venerdì 24 novembre 2017

Non si può uccidere in nome di Dio


A qualche anno di distanza dal Documento sulla radice religiosa della violenza, l’augurio della Commissione Teologica Internazionale sembra quasi essere ripreso da una pubblicazione, quella del Rabbino Jonathan Sacks, dal significativo titolo Non nel nome di Dio[1]. Con questo libro, che sembra quasi ripetere il grido, purtroppo tanto inascoltato dei Pontefici dagli inizi di questo secolo fino a Benedetto XVI e Francesco, che non si può uccidere nel nome di Dio, anche Sacks, stavolta dal punto di vista ebraico, ha voluto confrontarsi, come dice nel sottotitolo stesso, con questa provocazione ideologica sulla radice religiosa della violenza.

Il saggio del Rabbino Sacks è davvero una voce forte e chiara che si leva per disinnescare la miccia della violenza terroristica attribuita indistintamente a tutti i monoteismi. Nato per reagire all’ondata di terrorismo di matrice islamica che sta scuotendo da alcuni anni l’Occidente[2], il libro si apre con questa fondamentale affermazione: <<Quando la religione trasforma gli uomini in assassini, Dio piange>>[3]. Ed è inoltre significativo perché viene da parte di un ebreo che cerca di superare pure l’idea che ebraismo ed islamismo debbano per forza essere nemici e che l’islam debba per forza imboccare la strada della intolleranza e della violenza. Per argomentare le sue tesi, Sacks svolge il suo saggio con un lungo itinerario su più piani, dallo storico all’esegetico allo spirituale, che si intersecano tra loro (magari con qualche ripetizione o semplificazione) ma che alla fine conducono il lettore a convincersi davvero che, se si vuole, ci sono davvero alternative alla violenza e che tante vie di dialogo rimangono aperte e tante se ne possono ancora aprire.

Il libro è articolato in tre parti.

