mercoledì 3 maggio 2017

Omaggio al coraggio della chiesa copta.

Mentre assistiamo agli eventi terribili della guerra in Siria e sentiamo nostra tutta la preoccupazione del Papa a che non venga strumentalizzato il nome di Dio per evitare la scusa di presentare questa guerra come uno scontro fra Islam e Cristianesimo, come omaggio alla chiesa copta, chiesa martire e coraggiosa ancora ai nostri giorni, come omaggio alla sua fedeltà al Vangelo, pubblico il resoconto di un pellegrinaggio compiuto nel 2002 in Egitto.  
SULLE ORME DELLA SACRA FAMIGLIA NELLA FUGA IN EGITTO
Dopo aver visitato negli anni passati i luoghi della nascita di Gesù a Betlemme (chiesa della natività e il campo dei pastori) e la famosa grotta del latte, prima tappa della fuga verso l’Egitto, dove appunto la Madonna si fermò per allattare il bambino, il villaggio cristiano-palestinese di Gifna dove la famiglia si fermò a riposare all’ombra di un fico, e la città di Ramallah dove Maria si accorse di aver smarrito Gesù, con una delegazione della parrocchia di San Giuseppe ci siamo recati in pellegrinaggio in Egitto per ripercorrere le tappe toccate dalla Sacra Famiglia nella sua fuga, fino a raggiungere partendo dal delta del Nilo, attraverso un percorso nell’Egitto classico e copto, il luogo in cui vissero in esilio per tre anni e mezzo sulla strada per la tebaide e Luxor. E’ stata l’occasione non solo di conoscere l’arte e la cultura egiziane ma anche la fede e la  vita delle comunità cristiane che conservano la memoria della vitalità dei primi secoli del cristianesimo e dove rimangono ancora oggi le chiese e gli altari più antichi di tutta la cristianità. In tutte le chiese visitate la delegazione parrocchiale ha lasciato una documentazione circa la festa di San Giuseppe e della rievocazione della fuga in Egitto con la Cavalcata e ha chiesto di rimanere in contatto per una qualche forma di collaborazione e di scambio. Come sempre ci è piaciuto visitare non solo i monumenti e le pietre ma anche incontrare le persone che abitano i luoghi da noi visitati  nel rispetto delle loro tradizioni e del loro stile di vita. Se non è stato possibile farlo per tutti i posti, abbiamo cercato di inserire piccoli “segnali” che a differenza degli itinerari turistici standard ci consentono di avere uno spaccato di un mondo dove la diversità culturale e religiosa è sotto gli occhi di tutti. Oggi si parla tanto di globalizzazione: se questo significa incontrarsi tra culture diverse per un dialogo e una convivenza pacifica allora che ben venga! E tutto nasce dalla conoscenza: per questo noi mentre con i ricordi della scuola si vagava per l’Egitto dei Faraoni non ci siamo dimenticati di dare uno sguardo attento e curioso (ma insieme discreto) all’Egitto attuale, alla sua situazione sociale, politica, economica e religiosa. Avremmo voluto avere un incontro anche con una realtà islamica ma nelle circostanze attuali non è stato possibile. In particolare abbiamo avuto modo di incontrare la minoranza cristiana copta e – minoranza nella minoranza – la cristiano cattolica. I copti si vantano di custodire ininterrotta la fede sin dai primordi del cristianesimo, nonostante la conquista islamica, e il piccolo gruppo dei cattolici è testimone di un ecumenismo di fatto che va al di là delle dichiarazioni teologiche ufficiali: è difatti il dialogo della carità portato avanti con i copti e insieme a loro con i musulmani, pur in condizioni di estrema povertà, diffidenza e a volte di aperta ostilità che negli ultimi decenni ha visto decine di cristiani subire il martirio da parte di gruppi islamici integralisti. Ma dall’Egitto non può scomparire la traccia del Dio di Israele e di Mosè e del Dio di Gesù Cristo: è Terra santa al pari di tutte le altre che sono stati luoghi della rivelazione del Dio che riscatta i poveri e gli oppressi e di schiere di santi monaci e martiri che con la loro fuga dalle ricchezze e dalle vanità del mondo hanno testimoniato la verità di valori eterni e immutabili. Ripercorreremo con voi le tappe della fuga in Egitto della sacra Famiglia e così idealmente ripercorreremo non solo la storia di una delle più grandi civiltà mai esistite, ma quindi anche i luoghi legati alla storia della salvezza.
