mondo; al contrario vogliamo trasformare noi stessi e lasciarci trasformare, trasformando così il mondo. E dobbiamo tenere presente che nel Nuovo Testamento, soprattutto nel Vangelo di San Giovanni, la parola “mondo” ha due significati e indica quindi il problema e la realtà della quale si tratta. Da una parte il “mondo” creato da Dio, amato da Dio, fino al punto di dare se stesso e il suo Figlio per questo mondo; il mondo è creatura di Dio, Dio lo ama e vuol dare se stesso affinché esso sia realmente creazione e risposta al suo amore. Ma c’è anche l’altro concetto del “mondo”, kosmos houtos: il mondo che sta nel male, che sta nel potere del male, che riflette il peccato originale. Vediamo questo potere del male oggi, per esempio, in due grandi poteri, che di per sé stessi sono utili e buoni, ma che sono facilmente abusabili: il potere della finanza e il potere dei media. Ambedue necessari, perché possono essere utili, ma talmente abusabili che spesso diventano il contrario delle loro vere intenzioni.
Vediamo come il mondo della finanza possa dominare sull’uomo, che l’avere e l’apparire dominano il mondo e lo schiavizzano. Il mondo della finanza non rappresenta più uno strumento per favorire il benessere, per favorire la vita dell’uomo, ma diventa un potere che lo opprime, che deve essere quasi adorato: “Mammona”, la vera divinità falsa che domina il mondo. Contro questo conformismo della sottomissione a questo potere, dobbiamo essere non conformisti: non conta l’avere, ma conta l’essere! Non sottomettiamoci a questo, usiamolo come mezzo, ma con la libertà dei figli di Dio.
Poi l’altro, il potere dell’opinione pubblica. Certamente abbiamo bisogno di informazioni, di conoscenza delle realtà del mondo, ma può essere poi un potere dell’apparenza; alla fine, quanto è detto conta di più che la realtà stessa. Un’apparenza si sovrappone alla realtà, diventa più importante, e l’uomo non segue più la verità del suo essere, ma vuole soprattutto apparire, essere conforme a queste realtà. E anche contro questo c’è il non conformismo cristiano: non vogliamo sempre “essere conformati”, lodati, vogliamo non l’apparenza, ma la verità e questo ci dà libertà e la libertà vera cristiana: il liberarsi da questa necessità di piacere, di parlare come la massa pensa che dovrebbe essere, e avere la libertà della verità, e così ricreare il mondo in modo che non sia oppresso dall’opinione, dall’apparenza che non lascia più emergere la realtà stessa; il mondo virtuale diventa più vero, più forte e non si vede più il mondo reale della creazione di Dio. Il non conformismo del cristiano ci redime, ci restituisce alla verità. Preghiamo il Signore perché ci aiuti ad essere uomini liberi in questo non conformismo che non è contro il mondo, ma è il vero amore del mondo.
E san Paolo continua: “Trasformare, rinnovando il vostro modo di pensare” (v. 2). Due parole molto importanti: “trasformare”, dal greco metamorphon, e “rinnovare”, in greco anakainosis. Trasformare noi stessi, lasciarsi trasformare dal Signore nella forma dell’immagine di Dio, trasformarci ogni giorno di nuovo, attraverso la sua realtà, nella verità del nostro essere. E “rinnovamento”; questa è la vera novità: che non ci sottoponiamo alle opinioni, alle apparenze, ma alla Grazia di Dio, alla sua rivelazione. Lasciamoci formare, plasmare perché appaia realmente nell’uomo l’immagine di Dio.
“Rinnovando - dice Paolo in modo sorprendente per me - il vostro modo di pensare”. Quindi questo rinnovamento, questa trasformazione comincia con il rinnovamento del pensare. San Paolo dice “o nous”: tutto il modo del nostro ragionare, la ragione stessa deve essere rinnovata. Rinnovata non secondo le categorie del consueto, ma rinnovare vuol dire realmente lasciarci illuminare dalla Verità che ci parla nella Parola di Dio. E così, finalmente, imparare il nuovo modo di pensare, che è il modo che non obbedisce al potere e all’avere, all’apparire eccetera, ma obbedisce alla verità del nostro essere che abita profondamente in noi e ci è ridonata nel Battesimo.
“Rinnovare il modo di pensare”: ogni giorno è un compito proprio nel cammino dello studio della Teologia, della preparazione per il sacerdozio. Studiare bene la Teologia, spiritualmente, pensarla fino in fondo, meditare la Scrittura ogni giorno; questo modo di studiare la Teologia con l’ascolto di Dio stesso che ci parla è il cammino di rinnovamento del pensare, di trasformazione del nostro essere e del mondo.
E, infine, “Facciamo tutto - secondo Paolo - per poter discernere la volontà di Dio, ciò che è buono, a Lui gradito e perfetto” (cfr v. 2). Discernere la volontà di Dio: possiamo imparare questo soltanto in un cammino obbediente, umile, con la Parola di Dio, con la Chiesa, con i Sacramenti, con la meditazione della Sacra Scrittura. Conoscere e discernere la volontà di Dio, quanto è buono. Questo è fondamentale nella nostra vita. (Benedetto XVI, Lectio al Seminario romano).


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