La prima parte si intitola Malafede e parte dalla costatazione dell’uso strumentale che spesso si è fatto e si fa della religione per fini utilitaristici o per logiche di potere o anche per certe letture ideologiche e fondamentaliste dei libri sacri. Anche Sacks reagisce alla tesi per cui il politeismo sia la religione della tolleranza, affermando invece che <<la religione, sotto forma del politeismo è entrata nel mondo come giustificazione del potere>>[4] rilevando come nei riguardi di questa concezione <<il monoteismo abramitico emerse come una potente protesta>>[5]. Così come reagisce alla tesi che per superare la violenza di cui si dà per scontato la sua matrice religiosa, si debba togliere la religione dallo scenario della vita pubblica della società, per sradicarla dalla coscienza dell’uomo o quantomeno relegarla nella sfera intima e privata della persona. L’autore cita in proposito[6] la famosa canzone di John Lennon Imagine che sogna un mondo in cui non ci sarà più la religione e quindi non ci sarà più bisogno di uccidere o morire per essa: un sogno che ha affascinato l’intera beat generation ma che ha radici ben più antiche che partono dall’epoca moderna e dalla rivoluzione illuminista e passano per lo scientismo positivista, il darwinismo, per sfociare nel nichilismo di Nietzsche, nei totalitarismi, in ogni laicismo di sorta accumunati dal solo grido “Dio è morto”  e nel tentativo di imporre con la forza e la violenza un nuovo ordine di cose. Ironicamente Sacks chiama questo tentativo la malvagità altruistica perché in nome di un presunto beneficio per l’umanità si perpetrano i più atroci delitti contro la stessa umanità: basti pensare non solo all’intollerante illuminismo che imponeva il culto alla Ragione, ma anche alle nuove idolatrie del nazismo e delle varie forme di comunismo realizzate in alcune contesti geopolitici del mondo, in cui in definitiva si rivela invece la logica violenta del potere[7]. Pur ammettendo che ci sono stati determinati periodi storici in cui la logica di potere si è insinuata anche nel cuore dell’esperienza religiosa (si vedano ad esempio le guerre di religione che hanno insanguinato l’Europa nei secoli passati) il rabbino americano nega che la soluzione stia nel sognare un futuro senza religione. La vera domanda, scrive, è chiedersi <<cos’è che, in primo luogo, rende le persone violente?>>[8]. Per cui nel capitolo secondo Violenza e identità si riconosce che la violenza è generata dalla malvagità, cioè dal tentativo egoistico di affermazione e sopraffazione di un individuo sull’altro, perciò si ribadisce invece la necessità di una esperienza etica che fondi le regole della convivenza civile, creando le basi per una fiducia reciproca che superi l’homo homini lupus, magari supportata da una esperienza religiosa genuina. Cosa si intende qui per genuinità? Anzitutto il superamento di una concezione dualistica della religione in cui bene e male sono contrapposti e provengono da opposte radici, così da far leggere dualisticamente non solo la divinità ma anche il mondo e i rapporti umani: il rischio è che quando un gruppo umano, ad esempio, identifica se stesso con il bene, ne deriverà che tutti gli altri gruppi saranno visti come il male e da qui l’inevitabilità dell’antagonismo che spesso degenera in violenza. E’ quanto vien detto nel capitolo terzo, Dualismo. In una concezione dualista, l’identità personale è sempre letta in contrapposizione all’altro: si pensa sempre con un “io e gli altri” o “noi e loro”. In fondo, scrive l’autore è un modo semplicistico di ragionare e di risolvere la complessità dell’esistenza: ecco perché <<il dualismo è un’idea pericolosa, e la visione tradizionale della Chiesa e della Sinagoga fecero bene a respingerla… Il dualismo patologico fa tre cose. Fa disumanizzare e demonizzare il nemico. Porta a vedere te stesso come una vittima. E ti permette di commettere della malvagità altruistica, uccidendo in nome del Dio della vita, odiando nel nome del Dio dell’amore e praticando la crudeltà nel nome del Dio della compassione>>[9]. Il superamento del dualismo nell’autentico monoteismo è la condizione, dunque, per uscire da queste logica di contrapposizione. Monoteismo autentico si dice, perché, ci avverte Sacks, il dualismo è un virus che si può annidare nello stesso monoteismo e perciò bisogna sempre vigilare che ciò non accada.[10] Inoltre, si comincia a comprendere proprio da ciò la radicale diversità del monoteismo di origine biblica: nel Dio che si rivela nella storia del popolo ebraico, il dualismo è ricompreso nell’unità stessa di Dio che crea il bene e il male (per richiamare Isaia), la luce e le tenebre, che sa mettere insieme sempre in modo originale la giustizia e la misericordia, la vendetta e il perdono. E’ il superamento del dualismo che può far uscire dalla logica della ricerca del capro espiatorio, fenomeno analizzato nel capitolo quarto, e della rivalità fraterna, fenomeno analizzato nel capitolo quinto e ampiamente studiato da Renè Girard. Ci può essere dunque un modo diverso di intendere il rapporto personale, che non cada nella contrapposizione dualistica e nella conflittualità radicale apparentemente insita nella stessa esperienza della fraternità, come apparentemente sembra suggerirci lo stesso testo biblico a partire dalle storie della rivalità tra fratelli, da Caino e Abele in poi per arrivare a Isacco e Ismaele e a Giacobbe ed Esaù Sacks analizza qui i vari racconti biblici spingendo il lettore ad andare nella profondità del testo, senza fermarsi alla superficie, per cogliere un senso non apparente e non scontato del racconto, che anzi spesso si rivela essere l’opposto di quanto comunemente si intende.