Arrivare sul Cairo di notte sorvolando il Nilo e le piramidi è stata la prima di una serie lunga di emozioni che il nostro viaggio ci ha procurato. Insieme a tanta stanchezza accumulata nei lunghi trasferimenti da un posto all’altro, ripagata solo dal sapere di stare facendo un’esperienza sui generis, alla scoperta di un Egitto sconosciuto ai canali normali del turismo di massa. Perché l’Egitto non è solo quello dei faraoni, è anche quello dei romani, dell’ellenismo diffuso da quel grandissimo centro culturale che fu Alessandria, è l’Egitto culla del cristianesimo che qui ha operato una mirabile forma di inculturazione dando origine alla Chiesa Copta, che può vantare un legame continuo e ininterrotto con l’esperienza apostolica delle origini e che divenne poi il luogo di nascita di quella particolare forma di vita cristiana che fu il monachesimo sia eremitico sia cenobitico, da Sant’Antonio Abate ai nostri giorni in una rete fitta di monasteri – vere oasi naturali e spirituali nel deserto – che a costo di sacrifici eroici e a prezzo del sangue di innumerevoli martiri offre ancora oggi l’opportunità di un’intensa esperienza ascetica a quanti lo desiderano. Un Egitto diverso dunque dai soliti cartelli pubblicitari e che non mancherà di stupirci giorno dopo giorno.
E già l’inizio è più che promettente: avere la possibilità di avere l’albergo a Giza e quindi di poter contemplare al di là della strada la stupenda triade delle piramidi più famose, ora baciate dal sole ora illuminate dalla luna, non è certo cosa di tutti i giorni! Meno bello è stato sapere che la partenza (arrivati alle due di notte) era prevista per le quattro e mezzo! È stato quasi un rivivere proprio l’inizio notturno della fuga in Egitto sulle cui orme noi volevamo andare! E non volevamo perderne neanche una: dopo un lungo tragitto per il deserto, attraversato il canale di Suez, quasi sulle sponde del Mediterraneo, arriviamo ai pochi ruderi rimasti di Zaranik (l’antica Flosiat) ed El Farma (l’antica Pelosium). E’ qui che arriva, provenendo da Betlem, la Sacra Famiglia, attraverso la via maris e passando dalla “striscia di Gaza purtroppo oggi così tristemente famosa. Non c’è ormai più quasi niente da vedere però per noi è importante lo stesso per avere un’idea della strada percorsa e della difficoltà del cammino. A Zaranik avviene il nostro primo incontro con una parrocchia copta. L’Abuna (il “padre nostro”, come viene chiamato qui il sacerdote) ci accoglie gentilmente (e sarà questa una caratteristica costante dei nostri incontri) e ci spiega come i cristiani di quel posto sono orgogliosi di vivere in un luogo che non solo ricorda il passaggio della Sacra Famiglia ma dove si fa memoria della dimora di Giacobbe quando scese in Egitto richiamato dal figlio Giuseppe insieme a tutti i suoi figli. Quel luogo - ci dice -  è stato da sempre una colonia ebraica e non fa impressione che proprio qui si diresse anzitutto Giuseppe scappando da Betlem per portare in salvo Maria e il Bambino. Attraverso poi i mille canali del delta del Nilo ci portiamo a Bubastis (attuale Tell Basta), qui – secondo la tradizione - all’arrivo di Gesù crollarono tutti gli idoli dei templi e gli abitanti impauriti scacciarono la Famiglia. Qui il Bambino prese le lacrime dal volto rattristato di Maria e fece scaturire un pozzo. Il pozzo (conservato fra le rovine dell’antica città ora all’interno di un presidio militare) e la chiesa dedicata a Maria esistono ancora. Ma qui la famiglia non si sente al sicuro e si sposta ancora e arriva ad un luogo che poi si chiamò El Maganna (luogo del bagno), perché la Vergine  fece il bagno al  Bambino Gesù. Qui la commozione è tanta nel vedere uno sparuto numero di famiglie copte con le case quasi diroccate costruite con l’entrata verso il sagrato della chiesa e “accerchiate” da moschee e sue pertinenze (ma anche questa sarà una costante di tutte le chiese copte visitate) fare la guardia per custodire una memoria così importante per la loro storia e la loro fede. E poi per me parroco è particolarmente toccante vedere la scena di un gruppettino di bambini che con un catechista diciottenne fanno la loro lezione di catechismo sui gradini della chiesa, unica loro aula catechistica!!! E che pure fanno a gara a farmi vedere come recitano le preghiere a memoria e tutti sanno fare il segno di croce: e penso ai nostri bambini del catechismo, serviti con le migliori strumentazioni audiovisive e messi nelle migliori condizioni e che pure non riusciamo a smuovere dal loro disinteresse e dalla loro apatia!!! E le famiglie cristiane qui incontrate: povertà grandissima, quasi alla soglia della miseria, ma quanto orgoglio in queste persone, quanta gioia nel portare il nome cristiano, al punto di farsi tatuare una croce blu sul polso, sapendo che però questo non solo può costargli la vita, ma che spesso questo significa la perdita del lavoro o la preclusione di una carriera scolastica o militare o l’impossibilità di migliorare la propria condizione socio-economica e penso alle nostre famiglie “cristiane” spesso solo di nome ma rose dal di dentro dal perbenismo borghese e dalla perdita di orgoglio, identità, ideali e valori! Quanta differenza!
