sabato 23 gennaio 2016

Elogio della lentezza

Ho una sveglia strana sul comodino: quando accendo di notte la sua lucina, impartisce un comando alle sue lancette imprimendo loro un moto antiorario. Così ad esempio se la prima volta accendo alle sei e controllo dopo un’ora, la seconda volta scopro che sono le cinque, cioè un’ora indietro invece delle ore sette come dovrebbe regolarmente segnare. Confesso che un paio di volte, quando ancora non avevo scoperto tale meccanismo (ché invece se non tocco il comando della lucina tutto funziona alla perfezione) ho quasi mancato gli appuntamenti fissati! Per questo, dopo aver scoperto l’inghippo, ho dovuto sciogliere un dilemma: o cambiare sveglia o convivere con questa sua peculiarità. E’ andata per la seconda ipotesi. Perché non mi attira tanto la curiosità della cosa (non sono proprio esperto di problemi di fisica e di meccanica) ma è perché mi ha  solleticato un po’ quella specie di  riflessioni a metà tra il filosofare e il semplice “oziare pensando” che ora voglio condividere con voi. Partiamo dal fatto: la mia sveglia mi riporta indietro nel tempo: certo lo fa per un difetto meccanico e non per darmi il piacere di farmi rimanere un po’ di più a letto, né perché ha coscienza di tutti i tentativi fatti di poter viaggiare avanti e indietro nel tempo (e speriamo che non sia manovrata neanche da un diavoletto in vena di scherzi). Eppure se io spegnendo la sveglia mi riaddormentassi convinto di aver ancora tanto tempo cosa succederebbe? Sarebbe un’ora di sonno perso o riguadagnato? Certo il risveglio mi riporterebbe alla dura realtà: ma allora il tempo che ho vissuto cosa è stato? E, ancora più in profondità: quando posso definire “mio” il tempo che vivo? Non si tratta di andare alla ricerca del tempo “perduto” o solo “passato”: Proust ha scritto già tanto in proposito  e credo che non si possa guardare al passato solo in vena di nostalgia o di rimpianti. Che il tempo scorra – e che noi scorriamo col tempo e nel tempo - è un dato di fatto. E che la vita poi abbia i suoi tempi – e tutti da vivere pienamente – ce lo ricorda il Qoelet: “un tempo per nascere, un tempo per morire, un tempo per ridere, un tempo per piangere…”  Quello che mi preoccupa oggi è una sorta di espropriazione del tempo di cui noi oggi siamo un po’ tutti vittime: o meglio, del senso stesso del tempo ( già il romanzo Momo aveva dato voce a questa preoccupazione). E parlando del tempo chiaramente mi riferisco non solo alla mera scansione di secondi, minuti ed ore e giorni e mesi ed anni… vissuto in questo modo il tempo non si riduce che ad una serie di scadenze, appuntamenti, impegni da rincorrere e da non mancare (vi ricordate del coniglio in perpetuo ritardo del Paese delle Meraviglie di?) in una continua e progressiva alienazione da se stessi. Mi riferisco al tempo nel senso in cui ne parlava S. Agostino, come misura delle emozioni e dei sentimenti del cuore. E’ in questo senso che si dice che ognuno ha i suoi tempi, i suoi ritmi, il suo modo di vivere anche questa dimensione della vita. Perché le emozioni non si possono bruciare, si devono vivere e gustare fino in fondo, centellinandole pian piano come un buon bicchiere di vino. Costretti a scappare da un impegno all’altro, da un luogo all’altro, sempre di fretta, spesso siamo obbligati quasi a non dare conto o sfogo alle nostre emozioni. E così non ci accorgiamo neanche di vivere. Mi hanno raccontato di un esploratore che per salire sulle Ande aveva assoldato due guide indigene pianificando i chilometri da percorrere ogni giorno. Per i primi giorni tutto va bene. Poi le due guide si accamparono e per due giorni non si vollero muovere. Interrogati risposero: “stavamo andando troppo in fretta e le nostre anime facevano fatica a seguirci! Abbiamo dovuto aspettarle!” In un tempo in cui il valore è dato dal “fast” (e non solo food) credo occorra un ritorno allo “slow”: c’è chi ha scritto in proposito un “elogio della lentezza” che condivido in pieno. Confesso che se c’è una cosa che mi fa arrabbiare è quando qualcuno mi mette fretta per cose che invece occorre fare con calma. Si dice: “non rimandare a domani quello che puoi fare oggi”: e se lo riformulassimo in “non anticipare ad oggi quello che puoi fare ugualmente domani?”. E se recuperassimo il senso del riposo? Non è questa la motivazione anche della festa domenicale? E ancor più del riposo sabbatico per Israele? Occorre oggi recuperare la qualità della vita e quindi anche del tempo. Chi sarà il nuovo Giosuè che avrà il coraggio di ordinare “fermati, uomo?”       



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