Questa, crediamo, sia la parte veramente originale e creativa del contributo di Sacks al dialogo e per una spiritualità di pace e non violenza. E’ la seconda parte del saggio, dal significativo titolo di Fratelli.  Il nostro rabbino entra subito nel cuore del problema, col capitolo sesto I fratellastri, in cui esamina la vicenda di Agar col figlio Ismaele e di Sara col figlio Isacco e si chiede se davvero i fratellastri figli di Abramo siano condannati, e con loro anche i loro discendenti (non dimentichiamo che i musulmani si rifanno ad Ismaele come al figlio che Abramo stava per sacrificare e da cui discenderebbero i popoli della Arabia e a cui si attribuirebbe la stessa fondazione del culto alla Mecca), alla rivalità e alla violenza reciproca ieri come oggi. Come dicevamo prima, una lettura superficiale sembrerebbe far dire alla Bibbia che Dio faccia preferenze tra i due fratelli e che, nella elezione di Isacco ci sia, di risvolto, il respingimento di Ismaele. Ma Sacks ci aiuta a leggere con attenzione il testo e ci fa notare come, già nel racconto, Dio accordi protezione ad Agar e al figlio, con la promessa di una benedizione accordata ad Ismaele e mai revocata. Così che, se Dio poi scelga di proseguire il patto fatto con Abramo con il figlio Isacco, ciò non significa l’abbandono di Ismaele al suo destino. E’ la dimostrazione che siamo in presenza di due vocazioni, di due ruoli storicamente diversi ma che non sfociano necessariamente nella contrapposizione. Sacks lo dimostra non solo facendo ricorso al midrash, tecnica eminentemente rabbinica per leggere la Bibbia anche fra le sue righe, in cui si vede come il padre Abramo, pur nella scelta obbligata di tenere con sé solo Isacco, non smise mai di amare e di interessarsi della sorte dell’altro figlio; ma Sacks lo mostra ancor meglio ricordando un testo biblico spesso tralasciato se non ignorato, quello in cui, in Genesi 25, si parla della morte di Abramo e si dice che lo seppellirono entrambi i figli insieme: ciò fa intendere come, in nome dell’unica paternità, i due figli, pur con destini diversi, sono in grado di vivere una vera esperienza di fraternità.

Nel segno di una fraternità ritrovata è letta poi, nel capitolo settimo La lotta con l’angelo,  la vicenda di Giacobbe ed Esaù. La storia dell’inganno e della fuga di Giacobbe è risaputa. Anche qui Sacks, rileggendo le pagine sacre, mostra come, a ben vedere, le vocazioni e i destini dei due fratelli sono già delineati e distinti, per cui non ci sarebbe stata ragione per Giacobbe di invidiare Esaù e insidiarlo per avere la sua benedizione, quando in realtà per ogni fratello era prevista una benedizione, e quindi una vocazione diversa. In questo senso, la lotta misteriosa con l’angelo da cui Giacobbe esce vincitore, seppur sciancato, rappresenta anche il momento in cui Giacobbe prende consapevolezza del suo ruolo nell’economia del popolo che da lui si chiamerà Israele, ben diverso da quello del fratello, che perciò può incontrare in una rinnovata esperienza di fraternità, ricevendo, proprio dal fratello ingannato, una lezione di magnanimità e di accoglienza, dimentica della rivalità passata.

Dove poi il recupero della fraternità, nel rifiuto della vendetta e nella disponibilità al perdono, è messo ancora più in luce, è nel capitolo ottavo, Il rovesciamento dei ruoli, con la rilettura della vicenda di Giuseppe venduto schiavo dai suoi fratelli. E’ una storia che inizia con la gelosia e l’invidia, ma che si chiude nel segno della fraternità. Per arrivare a ciò Giuseppe trova l’unico modo pedagogicamente valido: far sperimentare ai fratelli la stessa sofferenza della prigione, del sospetto, della accusa calunniosa. Spesso, è la considerazione di Sacks, il superamento della rivalità potrebbe darsi nella misura in cui ognuno provasse a mettersi nei panni degli altri e con ciò scoprire come noi stessi siamo ora vittima di uno stesso trattamento che noi per primi abbiamo inferto agli altri. E’ l’esperienza della verità della regola d’oro: non fare agli altri quello che non vuoi sia fatto a te / fai agli altri quello che vuoi sia fatto a te. In questo cammino di conversione, di rientro in se stessi, il perdono accordato da Esaù a Giacobbe come quello di Giuseppe ai suoi fratelli, dimostra come nessuno, se lo vuole, è destinato a rimanere legato al suo passato: chi vuole può essere anche in grado di rileggere il passato in modo che non blocchi il suo cammino ma che lo apra alle tappe nuove della vita futura, senza blocchi che gli impedirebbero di crescere.