Andando a sud la famiglia si rifugiò a Bilbais qui un albero si piegò per fare loro ombra. Qui nella  chiesa della Vergine si venera l’albero di Maria o meglio, quanto ne resta: si racconta infatti che quando qui arrivò Napoleone con i suoi soldati, spinto da odio anticlericale, avesse ordinato di sradicare quest’albero per eliminare “l’insana devozione cristiana” dal cuore della gente. Ma quando i soldati lo colpirono con la scure dalle ferite dell’albero cominciò ad uscire del sangue. I soldati francesi allora lo presero a cannonate e lo sradicarono del tutto. La gente per devozione quando i francesi se ne andarono piantò quello attuale. Siamo nel delta del Nilo e il viaggio procede lento e a fatica fra i mille canali e i ponticelli di collegamento. Le scene sembrano fissare nel tempo uno stile di vita che si ripete sempre uguale nei secoli: i contadini nei campi, le capanne di fango e paglia, le donne che lavano le stoviglie o i panni lungo i canali, i bambini che tra un lavoro e l’altro si ritagliano spazi per il gioco. E gli immancabili asinelli tuttofare che trottano aitanti ora sommersi dal loro carico ora leggeri e spensierati.  La Famiglia seguitò verso Samanud e noi la seguiamo, orami al tramonto nel luogo della sua sosta dove si conserva un antico recipiente di pietra considerato come l’utensile dove Maria impastava il suo pane: è l’attuale chiesa del martirio dove si conservano i resti di un santo martire sotto la persecuzione di Diocleziano. Un adolescente che per non rinnegare la fede morì sottoposto a terribili sevizie e il cui culto e la fama miracolosa continua tutt’oggi. Ci arriviamo addentrandoci tra un corridoio del mercato cittadino tra una ressa di venditori che si apre e ci fa spazio tra il divertito e il curioso nel vedere un gruppo di occidentali arrivare in quel villaggio lontano. L’abuna, il parroco, è così onorato della visita da aprire il reliquiario e permetterci di baciare le reliquie del martire avvolte in stoffe di porpora e oro e che profumano di incenso. Ci vorrebbe intrattenere più a lungo ma la fretta ci spinge a ripartire per arrivare in serata a Sakha (nome copto di Gesù) nella chiesa della Vergine: qui si conserva l’impronta del piede di Gesù Bambino sulla roccia. Pur essendo arrivati in ritardo scopriamo che tutto il villaggio ci ha pazientemente atteso e la facciata della chiesa è illuminata a festa. Pur nella visibile povertà siamo accolti nientemeno che con una coccola a testa! E si ripete la scena del parroco che apre il prezioso reliquiario per farci toccare con mano la preziosa reliquia. Il nostro arrivo è diventato una festa per tutta la comunità: tutti fanno a gara a mostrarci qualcosa, non riusciamo a capire tutto – sono pochi quelli che parlano inglese – ma c’è una lingua che ci accomuna: il sentire di essere tutti fratelli nella fede. Mastorod, invece fu una tappa nel viaggio di ritorno della Famiglia: qui ancora oggi una chiesa della Vergine conserva un pozzo dedicato alla “signora Maria” (come qui cristiani e musulmani chiamano la Madonnna) che possiede proprietà curative: portiamo via l’acqua in bottigliette di plastica, se non proprio per le virtù curative, certo per accettare l’omaggio di una parrocchia tra le più povere che abbiamo incontrato . Il giorno dopo è la volta della visita ai monasteri di Wadi el Natrun,, l’antica valle dove si estraeva il sale per l’imbalsamazione. Qui l’esperienza cenobitica non è mai stata interrotta a partire dal quarto secolo dell’era cristiana. Nei tre monasteri visitati siamo accolti con gentilezza da monaci colti ma dallo sguardo in cui l’umiltà dell’ascesi lasciava intravedere la lunga frequentazione della Parola e della Divina Liturgia. La vita che qui si svolge è un tentativo di vivere fino in fondo l’esperienza comunionale della chiesa primitiva degli atti degli apostoli: come poi sarà per l’occidente il tentativo benedettino dell’ora et labora. E il numero dei pellegrini e la vitalità delle attività rivela questi monasteri come i centri propulsori ancora oggi della spiritualità copta. Per non parlare del folto numero di monaci giovani, segno che l’esperienza monastica continua ancora ad esercitare la sua attrattiva. Dai libri di storia ricordiamo la teoria della fuga mundi, spesso da noi interpretata come rinuncia solamente ad un confronto con la storia: ma il monaco che ci accoglie ce ne da un’altra versione. Tanti monaci scappavano è vero dalla città e dalle invasioni e dalle persecuzioni. Ma non per paura ma per amore. Avevano capito che una loro resistenza poteva portare l’altro ad ucciderli: indirettamente però sarebbero stati loro la causa del loro peccato per la trasgressione del comandamento di non uccidere. Chi ama veramente non mette mai il fratello nella condizione di peccare! Si racconta di un solo monaco che non fuggì e fu ucciso a colpi di spada: ma lui stesso prima di morire disse che l’aveva fatto per espiare le colpe della sua gioventù prima della conversione. Era stato un assassino e quindi è giusto che chi aveva colpito di spada morisse di spada! Adesso la tomba di questa monaco martire è meta di pellegrinaggi e anche qui le reliquie ci sono mostrate con grande orgoglio. Ma la cosa che personalmente mi fa più pensare non sono tanto i tesori di arte (tantissimi) e di storia, ma una prassi bellissima tuttora in uso tra i monaci: all’ingresso di ogni chiesa c’è un catino con l’acqua dove la domenica  l’abate lava i piedi a tutti i monaci del monastero. Nel refettorio sarà poi lui stesso a leggere la regola e i passi scritturistici durante il pranzo. Un bel modo per ricordare che l’autorità nella chiesa è evangelicamente servizio! 
Navigando da Garanous, Gesù Maria e Giuseppe giunsero a Banhassa, attraversando il fiume approdarono a Gebel el Tair qui in una chiesa si conserva l’impronta della mano di Gesù Bambino. Continuando in barca la Famiglia arrivò a El ashmunim e poi a Dayrout, fino a  El Muharraq qui nel monastero si conserva l’altare in pietra più antico del mondo. Qui rimasero per tutta la loro permanenza in Egitto ricordata nei monasteri di Meir Dranka, Aba bane, Deir Abullu. Al momento di ripartire la Famiglia passa da Assyut e poi percorre a ritroso lo stesso itinerario dell’andata.
In Egitto registriamo una notizia in controtendenza che però ci fa ben sperare: il governo egiziano ha stabilito che la festa del Natale (nella data in cui la chiesa copta lo festeggia, cioè il 7 gennaio) diventi una ricorrenza civile festiva di tutto lo stato. E’ l’unica festa cristiana che viene riconosciuta (nemmeno la domenica che è tollerata di fatto) e la prima istituita ufficialmente come vacanza da uno stato islamico la cui popolazione è però per un quarto cristiana. Salutiamo con piacere questo passo in avanti quasi a riprova che dove lo si voglia la possibilità di vivere un islamismo non integralista e fondamentalista viene data. Ed è pure la riprova che alla fine la via cristiana della testimonianza (martirio) silenziosa e del dialogo ad oltranza prima o poi da i suoi frutti. D’altronde proprio in ciò il governo egiziano sta dando prova di lungimiranza e di sano realismo: perché alla gente del popolo sono estranee tutte le elucubrazioni ideologiche, fossero pure teologiche, mentre vive – qualora non sia strumentalizzata da subdoli politicanti per altri fini – un ecumenismo e un dialogo interreligioso di fatto. Ce ne siamo accorti nei nostri pellegrinaggi in Terrasanta, lo abbiamo visto anche in Egitto. La devozione alla Madonna ad esempio è un tratto che accomuna cristiani e musulmani: in tutti i santuari visitati, specie nel santuario della Cairo vecchia dove in questo secolo è apparsa più volte la “Signora Maria” – come anche il Corano appella la Vergine –. In questo santuario moderno, sorto nei pressi di Matariah dove - provenendo da Wadi el Natrum la Famiglia e diretta ad Heliopolis - un sicomoro si piegò a fare ombra ai tre fuggitivi dopo che il bambino con il bastone di S.Giuseppe aveva fatto sgorgare una sorgente di acqua (un sicomoro ormai secco eppur imponente è tuttora visibile accanto al pozzo che oggi si chiama “sorgente del