Sacks richiama poi il grande ruolo del padre nell’aiutare i figli a vivere la fraternità, così per Abramo, così per Isacco, così per Giacobbe, anche quando sembra che questi prendano le parti di uno a discapito di un altro: qui davvero Sacks è illuminante nel dimostrare che l’essere di parte di un padre per un figlio non significa mai lo schierarsi contro l’altro figlio. Se solo lo si capisse! Altrimenti, ad esempio, non si riesce a capire come l’elezione di Israele da parte di Dio possa andare insieme con la volontà salvifica nei riguardi di tutti i popoli. Come comprendere ciò è detto nel capitolo nono Il rigetto del rifiuto, ed è esemplificato dalla storia di Lia e Rachele. L’autore fa osservare come nel testo venga detto che Giacobbe sposi Lia e ami anche / gam Rachele. La vicenda è un modo per uscire dalla logica dell’aut – aut per entrare in quella dell’et – et. Per giustizia Giacobbe sposa entrambe, e le ama. E la preferenza di un amore maggiore per una delle due non significa, non può e non deve significare, esclusione per l’altra. Amare uno non significa per forza odiare l’altro!  Ritorna così il tema di inizio, che ne costituisce poi il centro: l’amore per l’uno non significa il rigetto per l’altro, l’amare uno più di un altro non significa che l’altro non sia amato o che sia addirittura odiato e rifiutato. Anche qui Sacks è illuminante. L’amore è una esperienza umana, quella che fonda i legami tra amici e parenti, e non può essere elusa o disattesa: <<Un mondo in cui amassimo gli estranei quanto gli amici, i non parenti come i parenti, i figli di qualcun altro come i nostri, non sarebbe umano… Il quesito che pone è: come dobbiamo vivere – noi che siamo umani, che abbiamo passioni, piaceri, desideri, amori e quindi vulnerabilità? Un amore che non facesse distinzioni, che fosse remoto, distante, che non facesse discriminazioni, non sarebbe affatto amore per un altro essere umano nella sua particolarità>>[11].

Ma l’amore non è l’esperienza l’unica ed assoluta. Se umanamente l’amore può essere misurato sempre a partire dalla sua presenza o assenza o dal più e/o dal meno rispetto ad uno piuttosto che ad un altro, ciò non vuol dire che ciò comporti anche il venir meno di quell’obbligo di giustizia per cui, lo si ami o meno, occorre “dare a ciascuno il suo” come recita l’antica massima romana. Ciò significa il riconoscimento del ruolo e della prerogativa, nel caso biblico anche della vocazione, di tutti e di ognuno in particolare. Può anche essere che un padre ami un figlio più di un altro, e che il pericolo della rivalità fraterna sia naturale, ma ciò non è inevitabile: la Bibbia insegna che alla fine i fratelli sono chiamati al superamento della rivalità. E per farlo capire, a volte, Dio è pronto a schierarsi dalla parte del più debole o di chi sembra essere stato rifiutato: ecco perché Sacks parla della rivalità tra Caino e Abele[12] solo alla fine, in quanto prototipo di ogni rivalità. Caino non capisce che l’amore di Dio (come un padre) per Abele non significa mancare ai suoi obblighi di giustizia verso di lui: glielo dimostrerà quando alla fine imporrà il divieto di uccisione per l’omicida Caino. Dio ama Abele, ma non rigetta Caino! Così come nel patto con Noè dopo il diluvio Dio, che sceglie per amore il popolo ebraico, non rigetta per ciò tutti gli altri popoli.

Questo lungo excursus lungo le pagine della Scrittura è servito a Sacks per poter affermare che la rivalità (e quindi la violenza) fra i popoli non è inevitabile: e ciò lo dimostra nella terza parte del suo saggio dal titolo Il cuore aperto.

Così nel capitolo decimo, Lo straniero, viene ricordato come, per vedere nell’altro non può lo straniero, il rivale, il nemico, occorre la purificazione dello sguardo che nasce dal compenetrarsi nei panni dell’altro, chiedendosi cosa proverei io se fossi al posto dell’altro: amare l’altro in quanto altro è certo difficile, ma se nell’altro specchio me stesso, all’ora in un certo senso si può dire che amo l’altro come me stesso. Esemplificando: posso amare lo straniero solo se provo a pensare cosa significhi essere esuli dalla propria patria; e se poi davvero ho sperimentato ciò, non potrò fare a meno di avere comprensione e accoglienza per lo straniero che chiede ospitalità a casa mia, perché anche io sono stato straniero e forestiero, esule in Egitto. E’ in sintesi l’insegnamento della Bibbia.

In questo contesto si capisce l’approfondimento ulteriore fatto al capitolo undicesimo L’universalità della giustizia, la particolarità dell’amore. E’ la spiegazione del particolarismo del monoteismo ebraico: da un lato il Dio visto come Creatore e Sovrano dell’universo e dall’altro il Dio come colui che sceglie Israele. Quella che sembrerebbe una antitesi si rivela invece come la garanzia per la libertà dei singoli e dei popoli nei riguardi Dio, per espungere alla base ogni idea di intolleranza e quindi di violenza. Pur prendendo atto, dopo il diluvio, che nel cuore umano si annida il male, Dio rifiuta in futuro di distruggere il mondo con un nuovo diluvio: è la condiscendenza di Dio verso la reale condizione dell’uomo. Ma nel rifiuto della omologazione, con l’episodio della torre di Babele, Dio conferma il rispetto per ogni particolarismo (espresso dalle lingue diverse) contro ogni forma di totalitarismo: <<Babele è ciò che accade quando le persone cercano di imporre un ordine universale, obbligando Loro a diventare Noi. Il risultato è l’imperialismo e la perdita della libertà. … Quando una singola cultura viene imposta a tutti, sopprimendo la diversità di lingue e tradizioni, questo è un attacco alle nostre differenze donateci da Dio>>.

Arrivando alle conclusioni, allora, si deve dire che il punto di partenza di un autentico dialogo è il riconoscimento dell’inevitabile diversità dell’umanità. L’identità è plurale: non c’è una umanità in astratto, c’è l’umanità dei popoli e delle culture. Come superare la violenza, evitando che l’incontro fra popoli degeneri in uno scontro? Il Dio della giustizia della Bibbia ci ricorda che c’è una moralità, un’etica che riguarda tutti: <<giustizia, correttezza, e l’evitare di recare offesa sono quello che dobbiamo a chiunque, ebreo o gentile, credente o ateo, amico o estraneo, connazionale o straniero>>[13].

E’ in concreto, quella di Sacks, la ripresa della distinzione ebraica tra il patto con Noè e il patto con Abramo. Lo stesso Dio anzitutto vuole giustizia tra tutti i popoli, al di là se poi lui stesso instauri un rapporto privilegiato con un popolo in particolare. Ma il privilegio non esime lo stesso Israele dal rispettare gli obblighi di giustizia fondamentali. E’ per ciò poi che Dio, rispettando la libertà, non ha imposto lo stesso culto a tutti i popoli. Anche perché poi la stessa appartenenza alla alleanza di Abramo, o meglio la permanenza in essa, è data, al di là dei vincoli di sangue, dal cammino di obbedienza della fede e, in caso di disobbedienza, dal cammino di ritorno, teshuvà, conversione.

In questo contesto Sacks ricorda che c’è sempre un cammino di comprensione e di purificazione da fare per evitare una lettura fondamentalista e integralista della stessa Scrittura: è quanto fa al capitolo dodicesimo Testi difficili. E’ quanto ha dovuto fare il giudaismo col rileggere in chiave spirituale testi nati per altri contesti e che oggi potrebbero generare equivoci e inganni: ad esempio, con l’intendere in Amalek non tanto un nemico storico ben preciso, quanto la personificazione del male e del Nemico per eccellenza che tenta sempre il popolo di Dio e che cerca di sbarrargli la strada dell’obbedienza ai suo comandi. Una lettura che nasce anche dalla costatazione che una realizzazione storica di una ierocrazia, di uno stato in cui sacro e profano si supportano a vicenda, non è nelle prospettive della identità di Israele e della sua missione fra le genti. E’ quanto però si auspica venga fatto in certe letture di passi del Corano che potrebbero dare la stura a tentativi di imporre fanaticamente con la violenza il culto all’unico Dio.