sole”nel “giardino del balsamo”) era impossibile distinguere  i fedeli delle due religioni fra quelli che invocavano l’intercessione della Madonna pregando e accendendo candeline davanti alla sua immagine. Lo stesso in un antico monastero nel quartiere copto del Cairo dove famiglie intere si recavano a chiedere l’intercessione di un santo monaco eremita lì vissuto nel medioevo e famoso per le guarigioni dalle malattie mentali: cristiani e musulmani in egual maniera si sottoponevano fra le lacrime al rito di esorcismo compiuto con l’imposizione al collo della catena che il santo usava per legare gli ossessi. E sono queste le esperienze che ti fanno riflettere sul senso religioso innato in ogni uomo e del bisogno di esprimersi in una devozione naturale e popolare, al di là delle forme storico-culturali in cui poi le religioni si manifestano. E lo stesso fenomeno è avvenuto in tutti i santuari dove si veneravano reliquie di martiri o in tutti i posti dove il passaggio della Santa Famiglia ha lasciato quasi una scia di sorgenti e di luoghi taumaturgici: è come se in modo quasi naturale l’uomo avvertisse in sé il bisogno della salvezza. E questo è un sentimento comune a tutti: chi lo ha detto allora che la religione deve per forza dividere? Una esperienza religiosa vissuta in modo equilibrato e che non diventi alibi invece per la creazione di strutture di potere può essere un mezzo di pace e di riconciliazione. Proprio queste cose meditavo la domenica mattina passeggiando per la Cairo vecchia dove in un unico quartiere troviamo le moschee più antiche, ma anche le chiese delle diverse denominazioni cristiane e finanche la più vecchia sinagoga d’Egitto, sulle rive del Nilo, dove secondo la tradizione approdò cullato dalle acque il canestro con il piccolo Mosè. Ci troviamo nei pressi di Maadi: qui in una grotta si rifugiarono la S. Famiglia sia all’andata che al ritorno della fuga. Sopra i copti vi costruirono poi la chiesa di San Sergio dove si conserva l’altare in legno più vecchio del mondo: una meraviglia sia per la storia dell’arte che per la storia della liturgia. Accanto c’è la Chiesa della Vergine Maria con una scalinata che scende verso il Nilo: qui secondo la tradizione Mosè fu salvato dalle acque e da qui la Famiglia si imbarcò per risalire il Nilo. L’esperienza intensa vissuta in queste viuzze del quartiere copto tra i suoni dei sonagli dei turiboli fumiganti di incenso della divina liturgia che in tutte le chiese quasi simultaneamente si sta celebrando in cui l’arabo si mescola al greco e al copto in una melodia che a volte si fa quasi struggente ci riporta ai primordi dell’esperienza cristiana. E ci sembra quasi di vivere le pagine dei padri e di Tertulliano, Origene, Ippolito nella descrizione della liturgia quando al termine della Messa ci viene offerto il tipico pane arabo con panna/ricotta con miele di datteri: gli apologisti raccontano che nell’eucaristia oltre al pane e al vino veniva offerto pure latte e miele per indicare che si stava mangiando il pane celeste, il pane della terra promessa! E ancora una volta per me prete viene spontaneo il paragone con le nostre liturgie cristiane fredde, monotone, formali, cui si partecipa per senso del dovere – se non per altro – ma che non diventano quasi mai esperienza gioiosa della salvezza, evento di fede. E mi chiedo se la crisi religiosa che sta vivendo l’occidente, la crisi dell’identità cristiana di cui stiamo soffrendo anche in Italia (e di cui, al di la dei discorsi ufficiali, non sembrano rendersi conto neanche le alte gerarchie ecclesiastiche, ancora illuse dalle chiese piene nelle occasioni di circostanza) non sia un modo per riportarci ad una autenticità che non un regime maggioritario di cristianità ma solo una esperienza minoritaria ma libera dal peso di sentirci quasi una “chiesa di stato” o “chiesa civile” (buona cioè solo come agenzia di solidarietà e solo per questo tollerata) ci può dare veramente. Ma forse questi sono solo sogni di un prete ad occhi aperti.


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