Per far ciò si deve Rinunciare al potere, come è detto al capitolo tredicesimo. Si deve rinunciare ad ogni sogno di teocrazia, cioè di esercizio del potere politico. Sacks ricorda appunto come prima lo abbia compreso Israele, poi la stessa Chiesa, ora debba comprenderlo l’Islam. E’ un cammino di purificazione già delineato nella Bibbia: basti pensare all’episodio di Elia che pensa di imporre la fede in Dio con la forza e con l’uccisione dei profeti di Baal. Ma alla radice di questa volontà di potere c’è l’odio per il diverso: il frutto estremo dell’egoismo narcisista.

Liberarsi dell’odio è perciò quanto si dice al capitolo quattordici. E per far ciò bisogna superare la volontà di potenza e riaffermare la volontà della vita, come è detto nel capitolo finale, in cui tirando le somme di questo lungo discorso si conclude: <<ora è giunto il tempo per gli ebrei, i cristiani e i musulmani di dire ciò che non hanno detto nel passato: Siamo tutti figli di Abramo. E sia che siamo Isacco o Ismaele, Giacobbe o Esaù, Lea o Rachele, Giuseppe o i suoi fratelli siamo tutti preziosi agli occhi di Dio. Siamo benedetti. E per essere benedetti  non è necessario che qualcuno sia maledetto… Oggi Dio ci chiama, ebrei, cristiani e musulmani, a liberarci dall’odio e dalla sua predicazione, e a vivere, finalmente, come fratelli e sorelle, fedeli alla nostra fede e ad essere una benedizione per gli altri a prescindere dalla loro fede, rendendo onore al nome di Dio onorando la sua immagine, l’umanità>>.[14]

Al di là della diversità di genere e perciò di linguaggio si noti come questa analisi del rabbino concordi in tutto con quella fatta dal Documento della Commissione Teologica Internazionale da noi esaminato precedentemente.

Dal rifiuto che il monoteismo sia alla origine della violenza, al rifiuto dell’idea del politeismo tollerante, alla costatazione che la lotta alla religione abbia generato invece i grandi totalitarismi, alla lucida analisi della odierna secolarizzazione e alla ripresa del fanatismo intollerante, dall’evidenziare come la radice del male stia nel cuore dell’uomo, dall’evidenziare come la vera matrice biblica sia un appello all’amore, alla giustizia e alla fraternità, dal bisogno che comunque ogni esperienza religiosa rigetti ogni tentazione di uso diretto del potere o di connubio con chi lo detenga, dall’esigenza di sottoporre sempre l’esperienza religiosa alla verifica critica per evitare l’annidarsi in essa di letture integraliste, dalla voglia di mostrare il contributo che una autentica esperienza di fede può dare alla costruzione di una società più giusta e umana, senza chiusure e infingimenti.

In questo cammino cristiani ed ebrei ci sentiamo accomunati dalla fede nell’unico Dio che ci chiama al banchetto preparato sul suo santo monte e al quale sono chiamati ad affluire tutti i popoli, in un’era in cui, per dirla con Isaia, non ci eserciterà più nell’arte della guerra e le lance saranno trasformate in falci e le spade in vomeri.

Voglia il Signore che in questo cammino si possano unire anche altri popoli e che sia lui stesso a dirigere i nostri passi sulla via della pace.

 



[1] SACKS JONATHAN, Non nel nome di Dio. Confrontarsi con la violenza religiosa. Giuntina, 2017, pp. 314.
[2] cfr. ivi, pp. 13-20.
[3] SACKS, o.c., p. 13.
[4] Ivi, p. 14.
[5] Ivi.
[6] Ivi, p. 22.
[7] cfr. tutto il cap. 1: La malvagità altruistica.
[8] Ivi, p. 37.
[9] Ivi, p. 66.
[10] Ivi.
[11] Ivi, p. 183.
[12] Ivi, p. 185.
[13] Ivi, p. 210.
[14] Ivi, p. 280.

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